Eduardo Ambrosio


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SPACCATI DI VITA A NAPOLI

Gem. saggezza, Diete, Sarno e... > SAGGEZZA A NAPOLI

Spaccati di vita a Napoli
Una città aperta al futuro ma prigioniera del proprio passato


TRA STORIA,TRADIZIONE, RELIGIONE E SUPERSTIZIONE

" ... IL LEGAME SENTIMENTALE COL PASSATO PREPARA E AIUTA L'INTELLIGENZA STORICA, CONDIZIONE DI UN VERO AVANZAMENTO CIVILE, E SOPRATTUTTO ASSAI INGENTILISCE GLI ANIMI"
(Benedetto Croce)

sommario:
- il miracolo di san gennaro ( 'o curniciello)
- Cappella Sansevero e Cristo Velato
- 'A capa 'e Napule - Partenope
- 'O munaciello e la Bella 'Mbriana

-
figure caratteristiche: i lazzari, femminiello, 'a fettiata e' o surdiglino
- attività contadine: tràfeca e trafecà -
- mestieri: o pezzente, 'e pannazzare, 'o cravunaro (con 'o cenneraro e o' furnacellaro), 'a lattàra', o mastrillo e a grattacaso ( con soreciaro e acchiappacane).
- FRAVECATURE una poesia di RAFFAELE VIVIANI

IL MIRACOLO DI SAN GENNARO
Napoli è da oltre 500 anni capitale mondiale delle reliquie. Custode di circa 200 ampolle contenenti grumi di sangue di santi, martiri ed asceti, dopo la caduta dell'Impero Romano d'Oriente nel 1453, immagini religiose di ogni tipo e reliquie varie affluirono nella città partenopea e da allora non si sono più mosse, pur cadendo lentamente nell'oblio.
Alcuni di questi grumi presentano la stupefacente caratteristica di liquefarsi con una precisione anche superiore a quella del celeberrimo San Gennaro. L'affascinante universo esoterico napoletano, patrono a parte, può partire da alcune delle reliquie più note:
il sangue di Santo Stefano, custodito nel Monastero di Santa Chiara, che si liquefa il 3 agosto ed il 25 dicembre; quello di Sant'Alfonso Maria de' Liguori, conservato nella chiesa della Redenzione dei Captivi, che si scioglie il 2 agosto; quelli di San Pantaleone e di San Luigi Gonzaga, nel Gesù Vecchio, attivi entrambi il 21 giugno o quello di Santa Patrizia, il più dinamico in assoluto, conservato a San Gregorio Armeno.
Sorprendente è il comportamento del sangue del Battista, proveniente dalla Francia, scioltosi per la prima volta nel 1554 durante la celebrazione della messa nel convento di Sant'Arcangelo di Baiano (dove era custodito): quando il convento venne soppresso, per il leggendario comportamento licenzioso delle monache, il sangue del santo, diviso in due ampolle, venne affidato alle monache di San Gregorio Armeno e di Donnaromita. La prima ampolla continua regolarmente a vedere sciogliersi il sangue, mentre la seconda ha cessato ogni attività dal Seicento. Quando anche il monastero di Donnaromita venne soppresso, l'ampolla "inattiva" ritornò vicino alla gemella conservata a San Gregorio Armeno e stranamente ha cominciato a manifestarsi in formato ridotto, con un semplice arrossamento, in occasione della festa del santo.
La prima notizia certa sulla liquefazione del sangue di San Gennaro risale al 17 agosto del 1389, quando vi fu l'esposizione pubblica delle reliquie durante i festeggiamenti dell'Assunta, in quella occasione, particolarmente per accogliere un'ambasceria di Avignone.
Il
vero nome di San Gennaro era Ianuario, a Napoli diventato Gennaro (che era in realtà il cognome, mentre il nome di battesimo era Procolo). Discendeva, infatti, dalla famiglia gentilizia Gens Januaria, sacra al bifronte dio Giano.
Nella prima metà del III secolo, in piena persecuzione cristiana da parte di Diocleziano, per ordine del giudice
anticristiano Dragonzio,
San Gennaro, vescovo di Benevento in visita ai fedeli di Pozzuoli, fu martirizzato con la decapitazione. Il suo sangue, oggi, è custodito in due piccoli balsamari vitrei e di aspetto diverso databili ai primi decenni del IV secolo. Sono tre le date il cui si aspetta il ricorrente prodigio: la vigilia della prima domenica di maggio (prima traslazione, il 16 dicembre (eruzione del 1631) e il 19 settembre (data del martirio).
I tempi per la liquefazione del sangue variano. L'attesa può durare qualche secondo, ore o giorni, la brevità dell'attesa è di buon auspicio.
La
Cappella di San Gennaro in Duomo fu costruita nei primi anni del Seicento per assolvere al voto fatto dai napoletani durante la peste del 1527. Da allora, il miracolo ebbe una sede precisa e fastosa, nella quale il popolo accorreva nei casi dei emergenza cittadina per invocare a gran voce la salvezza dal Santo, anche senza risparmiargli i più coloriti e confidenziali appellativi nel caso di ritardi eccessivi.
San Gennaro, quindi, non significa soltanto devozione religiosa nei confronti di un santo prestigioso con alle spalle una storia che dura da anni, ma rappresenta anche un punto di riferimento per credenze popolari, moltissime delle quali pure e semplici superstizioni.
Tuttavia da segnalare che, nel periodo repubblicano del 1799, il popolino cominciò a preferire S. Antonio a S. Gennaro, reo di aver fatto il miracolo con i giacobini.

