Eduardo Ambrosio


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ECONOMIA ITALIANA

STORIA > I TEMI DEL '900


STORIA ED EVOLUZIONE DELL'ECONOMIA ITALIANA


LO SVILUPPO FINO ALLA GRANDE GUERRA

Un quadro esaustivo deve obbligatoriamente analizzare le premesse sin dal 1500 e utilizzare come punto di riferimento l'anno 1896, vero e proprio spartiacque dello sviluppo dell'economia italiana, in seguito si chiarirà il perché.

L'economia italiana del '500, '600 e '700,
essendo caratterizzata diffusamente da attività manifatturiera, è molto evoluta, registra una forte flessione con l'avvento dell'industria (attività macchina-fatturiera). I banchi (poi banche, monti di pietà, ecc. - Repubbliche Marinare, Firenze, Lombardia e Olanda) erano depositi di moneta pregiata (oro o argento) e provvedevano ai prestiti. Poi compaiono le monete collaterali (bronzo o rame) e infine, data la necessità di commerciare a distanze sempre maggiori, la carta inizialmente vere e proprie cambiali avallate dalla banche, poi carta-moneta (soprattutto in Francia).

Lo sviluppo economico interagisce direttamente con lo sviluppo scientifico (laboratori, ricerca) per cui in generale tale sviluppo è, in massima parte, culturale, le risorse (materie prime, geografia, clima, ecc.) incidono in maniera secondaria (i paesi arabi pur essendo ricchi di materia prima non decollano). L'evoluzione sociale è economica ed è evoluta se il diritto (leggi, istituzioni) è evoluto: il fiume economico se scorre in argini efficienti (le leggi) è fonte di benessere, se gli argini sono inefficienti diventa paludoso, malarico; viceversa se si hanno argini senza fiume si ha il deserto. Il ritardo italiano attuale è soprattutto culturale, dovuto essenzialmente ad una ridotta attenzione alla ricerca.

Dal 1860 al 1896
lo sviluppo, fino ad allora esclusivamente agrario, si arricchisce di attività manifatturiere (soprattutto nel Sud) come la filatura (le mogli dei contadini), la falegnameria, ecc. Nel primo censimento dell'Italia unita, 1881, si rileva che il 60% delle donne del Sud (al Nord 30-40%) sono nella produzione manifatturiera, il tutto per il forte carattere familiare della economia meridionale che, trasformandosi con l'industria, franerà dopo il 1881, inoltre i vecchi metodi produttivi in agricoltura non sono in grado di fronteggiare il mercato inondato da prodotti a basso costo provenienti dal nuovo mondo. Il Sud reagirà con l'emigrazione massiccia a cavallo dei due secoli e il nuovo orientamento produttivo (industriale) si concentra al Nord (il triangolo). L'analisi dei prezzi dal 1800 al 1896 (ecco perché tale anno funge da spartiacque) registra una costante riduzione - DEFLAZIONE - (posto a 100 il prezzo del 1800, nel 1896 era a 20) dopo inizia la ininterrotta risalita fino ai nostri giorni -INFLAZIONE.



LO SVILUPPO FRA LE DUE GUERRE MONDIALI

Dopo la evoluzione della prima guerra mondiale, durante la quale si orienta solo nel senso bellico per cui salta ogni analisi, l'economia si svilupperà, fino al secondo conflitto mondiale in tre fasi distinte corrispondenti a tre sottoperiodi:
1) un prologo anni '19-'22 con una crisi sociale, politica ed economica;
2) anni '22-'32;
3) anni '32-'39.


