Eduardo Ambrosio


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LA REAZIONE E LA FINE

STORIA > 1799 REPUBBLICA NAPOLETANA > GLI EVENTI

LA REAZIONE E LA FINE DELLA REPUBBLICA

SOMMARIO:
-
PROGRESSI DELLA REAZIONE.
- IL RUFFO AD ARIANO, AD AVELLINO E A NOLA.
- I FORTI DI GRANATELLO E DI VIGLIENA.
- COMBATTIMENTO AL PONTE DELLA MADDALENA, PRESA DI CASTEL DEL CARMINE, COMBATTIMENTO AL CASINO DELLA FAVORITA.
- ORRORE A NAPOLI E CADUTA DEI CASTELLI NUOVO E DELL'OVO.
- IL NELSON E LA CAPITOLAZIONE.
- RESA DI PESCARA.
- COMBATTIMENTO ALLA VIGNA DI S. MARTINO.
- CAPITOLAZIONE DI CASTEL SANT' ELMO.
- RESA DI CAPUA E GAETA.

PROGRESSI DELLA REAZIONE.

Mentre a Napoli questi "nuovi" patrioti si preparavano a difendere la "libertà" e l'indipendenza della Repubblica, i realisti facevano rapidi progressi e si avvicinavano minacciosi da ogni parte alla capitale per portarvi la "libertà" anche se non c'erano più i "liberatori" francesi
Da Matera, dove il 7 maggio era stato raggiunto dalla schiera pugliese del De Cesari, il cardinale Ruffo marciò contro Altamura, che fu assalita il giorno 9. Fino a sera durò la resistenza dei repubblicani, poi, esaurite le muni-zioni, fuggirono verso Gravina e il giorno dopo le bande del Ruffo penetrarono nella città e la misero a sacco. Tre giorni durò il terribile saccheggio.
"…Nessuna pietà, scrive il Colletta, sentirono i vincitori; donne, vecchi, fanciulli furono uccisi, un convento di vergini profanato: tutte le malvagità e le voglie saziate; non ad Andria e non a Trani, ad Alessia e a Sagunto (se le antiche storie sono vere) possono assomigliare le rovine e le stragi di Altamura…".
Ad Altamura il Ruffo ebbe notizie della Puglia: nella seconda metà d'aprile una piccola flotta russo-turco-siciliana, su cui si trovava il cav. Antoni Micheroux, commissario di Ferdinando IV, si era presentata davanti a Brindisi: la città era stata occupata; un proclama che concedeva generale perdono era stato pubblicato e in me-no di un mese quasi tutte le città pugliesi si erano dichiarate per il re borbonico.
Saputo che anche Benevento era ritornata alla parte regia per opera del marchese Mosti, il Ruffo si recò a Gra-vina, poi a Spinazzola, a Melfi, ed Ascoli e il 2 giugno giunse a Bovino, dove seppe i progressi fatti nell'Abruzzo dal Pronio, il quale aveva ristabilito a Chieti il governo monarchico, si era impadronito di Lanciano e del Vasto e si era recato ad assediare Pescara, validamente difesa dal repubblicano Ettore Carafa conte di Ruvo.

IL RUFFO AD ARIANO, AD AVELLINO E A NOLA.