Legato a San Gennaro è anche il significato dell'antimalocchio per eccellenza " 'o curniciello": un cornetto che rappresenta il dito mignolo del Santo che si rattrappì in seguito alla decapitazione. Esso deve essere rosso o, ancora più efficace, nero per attirare di più il malocchio; se portato addosso deve essere occultato, mentre in casa deve essere strofinato e appeso dietro la portata d'ingresso.


Cappella Sansevero e Cristo Velato

Nel XVIII secolo era molto noto a Napoli Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero; una figura molto misteriosa votata a pratiche miste di scienza e magia, che a Napoli trovava fertile terreno data la forte superstizione.
Il Principe, dotato di fervida immaginazione, di spirito ironico e irriverente, di sconfinata curiosità, fonde chimica e alchimia, fisica e magia, storia e leggenda. Abitava il
palazzo maledetto, da molto tempo disabitato, dove, oltre cento anni prima, Carlo Gesualdo, principe di Venosa, vi aveva ucciso per gelosia la moglie Maria d'Avalos - evento molto sentito nella fantasia popolare: si udiva il grido angoscioso della bella Maria. Passava gran parte del suo tempo nel laboratorio nei sotterranei del palazzo, tra ritrovati di alchimia e macchinari. La sua inventiva, volta soprattutto a meravigliare e a divertirsi, produsse un archibugio avveniristico per Carlo III di Borbone, un cannone leggero e molto più potente di quelli in uso, una macchina idraulica che sollevava l'acqua senza bisogno di energia, stoffe impermeabili, quadri tridimensionali, colori particolari nei fuochi d'artificio, una carrozza di sughero per passeggiare sul mare. Il lume perpetuo, ecc. Anche la sua morte è avvolta nel mistero.
Collegata al palazzo vi è la
Cappella Sansevero, la testimonianza più eloquente dell'attività del Principe, dove, tra bizzarrie e geniali soluzioni tecniche, trovano posto la tomba di Cecco di Sangro, che con l'elmo e la spada in pugno balza fuori dal suo sepolcro, ma il capolavoro assoluto della Cappella è il Cristo Velato dello scultore Sammartino: sul corpo appena deposto dalla Croce è posato, scolpito nello stesso blocco di marmo, un velo sottilissimo che fa trasparire in modo straordinario i tratti del viso, la muscolatura del corpo, persino i fori fatti dai chiodi sulle mani e sui piedi. Una meraviglia che continua a stupire e a commuovere chi l'osserva. Ancora oggi si discute sulla realizzazione del velo tra alchimia e particolarissima tecnica scultorea.
Nella Cappella 'o Prencepe sono presenti anche due
"macchine anatomiche", ossia abili riproduzioni di parti del corpo umano: la leggenda parla che il Principe fece uccidere due servi, un uomo e un donna, per imbalsamarne stranamente i corpi, in modo che attraverso lo scheletro mostrassero alcuni organi e la rete completa delle vene e delle arterie, marmorizzati o metallizzati secondo un processo segreto.