La riconversione post-bellica costa molti licenziamenti da parte dei colossi industriali FIAT (fabbrica italiana auto taxi), BREDA, ANSALDO ecc. La guerra fu combattuta quasi esclusivamente dagli analfabeti contadini (gli operai, visti come casta privilegiata, ancora in numero esiguo venivano in genere esonerati per far funzionare l'industria), le lunghissime permanenze nelle trincee permisero un certo affiatamento tra i contadini soldati e gli ufficiali (quasi tutti di complemento e rappresentanti della borghesia agraria) che venivano istruiti per promuovere un minimo di alfabetizzazione e per alimentare il sentimento patrio con promesse di riforme agrarie a guerra finita. Tali mancate promesse renderanno rabbiosi i contadini contro gli agrari (i portavoce della riforma) che non comprendevano questo odio incolpando i socialisti (massimalisti) quali fomentatori.
La crisi interna (l'incalzare degli scioperi) si aggrava anche a causa di quella internazionale; il
mito della rivoluzione viene incoraggiato dal bolscevismo (no alla religione, mito dei beni in comune: - tien' a mogl' bona, si vuò fa ca' cos' p'a comunità porta a ccà): agrari, industriali e ceti medi sono letteralmente assaliti dal panico e con molta leggerezza alimentano in tutti i modi quello che sembrava il baluardo: il Fascismo, anche perché i componenti erano giovani ignoranti e quindi di breve durata e di facile controllo successivo (nell'immaginario collettivo è sopravvissuta, ancora in atto, la convinzione che il comunista è più pericoloso del fascista).
Insomma i benestanti si scavarono la fossa, per salvare la libertà si consegnarono nelle mani della dittatura.


La profonda crisi del '21 si mitiga nel marzo '22 e fino al '27,
grazie a concezioni liberiste (di tipo economiche - liberalismo e una concezione politica) del ministro De Stefani si registra una timida ripresa. Dal '27 (licenziato De Stefani) l'ossessione di Mussolini, visto la riduzione degli scioperi e del deficit, della rivalutazione della lira (quota 90 - erroneamente il punto di riferimento sarà la vecchia e disastrata sterlina anziché il nuovo emergente dollaro - crollo esportazioni) per prestigio, produrrà una depressione ingigantita da quella mondiale del '29.

Dal '32 inizia un forte intervento dello Stato (si creano IMI, IRI - visione non negativa per la ripresa in quanto nelle azioni statali in economia il profitto non è più tutto del padrone ma garantisce l'autonomia) per sostenere l'economia orientandola, per non dipendere dagli umori internazionali, verso l'autarchia (statalismo e protezionismo).
Tale orientamento era necessario per sostenere la guerra (motto: la guerra sta all'uomo, come la maternità alla donna) e fu promosso con azioni come la battaglia del grano. Si guarda all'Inghilterra che è rigorosamente protezionista fin quando non aumenta la produttività per competere in campo internazionale poi diventa leader del liberismo.



LO SVILUPPO NEL SECONDO DOPOGUERRA

Anche il periodo dal '45 ad oggi è divisibile in tre sottoperiodi:

- Un
PROLOGO

Anni '44-'45/'50
, dove si pensa alla Ricostruzione che sarà veloce grazie al ricorso alla iniziativa individuale in un sistema di liberismo economico integrato nell'economia europea, nel '50 il PIL, contro ogni più rosea previsione economica, era già uguale al '38. Dopo le prime incertezze con una inflazione galoppante (grazie alla forte presenza di amlire - Lira Amministrazione Militare - introdotte dai liberatori americani), si definisce la scelta di campo e gli Usa, terrorizzati dall'espansione del bolscevismo, finanziano abbondantemente la ricostruzione (il vincitore paga i vinti); ad esempio viene finanziata una campagna di recupero materiale bellico (così iniziano le italiche porcherie, si pagano a peso d'oro carcasse vere o finte, il tasso di corruzione è su livelli del 100% - commissione Rossi).
Gravi e numerosi sono i problemi di fronte ai quali si trovano il Governo e le forze politiche uscite dalla Resistenza: ricostruire le attrezzature distrutte dalla guerra (soprattutto al Sud), un'inflazione galoppante che tocca la punta massima nel '47, l'enorme tasso di disoccupazione, la riconversione della struttura produttiva protezionistica e autarchica.
I settori fondamentali dell'industria erano quelli alimentare, tessile, elettrico e non, come in seguito, quelli siderurgico, chimico, automobilistico; basti pensare che nel 1938 si costruivano in Italia solo 50 mila vetture.
Fino al '45 il lavoro era organizzato in maniera arretrata: a domicilio, pezzo a pezzo, manuale; solo in seguito cominciò ad organizzarsi su base Ford-Taylorista; lavoro di fabbrica, montaggio a catena, meccanizzato , parcellizzazione estrema.
Le caratteristiche della politica economica del regime fascista erano state il protezionismo, l'autarchia, il controllo dell'apparato produttivo; la restaurazione democratica in politica economica fu caratterizzata della libertà degli scambi e dall'apertura commerciale. P. Togliatti, nell'aprile del '45, dichiarò che l'Italia non era matura per un esperimento di pianificazione economica.
L'efficienza dell'apparato industriale fu vista in subordinazione allo sviluppo delle esportazioni in quanto la liberalizzazione è una via obbligata per un paese povero di materie prime: il necessario sviluppo delle importazioni esige un parallelo sviluppo delle esportazioni. In un regime di economia chiusa l'Italia avrebbe dovuto rinunciare ad un certo tipo di sviluppo industriale.
Altro grave problema era la galoppante inflazione favorita anche dalla "pressione" delle AMLIRE, per arginarla le sinistre proposero il razionamento dei generi di consumo, l'immediato "cambio" della moneta e una forte imposta sui profitti nella riconversione; le destre, al contrario, proponevano l'abolizione di ogni controllo, la definitiva e completa liberalizzazione della economia e, naturalmente, si opponevano al cambio della moneta.

Il Governo Parri
fu molto incerto sul cambio della moneta e cadde proprio quando si impegnò formalmente ad effettuarlo: le matrici per il conio della nuova moneta venivano, intanto, "misteriosamente" trafugate. Il Governo successivo iniziò una politica di stretta creditizia per il salvataggio della lira; tale politica provocò una crisi del reddito e una contemporanea crisi della produzione e dell'occupazione. La stabilizzazione della lira finì, però, col dare una forte spinta all'integrazione dell'economia italiana in quella occidentale in funzione della ricostruzione del potenziale produttivo e della stabilizzazione della valuta e della bilancia commerciale.


- U
n PRIMO

Anni '50/'73-74
, caratterizzato da un forte dinamismo (idem per Germania) economico (più precisamente in espansione per la Ricostruzione fino al '63 , poi dal '64 ristagno per la depressione subentrata alla fase espansiva precedente), dove le notevoli intuizioni di Einaudi permettono una prosperità dell'industria privata e una trasformazione della struttura agricola e provinciale del paese in una struttura industriale integrata in quella europea e mondiale, la crescita del PIL è di 5,5% (quello Usa è sul 3,5%), anche per una favorevole congiuntura internazionale (per il Giappone si parla di super miracolo economico e si attesta su livelli sociali europei). Agli inizi degli anni Sessanta si raggiunge l'apice con il cosiddetto BOOM, che si conclude con le grandi lotte operaie per i rinnovi contrattuali del '62-'63; poi inizia il degrado a causa della forte depressione e ristagno degli investimenti, si assiste alla crisi dell'industria, alla caduta della fase di lavoro e del tasso di occupazione, alle fughe dei capitali e al dissesto della bilancia dei pagamenti, alla concentrazione delle imprese, all'espansione della Partecipazioni Statali (PPSS).