Il cardinale, che nel frattempo aveva mandato nel Molise il capi-tano Raimonai e il De Cesari per difendere dalle scorrerie di una schiera repubblicana i paesi tornati alla fede borbonica, lasciata Bovino si trasferì il 5 giugno ad Ariano, dove si congiunse con il Micheroux, che vi era arrivato tre giorni prima alla testa di quattrocentosettanta Russi, di trenta marinai siciliani e di un corpo di volontari di Manfredonia.
Anche ad Ariano il papa ricevette buone notizie dell'insurrezione nelle altre parti del regno; Fra Diavolo bloccava con le sue bande Gaeta; Gaetano Mammone era padrone della Terra di Lavoro ed aiutava l'insorgenza negli Stati della Chiesa; Giovanni Salomone aveva assalito i Francesi mentre si ritiravano nella Toscana, producendo loro gravi perdite ed aveva costretto il presidio di Aquila ad arrendersi: SCIARPA aveva espugnato Piceno, aveva saccheggiato Muro e il 18 maggio era entrato a Potenza.
Ad Ariano il RUFFO ricevette Lucio Caracciolo che, abbandonata la repubblica, si metteva al servizio del re. Fu nominato capo di tutte le forze di Terra di Lavoro con l'incarico d'investire Capua. Ricevette pure Scipione Della Marra, che recava lo stendardo offerto dalla regina, e due compagnie di granatieri provenienti dalla Sicilia; quin-di, il 7 giugno, alla testa del suo esercito marciò su Avellino, la cui popolazione gli andò incontro al grido di "Viva il Re !".
Da Avellino, il Ruffo passò a Nola (11 giugno), e qui fu raggiunto dal De Cesare, reduce da una spedizione nella provincia di Campobasso con un buono stuolo di fanti e un migliaio di cavalli, e da una piccola schiera di Turchi comandati dal capitano Achmet. Oramai il suo esercito era abbastanza forte e, poiché i Francesi (dopo vari saccheggi come l'incendio del castello dei Lancillotti in Lauro di Nola) avevano lasciato il regno, egli poteva sperare di impadronirsi facilmente di Napoli, che era stretta come in una morsa dagli insorti e dalla parte del mare era bloccata dalle navi inglesi, le quali si erano da qualche tempo rese padrone di Procida, Ischia, Capri, Ponza e Ventotene.
Al Ruffo gli sembravano di buon augurio alcune piccole azioni offensive infelicemente tentate dai Repubblicani di Napoli: difatti un corpo di Napoletani al comando del Federici era stato, dopo breve combattimento, sbaragliato a Marigliano e messo in fuga; Torre Annunziata era stata invano assalita dalla parte del mare dalla flottiglia repubblicana comandata dal valorosissimo ammiraglio Caracciolo; a Resina una compagnia di repubblicani era stata costretta dagli insorti a cedere le armi; lo Schipani, uscito contro Salerno, era stato dall'insurrezione di Portici tagliato dalla capitale ed il generale Manthonè, ministro della guerra, si era dovuto ritirare da Barra dove era avanzato.

I FORTI DI GRANATELLO E DI VIGLIENA.

Chiusa Napoli in un cerchio di ferro, la Repubblica Partenopea aveva le ore contate. L'assalto alle difese della capitale doveva, per ordine del Ruffo, avvenire il 13 giugno e il governo repubblicano prevedendo vicinissima l'azione decisiva aveva messo a difesa del ponte della Maddalena il Generale Wirtz; aveva mandato a S. Antonio il Basset per prendere di fianco il Ruffo; aveva ordinato al Carac-ciolo di sostenere con le navi cannoniere il Wirtz e contava sulla resistenza dei forti di Granatello e di Vigliena e sulla cooperazione dello Schipani, il quale si trovava fra Torre del Greco e Torre Annunziata.
13 Giugno - La battaglia ebbe inizio all'alba del giorno stabilito. La guarnigione di Granatello, battuta dalle arti-glierie del vascello inglese "Secchorse", comandato dal capitano Foote, ed attaccata dagli insorti, si ritirò a Na-poli e il forte cadde nelle mani delle schiere realiste del De Filippis uscite da Portici. Impadronitosi di Granatello, il De Filippis cominciò a bombardare il forte di Vigliena, che contemporaneamente fu assalito da tre compagnie di granatieri regi e da un drappello russo agli ordini del tenente colonnello Francesco Rapini, mentre tutto l'eser-cito del Ruffo, passato da Nola a S. Giovanni a Teduccio, si affrettava e preparava ad attaccare Napoli.
Accanita fu la resistenza del presidio di Vigliena, comandata dal prete Antonio Toscani: sopraffatti dal nemico, i difensori appiccarono il fuoco alle micce e, mentre i Russi entravano nella fortezza, scoppiò la polveriera che seppellì sotto le macerie il Rapini, il Toscani, i regi che erano penetrati nel forte e i Napoletani che non avevano avuto tempo di fuggire.