'A capa 'e Napule
Affettuosamente i napoletani chiamano
Donna Mariana 'a capa 'e Napule la grande testa marmorea raffigurante la sirena Partenope (che, secondo la leggenda, morì sull'isolotto di origine vulcanico di Megaride - attuale Castel dell'Ovo ex Castello Marino per l'uovo magico deposto da Virgilio, ritenuto un mago, nelle sue segrete a difesa del castello e della città) posta sullo scalone centrale di Palazzo S. Giacomo (il municipio di Napoli).


'O munaciello e la Bella 'Mbriana
Le case napoletane specie quelle del centro storico piene di anfratti e corridoi in penombra, erano caratterizzate da numerose leggende che si sono costruite nel corso del tempo - oralmente trasmesse di generazione in generazione, grazie anche alle famiglie numerose con la presenza di nonni e bisnonni - assorbendo emozioni, pensieri e vicende degli esseri umani che le hanno abitate e sono un luogo magico e sacro per le entità che si muovono fra le loro mura e convivono con gli abitanti, come 'o munaciello (folletto domestico dispettoso e generoso, allegro e vendicativo), o che addirittura ne costituiscono l'essenza, l'anima, come la Bella 'Mbriana..
I più anziani nel rientrare in casa salutavano anche se non c'era nessuno in casa: si salutava la casa o meglio l'anima della casa: la Bella 'Mbriana - come il "genio" degli antichi o la "fata del focolare" di epoca cristiana. Presenza gentile e benevola ma temuta - non si parla male della casa né la si divide perché perderebbe la sua identità - la Bella 'Mbriana, quale entità invisibile, è difficile da descrivere: La sua immagine può apparire per un istante in una tenda bianca mossa dal vento o nel riflesso di una finestra, comunque viene immaginata come una giovane donna dal viso dolce e sereno, una figura solare, come del resto dice il suo nome, che significa
meridiana, bella come l'ora più luminosa del giorno.



FIGURE CARATTERISTICHE:

I Lazzari: La gente: l'anima più autentica di Napoli.
La critica classica che si muove - soprattutto dai nordici, che giudicano oziosa qualunque persona che non s'ammazzi di lavoro da mane a sera - al popolo napoletano che in città vi sarebbero decine di migliaia di fannulloni, va storicamente smentita o quantomeno chiarita e giustificata. Questa falsa e conveniente accusa di indolenza e ozio affonda le sue radici nella tormentata storia che questo popolo è stato costretto a vivere. Per una città critica come Napoli, non era impresa facile sostenere il ruolo di riserva finanziaria del sistema imperiale spagnolo: la pressione fiscale cresceva, una spaventosa crisi economica avanzava; fatte le dovute eccezioni, si scopriva un clero senza pietas, che avrebbe dovuto occuparsi di quest'umanità dolente, trasformato in cinico faccendiere; di fronte alle sempre più inique e insostenibili richieste del vicereame spagnolo, già da tempo i lazzari avevano costituito una specie di nuovo soggetto politico, incarnatosi nel 1647 nella figura del pescivendolo Tommaso d'Amalfi detto Masaniello. Erano stati gli spagnoli a soprannominare laceria questo plotone di diseredati che viveva animalescamente all'aria aperta. Lazzari, lebbrosi e/o miserabili, che Goethe, il grande letterato e viaggiatore - camminando per sfatare un pregiudizio nordico tra facchini, marinai, pescatori, vetturini e decine di bambini affaccendati nei più svariati, umili mestieri - guarda con benevolenza ed elabora una memoria difensiva per queste canaglie cenciose, capaci di slanci entusiastici e di spietatezza sorprendente, che senza elevare il lavoro a sistema di vita si arrangiano penosamente con irresistibile noncuranza (in calce il brano di Goethe). I Lazzari, icone viventi del sacro e profano in un'alternanza sconcertante con bambini che si industriano per sopravvivere, tanti lavorano sin dal sorgere del sole dignitosamente rassegnati ad una storia che non può evolversi, paralizzata da un blocco ancestrale (un destino di incolpevoli sopravvissuti senza scampo); che fa scegliere senza strazio di tirare a campare all'insegna dell'oraziano carpe diem.