SVILUPPO SETTORIALE
Lo sviluppo economico italiano presenta caratteristiche comuni a tutti i paesi industrializzati: sviluppo dell'industria manifatturiera e passaggio da un'economia agricola ad una prevalentemente industriale; integrazione economica e commerciale con gli altri paesi industriali, concentrazione della popolazione nelle grandi città. Accanto a queste caratteristiche comuni a tutti i paesi industrializzati lo sviluppo economico italiano presenta al cune peculiarità: dualismo della struttura produttiva (grandi industrie tecnologicamente all'avanguardia e piccole iniziative arretrate), distorsione dei consumi (gonfiamento di quelli privati a danno di quelli pubblici), perdurare ed aggravarsi del sottosviluppo meridionale nonostante gli investimenti. Questi gravi squilibri sono funzionali al veloce sviluppo industriale in quanto l'industrializzazione è favorita dall'incremento delle esportazioni a loro volta r regolate sulle richieste dei mercati internazionali.
Per esportare, l'Italia deve produrre quanto richiesto sul mercato internazionale, la produzione interna viene perciò modellata sulla domanda esterna, i beni prodotti, però, risultano fuori fase rispetto alle necessità e ai livelli di reddito italiani. L'industria così finisce col produrre beni caratteristici di un'economia "opulenta" anziché beni di consumo necessari.
Il dualismo produttivo tra industrie esportatrici avanzate (
settore dinamico), con forte e continui aumenti della produttività ma non della occupazione dove gli aumenti dei salari sono inferiori all'aumento della produttività per cui alti profitti, e industrie che producono solo per il mercato interno arretrate (settore stagnante) con esiti completamente contrari alla prima.
Nel settore stagnante i salari crescono più della produttività e provocano un aumento dei prezzi, in quello dinamico la produttività cresce più dei salari e determina stabilità dei prezzi: la conseguenza di tale situazioneè un'inflazione strisciante provocata dagli squilibri settoriali.
In questi squilibri sono già presenti i germi della futura crisi: l'intera struttura industriale presenta da un lato settori fortemente dinamici, dall'altro un settore fortemente stagnante: i consumi sono distorti per la netta prevalenza dei privati sui pubblici, il distacco economico tra Nord e Sud si aggrava ciclicamente, la spesa pubblica appare nel complesso insufficiente; tutto ciò è la conseguenza di uno sviluppo stimolato quasi esclusivamente dalla domanda estera.
Il REGIME DEI CONSUMI, in particolare, si modella diversamente tra il settore dinamico con aumento produttività, aumento dei salari, attiva presenza sindacale, rigorosa applicazione dei contratti, e il settore stagnante (forte nel Sud come anche come lavoro nero) con scarso aumento della produttività, basso tasso di salario, non soddisfacente presenza sindacale, gabbie salariali (parametri diversi per zone geografiche e no per qualità del lavoro). I consumi voluttuari prevalgono, perciò, su quelli essenziali in quanto la domanda di questi ultimi cresce perché sono relativamente meno cari in virtù dei prezzi stazionari, i beni essenziali sono, invece, relativamente più cari in virtù dell'aumento dei prezzi: sono beni ad alto prezzo relativo le carni, l'assistenza sanitaria, la scuola, o libri, la casa, i trasporti pubblici; sono beni a basso prezzo relativo gli elettrodomestici, i televisori, i mobili. Lo sviluppo dei consumi non essenziali si spiega, perciò, non solo in base a fattori psicologici o sociali (mito dell'America, urbanesimo) ma anche per il fatto che essi sono sia meno cari relativamente sia fortemente voluti dall'industria dinamica per imporre gli stessi prodotti al mercato estero e a quello interno.
La mancanza di un valido investimento diretto, poiché non sarebbe coerente col modello di sviluppo proprio della classe dominante, la disoccupazione meridionale trovano come unica ancora di salvezza l'emigrazione (all'estero o nel triangolo") o il parziale assorbimento nel pubblico impiego attraverso " patologico" gonfiamento del settore terziario.