COMBATTIMENTO AL PONTE DELLA MADDALENA, PRESA DI CASTEL DEL CARMINE, COMBATTIMENTO AL CASINO DELLA FAVORITA.

Allora la battaglia si concentrò al ponte della Maddalena; ma qui la difesa non fu lunga, perché il Caracciolo dovette presto ritirarsi con le sue poche cannoniere e la guardia civica poco ansiosa di combattere, si diede subito alla fuga. Rimase soltanto un manipolo di audaci, fra cui il poeta Luigi Serio e il Wirtz, che poco dopo, mentre a cavallo incitava i suoi alla resistenza, fu colpito da una scarica di mitraglia che lo distese al suolo e il ponte fu del nemico.
Non rimanevano che le fortezze della capitale in mano ai repubblicani, che si erano asserragliati nell'Ospedale degli Incurabili, nel quartiere di Pizzofalcone, nella vigna di S. Martino, sotto i cannoni di Cartel S. Elmo, il cui presidio francese, comandato dal Mejan, si era rifiutato di aprir le porte ai patrioti. Durante la notte dal 13 al 14 i Calabresi dell'esercito del Ruffo occuparono alcune case presso il Cartel del Carmine e, allo spuntar del giorno, l'assalirono, lo espugnarono e passarono a fil di spada centoventi difensori.
Tentò, la mattina del 14, lo Schipani di venire in soccorso dei forti; ma era appena giunto, dopo avere occupato Resina, al Casino della Favorita, quando fu assalito di fronte e dai fianchi dai Russi e dalle truppe del De Cesari e del La Marra. Rimasto con poche centinaia di uomini per la defezione di buona parte della sua schiera, si dife-se coraggiosamente e sarebbe forse riuscito a tirarsi fuori della stretta se in sostegno del nemico non fosse giunto Pane di Grano con le sue "bande" e i suoi "banditi". Sopraffatti dal nemico, i repubblicani ripiegarono; alcuni fuggirono; altri caddero con le armi in pugno; lo Schipani, riconosciuto mentre cercava di fuggire travestito, fu preso e mandato a Procida davanti al tribunale criminale che nel frattempo si era formato.

ORRORE A NAPOLI E CADUTA DEI CASTELLI NUOVO E DELL'OVO.