<<Dopo aver conosciuto brevemente le condizioni di vita del Sud - scrive Johann Wolfgang Goethe, il 28 maggio 1787 - mi sono reso conto che quella era un'idea tipicamente nordica che considera oziosa qualunque persona che non s'ammazzi di fatica da mane a sera; perciò mi sono messo a osservare attentamente il popolo, in movimento o a riposo, e hp notato molta gente malvestita ma nessuno del tutto inoperoso. Ho chiesto quindi ad alcuni amici se esistessero davvero quei perdigiorno, perché anch'io volevo riscontrarne la presenza. nemmeno loro sono stati in grado di indicarmeli, cosicché mi sono deciso ad andare a cercarli per conto mio, e nel contempo mi sarei visitato la città.
Ho cominciato ad orientarmi -
continua Goethe - in quella immensa baraonda, identificando diversi tipi e classificandoli per il loro aspetto, il loro abbigliamento, i loro comportamenti, le loro occupazioni. Questo compito non si è rivelato arduo perché qui l'uomo è molto meno compresso che altrove e manifesta apertamente a quale ceto appartiene. Ho iniziato le mie osservazioni all'alba e se ho incontrato gente ferma a quell'ora, era perché avevano un attimo di tregua dal loro lavoro. I facchini, che nelle varie piazze hanno posti loro riservati, aspettano che qualcuno li chiami; i vetturini, con servi e garzoni, accanto ai calessi a un tiro, stanno sulle grandi piazze e curano i loro cavalli, attendendo chi ha bisogno di loro. I marinai fumano la pipa sul molo, i pescatori stesi al sole, in attesa che il vento torni favorevole e consenta loro di prendere il largo. Ho visto anche un andirivieni di gente, che non ho inquadrato con precisione, ma che lasciava presumere un'occupazione. Non ho incontrato mendicanti, se non uomini vecchissimi, storpi o inabili al lavoro. Più protraevo la mia osservazione più mi era impossibile trovare gente del tutto oziosa sia tra il popolino che nell'ambito del ceto medio, sia al mattino che durante la giornata, giovani o vecchi, uomini o donne.
Porterò qualche esempio
- conclude Goethe - per rendere più credibile quanto vado sostenendo. Persino i bambini si danno da fare in vari modi. Prevalentemente portano i pesce per la vendita da Santa Lucia in centro; altri gironzolano nei pressi dell'Arsenale o dove lavorano il falegnami e vi è abbondanza di trucioli, oppure ancora dove la risacca deposita ramoscelli o piccoli pezzi di legno che raccolgono in cestini, fino ai pezzetti più piccoli. Sono bambini in tenera età, che ancora on si reggono bene in piedi e che s'impegnano in questa attività assieme ai bambini un po' più grandi di loro, tra i cinque e i sei anni. Con le loro ceste si avviano in centro, e si siedono disponendo la loro merce come se fossero al mercato. A comprare sono artigiani o modesti borghesi, che usano i piccoli legni per farne brace nei treppiedi, per scaldarsi cucinare.
Altri ragazzi vanno in giro vendendo l'acqua delle fonti sulfuree, di cui si fa un gran consumo specialmente nel periodo primaverile. Altri cercano di guadagnare qualcosa vendendo frutta, zucchero filato, ciambelle e zuccherini, e come commercianti in miniatura offrono e vendono la loro merce anche ad altri bambini se non altro per averne gratis una parte. Che tenerezza fanno questi piccini che se ne vanno in giro con un rametto e un coltello, la loro bottega, trasportando un'anguria o una messa zucca arrostita: intorno si affollano i monelli, il bimbo posa a terra tutto e incomincia a tagliare tenti pezzetti. I compratori se ne stanno attenti per controllare che la loro porzione sia corrispondente alla monetina di rame e il minuscolo venditore tratta con questi famelici con altrettanta prudenza, badando di non rimetterci nemmeno un pezzetto. Sono più che certo che soffermandomi ulteriormente, sarei in grado di raccogliere ancora molti esempi di queste attività infantili>>.