POLITICA ECONOMICA E MEZZOGIORNO
Nel dopoguerra le industrie del Nord videro nel Sud un possibile mercato di sbocco dei propri prodotti e non un possibile centro di produzione autonoma. La funzione principale del Sud era quella di esportare forza-lavoro a basso costo. L'unica politica attuata con una certa serietà e sforzi reali fu quella delle opere pubbliche che accresceva la capacità di acquisto ma non sviluppava la capacità di produzione. Le condizioni di vita create al Sud dalla Riforma agraria e dalla Cassa per il Mezzogiorno non potevano reggere il confronto con le possibilità di occupazione offerte dalle industrie del Nord o dal "patologico" gonfiamento della pubblica amministrazione. Falliva così la politica basata sulle infrastrutture.
Anche l'insediamento della grande industria del Nord nel Mezzogiorno non sortì grande effetto, fu sempre notevole l'assenteismo dal punto di vista sociale e politica; se produsse relativi benefici al reddito ed alla occupazione, non diede alcun impulso sul versante della convivenza sociale più moderna lasciando il dominio del Mezzogiorno - in base ad un preciso patto - alla classe politica meridionale (il referente del Nord è l'imprenditore con la sua mentalità d'impresa, al Sud il referente è il politico con la sua mentalità clientelare).
E' questo il
SISTEMA MERIDIONALE di cui parla P. A. Allum riecheggiando e modernizzando la intuizione gramsciana: la grande industria rinuncia ad ogni azione politica e amministrativa anche se insediata al Sud, in cambio i potentati meridionali assecondano le scelte nazionali filo- settentrionali di politica economica per non vedere compromessi i propri privilegi locali.
Inoltre, nella organizzazione industriale italiana - oggi in forme diverse dal periodo post-bellico - è ancora in forte trasformazione e, all'inizio del terzo Millennio, soprattutto dopo la vittoria di Berlusconi alle politiche del 2001, il criterio dell'efficienza prevale sul criterio dell'occupazione, il problema fondamentale del Mezzogiorno diventa così quello dell'occupazione che, a sua volta, genera emigrazione.

LA DEPRESSIONE DAL 1964
La piena occupazione in alcuni settori industriali (meccanico, chimico) e il generale incremento del tasso di occupazione favoriscono le lotte sindacali per il rinnovo dei contratti, negli anni '59-63, dove si assiste ad un generale slittamento salariale e a forti incrementi nell'industria che provocano un abbassamento dei margini di profitto; è la fine del "miracolo economico" provocato dal fatto che l'Italia era - fino agli anni Sessanta - tra i paesi industrializzati quello con il più basso livello salariale. Ci troviamo in presenza di un'inflazione dovuta ad un eccesso di domanda che provoca un aumento dei prezzi all'ingrosso, un disavanzo della bilancia commerciale e dei pagamenti, conseguenza dello squilibrio import/export. Nel 1963 il Governo mette in atto una prima stretta creditizia che provoca una caduta degli investimenti e una caduta della domanda: i settori meno depressi continuano ad essere quelli sostenuti dall'esportazione mentre la via della ripresa poteva trovarsi nell'accrescimento degli investimenti a partecipazione statale nei settori produttori di beni pubblici: edilizia popolare, sanità, scuola, trasporti pubblici.

Dal 1964 al 1966
si assiste, inoltre, ad un'animata discussione sulla politica dei redditi, all'espansione commerciale dell'industria settentrionale verso i mercati meridionali, all'ulteriore aggravarsi della crisi delle piccole industrie del Sud.

Negli anni dal '66 al '68
appaiono alcuni sintomi di una blanda e transitoria ripresa. Le Partecipazioni Statali si estendono alla grande industria (SIP - ENEL - OLIVETTI - MONTEDISON), la grande industria privata si internazionalizza attraverso le multinazionali, si assiste anche ad una terribile congestione delle grandi città industriali in seguito alla ripresa della produzione: i servizi pubblici (trasporti, casa, sanità, scuola) continuano ad essere trascurati o maltrattati dalla politica degli investimenti.

Il 1969
è caratterizzato dalle grandi lotte sindacali (spesso fuse con la contestazione giovanile e studentesca) volte non solo e non tanto a miglioramenti sindacali quanto alla richiesta di investimenti sociali nel contesto di un nuovo modello di sviluppo; nei settori dinamici i prezzi aumentano per allinearsi all'aumento sul mercato internazionale (USA, MEC); aumentano gli interessi bancari all'estero e si assiste all'esportazione dei capitali e ad un'incontrollabile e selvaggia evasione fiscale. Il governo impiega una nuova e più dura stretta creditizia che finisce col rendere irreversibile la crisi delle imprese minori.

