Eduardo Ambrosio


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Il SINDACATO

STORIA > NOVECENTO > ITALIA, LA REPUBBLICA


IL SINDACATO

Nel dicembre 1944, a Napoli, veniva convocato il I^ Congresso Nazionale del dopoguerra delle forze sindacali unitarie che esprime - in prospettive più radicale - la volontà di impegnarsi in una lotta decisa per il Mezzogiorno che miri, seguendo l'insegnamento gramsciano, all'unità di azione degli operai del Nord e dei contadini del Sud. Partendo dal presupposto che le popolazioni meridionali hanno visto disattese le loro aspirazioni dalla borghesia, dagli industriali del Nord e dai governi che queste forze hanno rappresentato e rappresentano, e che esse non hanno ottenuto altro che quel poco che sono state capaci di realizzare autonomamente; il Congresso della CGIL si rivolge alle popolazioni del Nord che possono - sole - portare un reale contributo alla efficace soluzione dei problemi del Mezzogiorno ed alle lotte dei lavoratori del Sud.
L'unità dei lavoratori del Nord e dei contadini del Sud è vista, perciò, come condizione dalla quale non si può prescindere in funzione sia dello sviluppo economico del paese nel suo com-plesso sia dell'affermazione irreversibile delle istituzioni repubblicane e democratiche, in quanto la Repubblica e la Democrazia in Italia non saranno sicure fino a quanto "il livello di vita dei lavoratori del Sud non abbia raggiunto il livello di quelli del Nord".
La condizione indispensabile per lo sviluppo del Mezzogiorno è, quindi, l'affermazione della or-ganizzazione sindacale meridionale in quanto essendosi i governi dimostrati assolutamente in-capaci di risolvere i problemi meridionali - soprattutto per mancanza di volontà politica - "sono i lavoratori che devono affrontare questi problemi perché dalla soluzione soddisfacente di essi la classe lavoratrice italiana farà notevoli passi avanti". Il problema meridionale, infatti, non interessa solo le popolazioni del Mezzogiorno ma tutto il popolo italiano e soprattutto i lavoratori del Nord che devono assicurare il proprio contributo all'affermazione della democrazia in Italia lottando accanto ai compagni del Mezzogiorno e facendo propria la loro causa.