Femminiello: Uno dei più antichi e magici personaggi dell'universo dei quartieri popolari.
Cerasela, Assunta in cielo, Terrì Bon Bon, Nucchetèlla, Orchidea, 'A bidelluccia mia, 'A sposa nera, Donna cucù, Bataclàn, Cappellavecchia, Vel' e sposa sono i nomi che, evocando colorati universi, riguardano femminelle della città, persone che non hanno niente a che fare con il moderno gay o travestito, vere e proprie femminelle che sono sempre più rare.
Il femminiello è una figura omosessuale tipica della cultura tradizionale popolare partenopea di aspetto marcatamente effeminato se non proprio travestito. Presenza consueta a Napoli da tempo immemore, a volte spettacolarizzata, esibita con naturalezza o seminascosta (Di Giacomo dice dell'"Imbrecciata" con il suo "vico Femminelle").
Questa figura napoletana, molto studiata, è interessante dal punto di vista comportamentale e antropologico, presenza familiare dei quartieri popolari di Napoli, geneticamente maschile con atteggiamenti, movenze e bisogni tipicamente femminili, mai travestito totalmente è vissuto ben integrato fino agli anni Ottanta.
Dedicandosi a piccoli aiuti domestici la femminella aiutava a fare la spesa giornaliera, badava ai bambini delle famiglie in cui le madri erano costrette a lavorare si dedicava ai lavori di casa, al rammendo degli abiti, teneva compagnia agli anziani, insomma collaborava attivamente all'arcaica economia del vicolo e non era mai un deviato ma al massimo uno stravagante.
Né uomo né donna, era la figura per eccellenza della diversità ed era depositaria dei poteri magici dei diversi. Così la femminella tirava i numeri per la riffa e gridava quelli della smorfia per giocare al lotto o alla tombola in una comunità che ne rispettava e difendeva il ruolo.
La collettività sostituendo la comunità ha inghiottito la femminella producendo altre forme di identità di genere meglio affermate come il travestito, il transessuale o il potente gay occidentale. Quest'ultimo ha cambiato ambienti e tipi di rapporto con una forte differenza di orientamento e scelte sessuali:
il gay può accoppiarsi con altri gay, la femminella non può accoppiarsi con altri come lei, ma solo con il maschio eterosessuale.
Insomma non c'è stata un'evoluzione bensì un'estinzione silenziosa della femminella, soppiantata da figure meglio radicate nel humus sociale.

'A fettiata e' o surdiglino
Erano i mezzi che i giovani degli anni Quaranta e Cinquanta usavano per i primi approcci con la ragazza prescelta.
La
fettiata (lanciare il "fietto") prevedeva sguardi intensi e innamorati. Il surdiglino era un fischio al contrario, sottilissimo e indicativo dell'apprezzamento verso la ragazza. Il protocollo prevedeva, poi, se lo spasimente era timido, l'invio della 'mmasciata tramite un parente o la immancabile sanzàra (faceva 'a ruffiana e purtava 'e ccazette rosse) e poi la successiva dichiarazione o anche effettuando il "fermo". Altro modo di dichiararsi era la serenata (ultimamente tornata di attualità - che era o mannata, senza lo spasimante o purtata, con la presenza dello spasimente o anche fatta, quando cantava lo spasimante) accompagnata da prufessure 'e cuncertino; se gradita sul balcone o sull'uscio ('ncopp 'o stante 'e porta) uscivano la mamma, il papà e quindi la diretta interessata che magari lanciava un fiore; altrimenti era stigmatizzata con un "jateve a cuccà ca 'a paranza è loffia".
Tutto il contrario dello sgradevolissimo
pernacchio. Da qui il detto "'e fatta 'a fina 'e Pullecenella ca pigliava 'e pernacchie pè surdigline".