Nel 1970
il governo prende nuove drastiche misure fiscali per contrarre i consumi e ad accrescere le entrate dello Stato; la spesa pubblica ristagna, il tassi di domanda di consumi cala sensibilmente, il volume degli investimenti produttivi si riduce ulteriormente.



- U
n SECONDO

Dal '74
, dove il PIL dal +6% del '62 si attesta su dimensioni medie internazionali +2,5%, il forte rallentamento è conseguenza diretta della crisi petrolifera del '73 (barile da 2 a 20 dollari - austerity) e della saturazione dei bisogni per cui la richiesta di merci si riduce sensibilmente.
Il capitalismo non si evolve linearmente ma con oscillazioni (nell'800 capofila era l'Inghilterra, a cavallo '800/'900 Usa e Germania, oggi Usa, Giappone e soprattutto Germania)
Altri motivi di crisi sono: l'alto costo del lavoro (nel 1830 le ore lavorative erano in media 70, nel '73 sono 40); sviluppo industriale (tessile) del Terzo Mondo che inonda di merci a basso costo il mercato.
Il mercato è sempre più sottoposto a monopoli e si determinano collaborazioni Stato - mercato. Si delinea la necessità di privilegiare la piccola industria meno elefantiaca della grande, di incentivare la ricerca scientifica applicata (vedi Giappone) e infine ricercare una sapiente dosatura tra pubblico e privato.




I TENTATIVI DI PROGRAMMAZIONE ECONOMICA

Un primo tentativo organico di programmazione economica, relativo al decennio '55-'64, può essere considerato il Piano Vanoni che individuava alcuni problemi fondamentali della nostra economia quali il forte tasso di disoccupazione, il disavanzo della bilancia dei pagamenti, il persistente dello squilibrio Nord/Sud, e si prevedeva la creazione di 4 milioni di nuovi posti di lavoro (naturalmente mai realizzata), il pareggio della bilancia dei pagamenti (effettivamente realizzata nel '58), l'eliminazione progressiva del divario Nord/Sud.

Nel 1963 la "Nota aggiuntiva La Malfa
" illuminava a sua volta - con una diagnosi alquanto precisa - gli squilibri settoriali (agricoltura/industria, settore dinamico/settore stagnante, territoriali 8Nord/Sud) e nei consumi (pubblici/privati), ma era alquanto evasiva nella terapia basata su una troppo schematica richiesta di programmazione economica connessa ad una insufficiente politica di riforme.

Nel '67 veniva preparato un piano di sviluppo economico per il quinquennio
seguente che prevedeva tutta una serie di investimenti sociali connessi alla scuola , alla sanità , all'assetto territoriale.

Nel '69, il Ministero del Bilancio e della Programmazione
economica presentava il suo "Manifesto" ("Progetto 80") che prevedeva una rincorsa alla stabilizzazione monetaria e all'equilibrio della bilancia dei pagamenti come base per una nuova politica degli investimenti connessa all'aumento del reddito nazionale.

Il "piano annuale" del '72
prevedevaun piano a "breve termine" per la ripresa dell'attività produttiva.

Il 1973 è l'anno della crisi energetica
che colpisce tutti i paesi industrializzati dell'Occidente e in misura maggiore il nostro che di questi è sicuramente il più debole.
Intanto si assiste ad una progressiva depressione della forza-lavoro e ad un sempre più accentuato ristagno della domanda di lavoro. La percentuale della popolazione attiva che nel 1959 è del 46%, nel 1968 è già del 37,5% fino a toccare a fina anni Settanta percentuali del 30%.