IL SINDACATO IN ITALIA DAL '45
La lotta di resistenza contro il regime fascista, l'occupazione nazista e la Repubblica di Salò se sul piano politico generano i governi di unità nazionale a cui partecipano tutti i partiti antifascisti, generarono pure il sindacato unitario CGIL che ebbe in un primo momento l'appoggio di tutti partiti antifascisti e soprattutto dei tre grandi partiti di massa usciti dalla Resistenza: PCI, PSIUP, DC.
Già nella primavera del '43 si assisteva al Nord a scioperi di massa nelle zone industriali; durante la Repubblica di Salò sorsero comitati di agitazione clandestini per organizzare sia movimenti di rivendicazione politica ed economica sia azioni di sabotaggio alle industrie che operavano nel settore egli armamenti; le Camere del Lavoro - anche se in forma clandestina - cominciarono a riorganizzarsi sotto la guida dei CLN.
Nell'aprile del '44, collaborando in modo corale, ebbero un enorme successo fino a costringere il regime a limitare fortemente le deportazioni e a trasferire gran parte della produzione bellica nel territorio del Reich.
Diversa era la situazione al Sud, presto liberato, la tradizione sindacale era poco sentita e ciò favorì le spinte miranti alla costituzione dei sindacati pre- fascisti.
Finalmente il 3 giugno 1944 i maggiori esponenti sindacali cattolici, socialisti e comunisti firmarono il cosiddetto "Patto di Roma" col quale di fatto veniva sancita l'unità sindacale che però - se fu un'esperienza nuova ed importante della storia sindacale italiana - ebbe vita breve per la sua genesi verticistica e la precarietà del nuovo rapporto democratico fra organizzazione e masse lavoratrici. Se è vero, quindi, che la CGIL nacque dall'iniziativa dei tre grandi partiti di massa, è vero altresì - come scrive V. Foa - che "è persino possibile cogliere nei suoi primi passi una pesante tutela dei sindacati 'amici' - soprattutto angloamericani - per garantire anche a livello della società gli equilibri pattuiti in sede diplomatica".
Era, quindi, naturale che l'unità non poteva sopravvivere ai contrasti dei partiti nella "guerra fredda".
Nel Patto di Roma, comunque venivano fissati alcuni importanti principi di massima: l'unità, democrazia interna e partecipazione delle minoranze alla gestione, libertà di espressione di opinione politica e i fede religiosa all'interno della confederazione, indipendenza (fondamentale) dai partiti politici. Fu stabilito, poi, che la direzione nazionale della Confederazione fosse affidata ad una rappresentanza paritetica delle tre correnti sindacali fino a quando non sarebbe stata la base a determinare il rapporto di forza in maniera libera e democratica.
Fu questo l'atto di rifondazione della CGIL che scatenò l'entusiasmo delle masse lavoratrici dimostrato dall'enorme e rapido aumento degli iscritti, anche se in pratica - fino alla fine della guerra - l'attività sindacale tacque subordinata alle esigenze della lotta partigiana.
Dopo il 25 aprile il problema fondamentale che si presentava alla CGIL era quello di lottare per una profonda democratizzazione delle strutture economiche del paese in tempi medi; a breve termine, l'obiettivo principale era quello di garantire gli interessi materiali e sociali dei lavoratori dipendenti. A medio termine si sentiva pure l'esigenza di lottare per la nazionalizzazione delle industrie chiave con posizioni di monopolio.
Alcuni successi sulla garanzia dei salari si ottennero con la "scala mobile" (in Italia prima di ogni altro pa-ese capitalistico), blocco dei licenziamenti, abolizione dell'autarchia economica e sulla ristrutturazione dell'apparato produttivo che non provocò licenziamenti, sul blocco dei fitti e controllo dei canoni; mentre scarsa fu l'influenza sindacale sulle misure contro l'inflazione e l'accettazione del blocco dei salari che procurò il "miracolo economico".
Nel Congresso del giugno 1947 la corrente comunista ottenne il 57,8% dei voti, quella socialista il 22,6% e quella cattolica il 13,4%, questa distribuzione dei voti provocò forti contrasti riguardo al passaggio - previsto dal Patto di Roma - dalla composizione paritetica a quella proporzionale per la composizione degli organi direttivi; contasti che divennero insanabili sull'art. 5 dello statuto CGIL, ovvero se il sindacato potesse o meno indire manifestazioni squisitamente politiche. La corrente cattolica non fu disposta a transigere sul principio della apoliticità del sindacato, così si dissociò e boicottò le lotte politiche della CGIL contro la restaurazione dei primi governi centristi.
Agli inizi del '48 si marciava a grandi passi verso la scissione, funzionale anche agli interessi dei finanzieri americani e alla strategia Truman alla quale era stata già funzionale la cacciata delle sinistre dalla coalizione governativa.
Con Azione Cattolica e ACLI la DC spingeva per un'uscita dalla Confederazione che maturò con lo sciopero indetto per l'attentato a Togliatti del 18 luglio, poco dopo nasceva la "Libera CGIL".
Nel '49 anche Repubblicani e Socialdemocratici lasciarono la CGIL, una parte entrò nel sindacato cattolico, rifondato nel frattempo come CISL ben presto collegata ai sindacati USA, e un'altra parte fondò una terza centrale sindacale: la UIL, definitasi il sindacato di tutti i socialisti democratici contro i sindacati cattolico e comunista.
Nonostante queste divisioni la CGIL, i cui esponenti furono in più occasioni perseguitati dai padroni, continuò ad invocare l'unità in vista del sovvertimento dei rapporti di forza in favore della classe operaia; la sua strategia fu basata sulla lotta per le "riforme di struttura" ovvero alcune nazionalizzazioni di monopoli, seria e profonda riforma agraria, programmazione economica in vista di una riconversione democratica del modello di sviluppo.
Nonostante la terribile reazione anti- operaia del Ministro degli Interni M. Scelba che contribuì a dare carattere difensivo anziché rivendicativo all'azione sindacale, fu annunciato nel '54 il piano Vanoni che prevedeva la creazione di 4 milioni di posti di lavoro e l'annullamento in 10 anni del gap Nrod/Sud.