ATTIVITA' CONTADINE


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A Tràfeca e Trafecà
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A tràfeca era un'operazione relativa alla conservazione del vino che si effettuava rigorosamente tra la fine di febbraio e la prima metà di marzo, quando i contadini vesuviani, seguendo i segni dell'aria, del sole e della luna, travasano il vino, una delle azioni più rituali del nuovo anno.
Tràfeca significa traffico o trafficare, cioè quel traffico che avveniva tra le varie zone della cantina o del cellaio di persone e cose, di lavaggi delle cummudità - comodità: damigiane, bottiglie, fiaschi e 'mpagliate (contenitore con paglia attorno alla pancia antiurti) e perette (bottiglie a forme di pera) - per sistemare il vino nuovo che in questo periodo doveva essere tolto dalla feccia (residuo di vinaccia). 'A tràfeca, dunque, era il trafficare tra mezevotte (mezze botti), carrati e varrecchie mediante cupielli, secchi e carrafelle (caraffe) per travasare il vino appunto dai grandi contenitori in cui il vino aveva riposato per alcuni mesi, e potuto quindi compiere il miracolo di trasformarsi da succo d'uva in prezioso nettare ('o llatte d''e viecchie, - senza denti come i neonati), bianco o rosso, in recipienti di minore capacità, preventivamente energicamente lavati con acqua bollente ('a cavora) e pietre (il loro sfregamento sulle pareti avrebbe liberato le doghe dai residui fecciosi) e quindi disinfettati con cannucce di zolfo (per uccidere i microrganismi ed evitare che il vino andasse a male: è juto nu poco 'e spunto - un po' acido o fila come l'olio per cui iniziava la ricerca per aggiustarlo con mezzi chimici o tecnologie empiriche) che venivano accese all'interno dei recipienti: varrile (barile), varricchione (barilotto), varrecchia (botticella) e varricchiella (botte ancora più piccola); e questo perché il vino per diventare della giusta gradazione alcolica doveva invecchiare nel legno (ultimamente nelle più igieniche ma meno saporose e aromatiche damigiane di vetro da 54 litri) dal quale poi assorbiva aromi e forza. Ultimo atto della tràfeca era quello di travasare il vino in fiaschi, bottiglie e perette ('mperettà 'o vino) pronti all'uso.
Il vino era immancabile in un pranzo a base di fagioli e peperoncino, di zuffritta (soffritto) 'e puorco (di maiale) col pupanio la cosiddetta zuppa forte, aveva anche il ruolo di spugnà (ammollare) il pane tuosto (duro) e di essere il dolce dei ragazzi: una fetta di pane con sopra una spruzzata di vino e una cucchiaiata di zucchero.
I
l vino andato a male, invece, diventava aceto e usato per incallire (diventare dure e callose) le chiòchiare (peperoni tondi e corti, in genere di colore rosso), che fritte erano un ottimo ed esclusivo contorno per baccalà o custatelle fritti.

Trafecà era la vendita del vino.
Essa era una festa e durava l'intera giornata: le donne con cupielli e coruogli (un panno arrotolato per reggere sulla testa il cupiello) trasportavano il vino dai fusti in cantina alle botti per formare 'o carr' 'e vino (circa 12 quintali), le botti venivano pesate con una bilancia ad argano procurata dal sànzaro (mediatore) e caricate sui carretti per i cantinieri di Napoli. Concluse le operazioni il contadino offriva un pranzo a tutta la comitiva con cibarie offerte in genere sia dal contadino che dal cantiniere il tutto annaffiato dal vino che veniva attinto abbondantemente direttamente dal cupiello.
Da notare che il contadino per essere pagato, qualche tempo dopo, si doveva con tanta umiltà recare la domenica mattina dal mediatore, che stabiliva il prezzo, la tara e tratteneva una provvigione del 10 per cento.

MESTIERI

'o pezzente

Uno dei mestieri che fino agli anni Settanta del '900 qualcuno, soprattutto in provincia, faceva era quel del pezzente - ieva pezzenno (elemosinando).
Il soggetto spesso ben vestito giungeva in un cortile o vicolo
si buttava a terra - se iettava 'nterra - fingendo un malore dovuto a finte malattie, mutilazioni o quant'altro; insomma metteva su una vera e propria sceneggiata. a volte la caduta era accompagnata da scatti e urla - se faceva ven' 'e mosse.
In genere la risposta che la commedia aveva era immediata e pietosa: le donne richiamavano l'attenzione, i ragazzi correvano a vedere cosa era successo, gli uomini si davano da fare per procurare una sedia dove far sedere il poveraccio. Spesso, lo svenimento
veniva finto anche da seduto e allora era tutto un accorrere a prendere l'aceto da mettere sotto il naso dell'attore e favorirne il rinvenimento.
La commedia durava il tempo necessario a che la comunità del vicolo sapesse della malattia dell'uomo (a volte anche di donne) e dell'impossibilità di lavorare.
E allora arrivavano pezzi di pane, qualche salame, una bottiglia di vino, da portarsi via in un sacchetto, dopo che l'uomo s'era un poco ristorato con un bicchiere di vino o altro. Quasi mai riceveva monete: il denaro era scarso per tutti. E, se qualche volta accadeva, le poche lire erano il frutto di una colletta tra tutto il vicinato che si era veramente commosso per la sorte dell'uomo oppure aveva apprezzato quella sorta di recita che 'o pezzente aveva fatto.
Poi il tutto veniva ripetuto in altro vicolo opportunamente distante.