Napoli, il 14 giugno, rimase in balia della plebaglia e delle soldatesche feroci del Ruffo, che avevano vinto le ultime resistenze dei repubblicani agli Incu-rabili e alla caserma di Pizzofalcone. Fu una giornata di sangue, di saccheggi, di violenze inaudite: ai repubbli-cani nascosti nelle case, e a quelli che travestiti tentavano di fuggire fu data una caccia spietata; le case dei giacobini furono invase, perquisite, messe a soqquadro, saccheggiate; bande di lazzaroni percorrevano le vie urlando, inseguivano o scovavano i patrioti, li percuotevano, li denudavano, li legavano, e frustandoli o sciabolandoli, li trascinavano in piazza del Mercatello, li decapitavano presso l'albero della libertà, ne rotolavano le teste per le vie oppure, conficcatele le stesse su lunghe picche, le portavano in giro; per le strade era un continuo sfilare di arrestati che erano condotti ai Granili e su roghi improvvisati; e molti di loro, mentre erano guidati in carcere o al luogo del supplizio, fra la folla isterica che urlava "Viva il Re", i malcapitati coraggiosamente gridavano "Muoia il tiranno".
La città risuonò tutto il giorno di fucilate e fu assordata dal rombo dei cannoni che senza tregua sparavano dai forti; fu percorsa da turbe avide che asportavano dalle case messe a sacco mobili e indumenti; fra le case sac-cheggiate vi furono quelle del Duca d'Andria, dei Vaglio, dei Riario, dei Piatti, del Cirillo, del Fasulo, del Ciaja, del Logoteta, del Rolando, del Conforti, del Carlomagno, del Pagano, del Torella, i monasteri di Monte Oliveto, di S. Pietro a Maiella e di San Severo, gli ospedali di S. Giacomo e degli Incurabili; fra gli arrestati vi furono nobili, ecclesiastici, magistrati, professori, ufficiali e donne di alta condizione, quali la duchessa di Cassarco, la duchessa di Popoli, la madre e la sorella del conte Ruvo, la Laurent-Prota, Margherita Fasulo e Luisa Sanfelice.
Il cardinale Ruffo, dopo averlo innescato, non sapendo più come calmare il furore del popolo, creò una "Giunta" di Stato composta dal marchese Gregorio Bisogni, da Matteo La Fragola, da Carlo Pedicini, da Bernardo Navarra, da Antonio della Rossa e da Angelo di Fiore, con l'incarico di punire alcuni dei principali accusati di cospirazione; quindi annunziò gravi pene da infliggersi a coloro che avessero continuato i saccheggi e le violenze. I forti, che ancora resistevano, furono battuti da artiglierie appostate nella caserma conquistata di Pizzofalcone, sul Molo, sulla strada del Porto e presso la villa di Chiaia; ma poiché queste batterie erano impotenti a far tacere quelle dei repubblicani, il Ruffo tentò di indurre alla resa, per mezzo di trattative avviate dal Micheroug. Queste trattative fallirono, né risultato migliore ebbero quelle che il capitano inglese Oswald tentò di avviare il 18 giugno; era stato mandato dal Foote che tre giorni prima aveva ottenuto per capitolazione i forti di Castellammare e di Reviglione, concedendo ai repubblicani gli onori militari e la facoltà di partire o rimanere indisturbati, ed ora consigliava al Ruffo di concedere condizioni simili ai difensori dei forti di Napoli pur d'impadronirsene prima che giungesse, come si temeva, una flotta gallo-ispana. L'Oswald si recò a Castel dell'Uovo e cercò d'indurre la guarnigione alla resa, ma il comandante lo scacciò affermando che i repubblicani avrebbero difeso fino alla morte gli ultimi territori della repubblica. Fallite le trattative, il cardinale Ruffo ordinò di aumentare il bombardamento, e Castel dell'Uovo e Castel Nuovo furono battuti con estrema violenza tutto il giorno 18 e la mattina del 19.
Allora il generale Massa, che comandava il secondo, chiese al Micheroug che lo facesse scortare fino a Castel Sant' Elmo per chiedere al Mejan l'autorizzazione di arrendersi. Malgrado gli ordini della Corte, che poi erano quelli che non volevano sentir parlare di trattative con i ribelli, di patti e di clemenza, la richiesta del Massa fu accolta, si sospesero le ostilità e il comandante di Castel Nuovo fu accompagnato dallo stesso Micheroug in Castel Sant' Elmo e qui il Méjean dettò le condizioni della resa dei due forti.
I patti erano i seguenti: i presidii dei castelli Nuovo e dell'Uovo, dovevano avere facoltà d'imbarcarsi per Tolone, su navi preparate dai vincitori, insieme con tutti i repubblicani che vi si trovavano chiusi e con quelli che erano stati fatti prigionieri del Blocco; tanto i presidii quanto i repubblicani e le loro famiglie, potevano, volendo, rimanere a Napoli indisturbati; a garanzia di questi patti e fino alla loro esecuzione dovevano esser consegnati come ostaggi in Castel S. Elmo l'arcivescovo di Salerno, il fratello del Micheroug, il vescovo di Avellino e un certo Dillon; le guarnigioni dovevano conservare i forti fino a quando non fossero pronte le navi destinate al loro trasporto; le proprietà mobili ed immobili dei componenti i presidii dovevano essere rispettate e garantite; infine i repubblicani dovevano uscire dai castelli con gli onori militari, armi, bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, micce accese.
Il Ruffo accettò i patti e firmò la loro capitolazione; il 22 giugno vi apposero la firma il Foote, il Baillie e l'Achmet; il Foote inoltre fece venire da Procida alcune navi che dovevano servire al trasporto delle guarnigioni, ma queste non erano ancora in numero sufficiente ed altre se ne cercavano quando, la mattina del 24, comparve nelle acque di Napoli la flotta inglese dell'ammiraglio Nelson.
I "liberi", che si erano già "liberati" dai "liberatori francesi", assediati dai "liberatori" del Ruffo, devono ora fare i conti con altri "liberatori".