ALCUNE PROPOSTE PROGRAMMATICHE SULL'ECONOMIA DI META' ANNI SETTANTA

La linea della "continuità
", suggerita dalla destra economica reazionaria, prevede una politica di controllo salariale connessa ad una rigida politica dei redditi, quest'ultima prevede, infatti, la rinuncia alla lotta da parte dei lavoratori e che potrebbe essere accettata dai sindacati solo in cambio di una presenza decisionale dei lavoratori nelle scelte della politica degli investimenti (es.: riduzione degli investimenti direttamente produttivi e forte incremento degli investimenti sociali).

La linea "riformistica"
prevede, invece, un contenimento dei consumi privati ed una parallela espansione di quelli pubblici attraverso un'articolata politica dei redditi ovvero una "programmazione simultanea di tutte le grandezze macroeconomiche nel contesto di una progettazione economica completa". La politica dei redditi - cioè – deve essere integrata con la politica degli investimenti".

La linea "radicale
", al contrario, parte dal presupposto che la politica delle riforme è insufficiente ad eliminare le gravi distorsioni dello sviluppo economico; essa auspica, perciò, un confinamento in limiti ristretti dell'iniziativa privata e una centralizzazione delle decisioni attraverso l'accumulazione del capitale del settore pubblico.




OCCUPAZIONE E POLITICA ECONOMICA

Il mercato del lavoro oggi è molto squilibrato: 50% di disoccupati tra i giovani tra i 18 e i 22 anni, alquanto drammatica perché di lunga durata (le situazioni critiche precedenti sono più brevi anche grazie ad eventi straordinari come la guerra che assorbiva mano d'opera) e caratterizzata dall'avvitamento del disoccupato (incapace di rigenerarsi o riconvertirsi). Il grafico della disoccupazione presenta una certa ciclicità nell'800 a cadenza decennale, che si ampliata moderatamente fino al 1960 e vistosamente dopo soprattutto per le variazioni verticali anagrafiche (la non regolare distribuzione di età per le grosse decimazioni, per alcune generazioni, dovuti alla guerra).
Le crisi sono legate alle spinte non sempre regolari delle innovazioni tecnologiche, di norma esse costano in media il 2% annuo dei posti di lavoro (l'informatica ha determinato vistosi esuberi nelle banche).
L'organizzazione del lavoro capitalistico contiene una quota di disoccupati fisiologici (attuale in Italia 20%, Inghilterra 2%, Usa 3,5%, Germania quasi nulla).
Altre considerazioni per una giusta valutazione: - il metodo per definire il disoccupato (chi non lavora da un mese, da tre mesi, da un anno, ecc.?), in genere la Sinistra sopravvaluta e la Destra minimizza; - l'incontrollabile lavoro nero a tutti i livelli (secondo lavoro per prepensionamenti, cassa integrazione, ecc.); - il migliorato grado di istruzione modifica l'intenzionalità del disoccupato con una maggiore oculatezza nella scelta del lavoro; - la maggiore presenza di donne e la forte crescita demografica di 15-22 anni fa; - squilibrio territoriale demografico Nord - Sud.
La risposta sta nella crescita del reddito (ora cresce meno dell'1,3) che non può essere inferiore al tasso di disoccupazione in buona parte fisiologica (ora su 2,5% di cui, come già detto, il 2% è fisiologico) in quanto oltre a non assorbire ne provoca altra: l'equilibrio giusto è di una crescita immediata del 3% per assorbire la disoccupazione per poi attestarsi su 2,7-2,8% limite in grado di assorbire le quote fisiologiche del 2-2,5% di disoccupazione.
Tale obiettivo si può raggiungere attraverso un progressivo equilibrio tra pubblico, da privilegiare nei servizi, e privato (piccola impresa più idonea perché più duratura e meno incline alla diffusa robottistica come la grande), da privilegiare nella produzione.

La riduzione delle ore (lavorare meno lavorare tutti!) può essere solo un contenimento della disoccupazione non un aumento di reddito, per cui non deve essere generalizzata ma usata con prudenza e razionalità solo limitatamente (basterebbe il 2,8% pari alla quota fisiologica di riduzione di posti di lavoro). Stesso discorso per altri variatori come la flessibilità e l'incentivazione.