'e pannazzare
Venditori ambulanti di stoffe. Essi arrivano in un cortile o vicolo con tutta la loro mercanzia posta sulle spalle. In genere si trattava di due grosse
mappate messe abilancia su una spalla; un'altra mappata era infilata al braccio sinistro, Un grido - 'o mesaleee! (tovaglia da tavolo) 'e panne p''a cucinaaa! (strofinacci per la cucina) - in genere bastava per far affacciare la massaia fuori dall'uscio. A quel punto l'uomo chiedeva due sedie o altro su cui apriva e stendeva la mercanzia: pezze di stoffa, di cotone o seta, in estate, o panno in inverno per tovaglie da cucine, per una gonna, ecc. Nella mappata al braccio vi era l'intimo: 'e cazettielle (calzini), 'e ma(u)ccature (fazzoletti).

'o cravunaro
Sempre tutto annerito portava nel vicolo
'e cravune (carboni) e 'a cravunella (carbonella), 'a vrasa p''a furnacella (la brace per la fornacella) e 'a muniglia (carbonella dalle briciole dei carboni per il braciere).
Ambulanti erano anche
'o cenneraro, che vendeva la cenere per il bucato (per il suo contenuto di potassio sbiancante, veniva utilizzato la culata, colata, una volta fatta bollire l'acqua con foglie di limone e di lauro) o' furnacellaro, venditore di fornacelle, attrezzo per cucinare con il tianello di creta per il ragù (pummarole 'e butteglia e carne 'e locena, coperto a metà da cupierchio o tiesto, peppuliva per ore, sino a quando non aveva raggiunto la consistenza della crema da associare ai ziti - pasta o maccheroni, ziti al ragù) della domenica.

'
a lattàra
In sostituzione del lattaio che girava con la sua vacca per fornire latte direttamente dalle mammelle. arrivò la lattaia che traspotava secchi di latta colmi di latte: il latte appena munto, tra le altre, serviva per preparare
'o llatte quagliato (il latte cagliato) uno squisito formaggio fresco da consumare in mattinata, su fette di pane caldo e croccante.

'o mastrillo e a grattacaso
Fino agli anni Settanta del '900 (cosa molto rara oggi, ma non del tutto scomparsa) i topi si prendevano nella trappola e con il solo aiuto del formaggio nei paesi girava l'ambulante che vendeva il mastrillo. 'O mastrillo, la trappola per topi
(piccola gabbia con uno sportellino a scatto che si chiudeva quando il topo azzannava il pezzetto di formaggio o di acciuga: 'o sorece era juto int''o mastrillo) si poteva trovare anche nella bottega del ferramenta, 'a ferrareccia. Un aiuto alle massaie che volevano disinfettare la casa dai roditori, oltre alla classica trappola, erano i diffusi gatti soreciari , specializzati nell'acchiappare i topi (il topo, 'o sorece furbo; infatti si diceva nu pe' niente è figlio 'e zoccola - ratto o pantegana: la famiglia di topi invia l'assaggiatore per provare la bontà del pasto - uno si sacrifica per tutti). Mestieri erano anche quelli d''o soreciaro, esperto del settore, che interveniva quando i topi erano molti e con i suoi intrugli sterminava la colonia di roditori e dell'acchiappacane, accalappiacani .



FRAVECATURE una poesia di RAFFAELE VIVIANI

All'acqua e a sole fràveca \ Cu na cucchiara 'mmano, \ pe' llaria 'ncopp' a n'anneto, \ fore a nu quinto piano.

Nu pede miso fauzo, \ nu muvimiento stuorto, \ e fa nu vuolo 'e l'angelo: \ primma c'arriva, è muorto.

Nu strillo; e po' n'accorrere: \ gente e fravecature. \ - Risciata ancora… E' Ruoppolo! \ Tene ddoie criature!

L'aizano e s' 'o portano \ Cu na carretta a mano. \ Se move ancora ll'anneto \ fore d' 'o quinto piano.

E passa stu sparpetuo, \ cchiù d'uno corre appriesso; \ e n'ato, 'ncopp 'a n'anneto, \ canta e fatica 'o stesso.

'Nterra, na pala 'e cavece \ cummoglia 'a macchia 'e sango, \ e 'e sghizze se sceréano \ cu 'e scarpe sporche 'e fango.