IL NELSON E LA CAPITOLAZIONE.

Il Nelson giungeva a Napoli con l'ordine della Corte di non fare alcuna con-cessione ai repubblicani, che dovevano esser considerati ribelli e come tali trattati. Cioè, dovevano arrendersi a discrezione. Quando l'ammiraglio seppe che era stato pattuito l'armistizio ed era stata firmata la capitolazione, non volle riconoscere né l'uno né l'altra e per farsi capire meglio, schierò le sue navi in linea di battaglia a un mi-glio e mezzo dalla punta del Molo; messosi quindi a contatto con il Ruffo, gli fece sapere che suo intendimento era di attaccare i ribelli se non si fossero arresi; ma il Cardinale dichiarò di voler tener fede al trattato, si rifiutò, il 25, di trasmettere ai repubblicani una dichiarazione del Nelson in cui era detto che non sarebbe stato permesso il loro imbarco ed aggiunse che l'ammiraglio era libero di rompere l'armistizio ma egli non avrebbe concesso né una mano né un cannone per forzare i patrioti alla resa.
Lo stesso giorno 25 il Ruffo e il Nelson ebbero un lungo incontro sulla nave ammiraglia "Foudroyant", ma non riuscirono a mettersi d'accordo. Il Nelson rilasciò al cardinale uno scritto in cui affermava che, secondo la sua opinione, il trattato non doveva essere eseguito senza l'approvazione del re; dal canto suo il Ruffo, ritornato in città, firmò -secondo quel che narra il Sacchinelli", testimone degno di fede - insieme con il russo Baillie e con il turco Achmet una protesta in cui si affermava che, "…o il trattato della capitolazione dei castelli di Napoli era utile necessario ed onorevole alle armi del re delle Due Sicilie e dei suoi potenti alleati", o che "…essendo stato solennemente concluso solo dai rappresentanti di dette potenze, si commetterebbe un abominevole attentato contro la volontà e la credibilità pubblica, se non si eseguissero esattamente o si violasse il contenuto già conosciuto .."
Inoltre il Cardinale scrisse al generale Massa, che comandava la guarnigione di Castel Nuovo, che sebbene lui e i suoi rappresentanti ritenevano sacro e inviolabile il trattato della capitolazione de' castelli, tuttavia il controam-miraglio della squadra inglese non voleva riconoscerlo, e siccome era libertà della guarnigione di avvalersi dell'articolo 50 della capitolazione, come avevano fatto i patrioti della collina Martino, che si erano tutti allontanati per via terra, faceva loro questa considerazione; "…che se gli inglesi comandano in mare, sceglietevi un'altra soluzione"
Non contento di questa palese e chiarissima indicazione, per lealtà, il Ruffo volle riconsegnare ai repubblicani le posizioni che gli erano state cedute dopo la firma della capitolazione.
L'ostinata fermezza del Cardinale, la dichiarazione del generale Massa di esser pronto a ricominciare le ostilità e il desiderio di uscir presto da quella situazione secondo la volontà del re suggerirono al Nelson un'azione che costituisce una macchia incancellabile per il suo nome.
Qualsiasi cosa affermino i suoi difensori, l'ammiraglio, giocando abilmente sull'equivoco, il 26 giugno, ingannò il Ruffo, facendogli credere di volere riconoscere la capitolazione.
Infatti, incaricò l'Hamilton - che lo aveva seguito da Palermo - di assicurare per lettera il Ruffo che non avrebbe rotto l'armistizio. I capitani Troubridge e Ball, latori della lettera, dichiararono, dietro richiesta del Cardinale, che il Nelson non si sarebbe opposto alla partenza dei repubblicani. Né il Ruffo né i repubblicani sospettarono l'inganno e immediatamente ci si preparò per lo sgombero dei castelli che avvenne nel pomeriggio del 26 giugno.
Il 27 giugno il cardinale cantò un "Te Deum" nella chiesa del Carmine per ringraziare Dio del riacquisto di Napoli; il giorno dopo il Nelson ricevette lettere da Palermo, nelle quali gli si ordinava di trattare i repubblicani come ri-belli e l'ammiraglio, trincerandosi dietro quell'ordine, si affrettò a far sapere al Ruffo la volontà del sovrano e gli comunicò la decisione di considerare come prigionieri tutti coloro che erano usciti dai castelli o si trovavano già a bordo delle navi; quindi fece condurre in catene sul "Foudroyant" il ministro della guerra Manthonè, i generali Massa e Basset, Ercole D'Agnese e Domenico Cirillo, presidente della Commissione Esecutiva, e parecchi altri.