CETO MEDIO
Il ceto (da latino coetus: riunione, adunanza di persone) medio nel Novecento si forma a partire dal fascismo, con l’atomizzazione della borghesia, e rappresenta un’entità sociale priva di quelle nervature culturali e di quei canali di selezione che modellano la borghesia classica; una stratificazione amorfa, una specie di macchia d’olio che galleggia sulla società, più simile a un aggregato parassitario che non alla spina dorsale del paese (non si trova un termine per definire questa classe che non è una classe, Dahrendorf).

Negli anni Cinquanta
si vuole rappresentare il ceto medio (dove, con Tocqueville, sono più tenaci e aspre le passioni che la società fa nascere), nell’ambito della cultura di sinistra dominante, con gli imprenditori artigiani del centro-nord e con le classi sociali che cominciavano ad attraversare la ricostruzione ed il successivo miracolo economico, che si avvicinavano al mondo della fabbrica, del fordismo, dei consumi via via più evoluti, della televisione e degli elettrodomestici, dell’automobile, della pubblicità (per la solidarietà sociale, sono importanti non solo i nuovi ricchi, ma anche la classe media, Giddens).
Altra definizione vede il ceto medio nella società che affronta la modernizzazione, in cui diventano dominanti simboli e comportamenti della civiltà di massa (il valori dei ceti medi non sono più sanfedisti e clericali ma sono valori dell’ideologia edonistica del consumo, Pisolini)

I
ceti medi italiani stabiliscono una propria identità nel periodo fra la svolta centrosinistra degli anni Sessanta e la liberalizzazione degli accessi universitari del 1969; trovano un vertice politico-ideologico (e socialmente compromissorio) bel 1975, con l’accordo sul punto unico di contingenza, strumento di appiattimento del differenziale fra i redditi. Si ha un’anomia sociale “implosa nella privacy” con consumi simili ai ricchi e livelli di vita superiori alle proprie possibilità, tutto ciò ha fatto saltare gli equilibri provando in molti casi un impoverimento relativo: come nel caso degli insegnanti, che alla perdita di reddito hanno visto affiancarsi un sostanziale smarrimento di status sociale; mentre la “proletarizzazione” dei ceti medi, avvertibile soprattutto nel settore impiegatizio, tende anche a comprimere le chance di miglioramento sociale per i figli attraverso gli studi.
In ogni caso la nostalgia per forme borghesi di sobrietà e rigore rappresenta un mito, dal momento che una proletarizzazione analoga si è registrata anche nei consumi. Questo ceto medio proliferante, non sagomato socialmente, soggetto a dispersione nella collettività determina un’incastellatura di barriere semicastali, non si libera con il mito della buona borghesia me con una buona “liberalizzazione”.

La l
iberazione dei consumi è di per sé una garanzia di mobilità sociale, la vera questione sociale potrebbe essere che i ceti medi devono fare i conti con il permanere di strutture corporative, claniche, addirittura tribali, che impediscono la crescita.
La trasformazione del ceto medio lo ha diviso in modo tale che nessuna “politica del ceto medio” sembra possibile. Un movimento politico cerca di far progredire gli interessi dei gruppi che comprende; in questo senso, manca sulla scena politica un movimento che sia significatamene del ceto media. Infatti le varie classi del ceto medio si diversificano nella forma sociale, hanno interessi materiali contrastanti, e illusioni ideologiche dissimili; non c’è in esso alcuna omogeneità di base per un movimento politico comune. In fatto di paghe e di politica sociale, i membri del ceto medio assumono sempre più l’atteggiamento di prestatori d’opera; quelli del vecchio ceto medio, mantengono l’atteggiamento del datore di lavoro. Se il vecchio ceto medio ha occasionalmente combattuto, in nome della piccola proprietà, le grosse concentrazioni monopolistiche, il nuovo ceto medio dipendeva da esse per un lavoro sicuro, e ha dimostrato psicologicamente questo fatto mantenendosi fedele alla ditta.




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