Quanno 'o spitale arrivano, \ la folla è trattenuta, \ e chi sape 'a disgrazia \ racconta comm'è gghiuta.

E attuorno, tutt' 'o popolo: \ - Madonna! - Avite visto?\ - D' 'o quinto piano! - 'E Virgine! \ - E comme, Giesucristo … ?!

E po' accumpare pallido \ chillo c' 'ha accumpagnato: \ e, primma ca ce 'o spiano, \ fa segno ca è spirato.

Cu 'o friddo dint'a ll'anema, \ la folla s'alluntana; \ 'e lume già s'appicciano; \ la via se fa stramana.

E 'a casa, po', 'e manibbele, \ muorte, poveri figlie, \ mentre magnano, a tavola, \ ce 'o diceno a 'e famiglie.

'E mamme 'e figlie abbracciano, \ nu sposo abbraccia 'a sposa… \ E na mugliera trepida, \ aspetta, e nn'arreposa.

S'appenne 'a copp'a ll'asteco; \ sente 'o rilorgio: 'e nnove! \ Se dice nu rosario… \ e aspetta e nun se move.

L'acqua p' 'o troppo vòllere \ S'è strutta 'int' 'a tiana, \ 'o ffuoco è fatto cénnere. \ Se sente na campana.

E 'e ppiccerelle chiagneno \ Pecché vonno magna': \ - Mammà, mettìmmo 'a tavula! \ - Si nun vene papà?

'A porta! Tuzzuléano: \ - Foss'isso? - E va 'arapi'. \ - Chi site? - 'O capo d'opera. \ Ruoppolo abita qui?

- Gnorsì, quacche disgrazia? \ Io veco tanta gente… \ - Calmateve , vestiteve… \ - Madonna! - 'Ecosa 'e niente.

'E sciuliato 'a l'anneto \d' 'o primmo piano. - Uh, Dio! \ E sta 'o spitale? - E' logico. \ - Uh, Pascolino mio!

E ddoie criature sbarrano \ Ll'uocchie senza capi'; \ a mamma, disperannose, \ nu lampo a se vesti';

e cchiude 'a dinto; e scenneno \ pe' grade cu 'e cerine. \ - Donna Rache'! - Maritemo \ Che ssà, sta 'e Pellerine.

E' sciuliato 'a ll'anneto,\ Sì, d' 'o sicondo piano. \ E via facenno st'anneto \ Ca saglie chiano chiano.

- Diciteme, spiegateme. \ - Curaggio. - E' muorto?! - E' morto! \ D 'o quinto piano. ' All'anneto.\ Nu pede miso stuorto.

P' 'o schianto, senza chiagnere, \ s'abbatte e perde 'e senze. \ E' Dio ca vo' na pausa \ a tutte 'e sufferenze.

E quanno 'a casa 'a portano, \ trovano 'e ppiccerelle \ 'nterra, addurmute. E luceno\ 'nfaccia ddoie lagremelle.

'E TTREZZE 'E CARULINA di Salvatore di Giacomo

Oje pétteno ca piéttene \ e ttrezze 'e Carulina, \ damme nu sfizio, scíppala \ scíppala na matina.

E tu specchio addó' lùceno \ chill'uocchie addó' cantanno \ ride e se 'mmira, appánnete \ quanno se sta ammiranno.

Lenzole addó' se stènnono \ 'e ccarne soje gentile, \ 'nfucáteve, pugnítela, \ tutto stu mese 'abbrile.

E vuje teste d'anèpeta, \ d'aruta e 'e resedá, \ seccáte 'ncopp'a ll'ásteco \ facíteve truvá.

Ma 'o pétteno ca péttena \ 'e ttrezze 'e Carulina, \ è sempe 'o stesso pétteno \ 'e tartaruga fina.

'O specchio è de Venezia \ e nun ha fatto mosse, \ 'e llenzulelle smòveno \ n'addore 'e spicaddossa.

E manco nun mme sentono \ ll'aruta e 'a resedá: \ cchiù ampresso 'ncopp'a ll'asteco \ abbrile 'e ffa schiuppá.

E sti scungiure, è inutile, \ nn' 'a pònno cchiù arrevá.\ Cchiù 'nfama e cchiù simpatica, \ cchiù bella assaje se fa.


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