RESA DI PESCARA.

Dopo la capitolazione dei castelli Nuovo e dell'Uovo, solamente S. Elmo, la vigna di S. Martino, Capua, Gaeta e Pescara rimanevano ai Borboni da conquistare. A Pescara resisteva fieramente Ettore Carafa conte di Ruvo. Lo teneva in assedio il Pronio, il quale verso la metà di giugno gli aveva già proposto una capitolazione onorevole, che però il Carafa rifiutò; tuttavia pochi giorni dopo si concluse un armistizio di alcuni giorni, durante il quale due repubblicani (per accertarsi che era la verità) dovevano recarsi a Napoli per costatare che la capitale era in potere dei regi e che vana era dunque ogni resistenza ed ogni speranza di aiuti.
Avendo così saputo che la causa della repubblica era ormai perduta e che alcuni repubblicani di Pescara già congiuravano per cedere la città agli assedianti, prima che terminasse l'armistizio il Carafa riunì il consiglio di guerra. Questo rifiutò la proposta fatta da un ufficiale di far saltare la fortezza e di approfittare della confusione per aprirsi un varco verso Roma e allora non rimase che capitolare. Il Pronio offrì dei patti abbastanza ragione-voli: la guarnigione sarebbe uscita con armi e bagagli e gli onori militari, il Carafa e gli ufficiali si sarebbero im-barcati per Ancona; i soldati sarebbero tornati liberi alle loro case. La consegna della città doveva avere luogo il 30 giugno. Quel giorno il Carafa si recò a Francavilla, dove il Pronio lo aveva invitato a pranzo; ma mentre egli era assente da Pescara, accaddero gravissimi fatti. Alcuni abitanti e parte della guarnigione, dichiaratisi per il re, si recarono all'arsenale per impadronirsi delle armi, ma ad un tratto, non si sa come, scoppiò la polveriera che uccise o ferì circa 500 persone. Il popolo inferocito, credendo che fossero stati i repubblicani a dare fuoco alle micce, li assalì e li massacrò tutti; poi bande regie, penetrate in città, fecero il resto saccheggiando le case dei patrioti e distruggendo ogni cosa al loro passaggio senza riguardi e senza fare molte scelte. Alla notizia di quei fatti, il Pronio, convinto che Ettore Carafa lo avesse tradito, lo dichiarò in arresto e lo inviò a Napoli.

COMBATTIMENTO ALLA VIGNA DI S. MARTINO.

Comandava, come si è detto, Castel S. Elmo, il MEJAN. Con lui i regi avevano avviato trattative per la capitolazione del forte, offrendogli anche del denaro, ma egli aveva dichia-rato ripetutamente che non si sarebbe arreso prima della caduta di Capua, e la sera del 30 giugno erano state riprese le ostilità. Lo sforzo dei Russi, dei Turchi, degli Inglesi e dei soldati del Ruffo si concentrò specialmente contro i patrioti asserragliati nella vigna e nel convento di S. Martino, ma per quanto fosse decisa ed ostinata la resistenza e sebbene le artiglierie del forte con quel poco che potevano fare sostenevano i repubblicani, questi tennero testa con molto valore al nemico, i cui assalti furono, parecchie volte e con gravi perdite, respinti.
Il giorno 4 luglio, intorno a S. Martino si combatteva ancora con accanimento.
Quel giorno stesso il Méjean, che aveva ripreso le trattative, riceveva il permesso di inviare a Capua due ufficiali per ottenere dal Girardon licenza di arrendersi; ma la missione non ebbe alcun risultato e le ostilità ricominciaro-no. Giunto il 9 giugno nelle acque di Napoli re Ferdinando IV e riallacciate ancora una volta le trattative, queste furono coronate dal successo e il giorno 11 giugno fu firmata la più che onorevole capitolazione.

CAPITOLAZIONE DI CASTEL SANT' ELMO.

Il Mejan non si curò della sorte dei patrioti, i quali dopo la difesa di S. Martino erano riusciti a farsi accogliere a S. Elmo, e si obbligò di consegnarli agli Inglesi; fece anzi di più: quan-do il 12 giugno uscì dal castello con i suoi soldati, che erano circa un migliaio, senza armi, né bandiere, conse-gnò le porte della fortezza al nemico, fece uscire dalle file i patrioti che per salvarsi da qualche linciaggio, dietro suggerimento di alcuni ufficiali dello stesso Méjean, avevano poco prima indossato la divisa francese, e li ab-bandonò al Nelson.
Irritati dalla sua condotta, gli ufficiali francesi, quando sbarcarono a Marsiglia, scrissero un'indignata protesta, accusandolo di aver venduto agli inglesi i patrioti, e i generali Joubert e Championnet lo deferirono al Consiglio di guerra.

RESA DI CAPUA E GAETA.

La capitolazione di Capua e Gaeta avvenne nello stesso mese di luglio. Il 20 il duca di ROCCAROMANA e il BARKHARDT che assediavano Capua con alcuni reparti irregolari e un corpo di soldati siciliani, videro giungere il Troubridge e l'Hallowell, che con un esercito di Inglesi, Russi, Albanesi e Calabresi, giungevano a rinforzare l'assedio. Una settimana dopo, il generale francese Girardon che comandava il presidio composto di circa duemiladuecento uomini tra Francesi, Polacchi e Italiani Cisalpini, lui si arrese ma escluse (con chissà quali altre garanzie) dai patti i patrioti italiani che furono condotti in catene e poi imprigionati a Napoli. Qui lo stesso generale firmò il 31 la capitolazione di Gaeta, e i millecinquecento soldati francesi che erano in quel presidio furono inviati in Francia. I repubblicani italiani di Gaeta seguirono la medesima sorte di quelli di Capua (cioè dai "liberatori" furono "buttati a mare", abbandonati al loro destino, per essere loro "liberi".
Con la resa di Gaeta, tutto il regno di Napoli era ritornato sotto l'antico sovrano, che poteva, lieto del successo, ricompensare molti di coloro che lo avevano aiutato a ricuperare le province perdute, distribuendo loro titoli, onorificenze, gradi e rendite. Il Ruffo, sebbene malvisto dalla Corte, fu nominato luogotenente generale, il Micherough tenente colonnello con tremila ducati annui, Fra Diavolo e Sciarpa colonnelli con la pensione di duemilacinquecento ducati l'uno, di tremilacinquecento l'altro, il Nelson fu creato duca di Bronte con diciottomila ducati l'anno, il De Cesari e il Boccheciampi baroni, Vincenzo De Gasaro cavaliere costantiniano, varie ricompense ebbero l' Hamilton e gli ufficiali inglesi e tutti i capi degli insorti.



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