La CGIL si era mostrata interessata al MEC nel '57 e la reazione favorevole di Giuseppe Di Vittorio (nato a Cerignola il 3 agosto 1892, bracciante con una grande carica comunicativa, autodidatta, dagli scioperi della vendemmia in Puglia del 1911, alla "settimana rossa" di Lugano - il "suo liceo" - del 1914, a deputato socialista massimalista, a comunista clandestino della III Internazionale, a fautore insieme al socialista Bruno Buozzi e al cattolico Achille Grandi della "Triplice sindacale", all'ideatore della CGIL nel '45 a Napoli, a membro della "Commissione dei 75" fu tra i padri della Costituzione e della Repubblica, morì il 3 novembre 1957) fu soffocata dal richiamo dei comunisti alla disciplina di partito. Nel '62, però, i successi della CEE avevano vinto le esitazione dei socialisti e CGIL e PCI cambiarono ufficialmente parere, ciò è il segno del cambio dell'azione sindacale dai limitati conflitti aziendali ad un respiro europeo. Nello VIII Congresso del PCI, Di Vittorio liquidava definitivamente la teoria della "cinghia di trasmissione" in quanto " ogni ingerenza di partito o comunque estranea nel sindacato costituisce un attentato alla sua unità", ciò provocò l'inizio del dialogo con CISL e UIL per una nuova fase unitaria.
La nuova fase favorita anche dal clima politico (si andava verso la svolta del '62). L'apice fu il tentativo del MSI di tenere a Genova, roccaforte della Resistenza, (qualche analogia con il G8 del luglio 2001), la CGIL proclamò uno sciopero generale, la CISL lasciò liberi i propri aderenti di parteciparvi e la UIL li invitò a non partecipare: la manifestazione ottenne il suo scopo anche se ci furono gravi scontri tra operai e polizia.
L'unità sindacale riparte nel '60, con i sedici giorni di sciopero alla Alfa Romeo dove giovani e giovanissimi in gran parte immigrati e non sindacalizzati rifiutarono la accelerazione dei ritmi e la monetizzazione del pluslavoro, e raggiunge il suo culmine nelle lotte per il rinnovo contrattuale del '62 -'63 dopo che gli accordi del '60-'61 avevano aperto la strada al riconoscimento di una reale presenza sindacale nelle fabbriche.
Nel '62 FIOM e FIM rivendicarono il riconoscimento del principio della contrattazione integrativa aziendale e settoriale da parte del sindacato, al rifiuto del padronato seguì uno sciopero generale unitario che costrinse la Confindustria a firmare un contratto simile a quello precedentemente approvato dall'Intersinde a riconoscere non solo i nuovi diritti di contrattazione ma anche aumenti salariali immediati tra il 10 e il 13%, la riduzione effettiva dell'orario di lavoro di due ore settimanali, l'istituzione di premi di produzione e il pagamento del salario in caso di malattia già nei primi tre giorni, e una serie di conquiste concernenti i diritti sindacali dei lavoratori.
Ai metalmeccanici seguirono gli edili con rivendicazioni sociali come quella dell'edilizia popolare, i braccianti e i salariati agricoli che ottennero un nuovo sistema contrattuale con aumenti fino al 30%. Il movimento unitario usciva cosi dalla strategia puramente difensiva a cui era costretto da circa tre lustri dalla "restaurazione capitalistica".
La risposta dei padroni non si fece attendere, siccome le vittorie sindacali erano scaturite anche dall'in-cremento del tasso di occupazione per il miracolo economico: tra il '62 e il '66 andarono, perciò, persi circa 800.000 posti di lavoro per indebolire il potere contrattuale di sindacati.
Si assiste, poi, all'affermarsi di una nuova forma di organizzazione del lavoro in sede produttiva che aumentando il tasso di intensità di lavoro e dello sfruttamento lascia invariato il volume della produzione mentre l'aumento salariale viene assorbito dall'inflazione.
Sul finire degli anni Sessanta - dopo un periodo di nuovo serio allentamento nel rapporto tra rivendicazioni salariali e problema del Mezzogiorno (altri dissensi vi furono per lo "accordo quadro" una sorta di collaborazione con l'ala progressista del padronato della CISL) - le centrali sindacali, importante fu la spinta che veniva dalle ACLI, rilanciarono una lotta unitaria di massa in vista di una nuova prospettiva della posizione del sindacato nel Sud: è la lotta contro le cosiddette "gabbie salariali" per equiparare i salari del Sud con quelli del "triangolo", l'adesione solidale (testimoniata anche dalla "rivolta" di Reggio), massiccia e unitaria, vinse la battaglia anche sulle pensioni.
Sulla spinta di questi fatti viene convocata nel '71 la I Conferenza Sindacale Unitaria sul Mezzogiorno che è caratterizzata da un'imponente manifestazione di lavoratori confluiti a Roma da ogni parte del paese. A Bari nel '72, subito dopo a Reggio, e poi a Napoli il dibattito è incentrato sulla strategia dell'intervento sindacale nel Sud e sulle prospettive di un nuovo tipo di sviluppo.
Questo nuovo tipo di impegno meridionalista - a livello organizzativo e a livello di analisi ed elaborazione politica - segna un momento fondamentale nella crescita del movimento sindacale unitario che trova punti inscindibili di convergenza proprio a contatto con i problemi tragici ma reali di masse operaie e contadine così disgregate o diseredate. I problemi del Mezzogiorno così si collegano sempre più - nella strategia sindacale - con quelli dell'intero paese in un "progetto globale": il Sud non appare più come la sede di un mancato sviluppo dove intervenire con strumenti di riequilibrio economico, bensì come "effetto e funzione di un modo storicamente determinato di produrre la ricchezza, di utilizzare le risorse, di organizzare la vita sociale dell'intera collettività. L'azione delle riforme deve costituire momento fondamentale della nuova strategia di sviluppo. Non si tratta tanto di proporre un'astratta meridionalizzazione delle riforme, ma di cogliere in concreto i nessi e le interdipendenze fra la domanda pubblica di case, scuole, ospedali, trasporti e le occasioni di allargamento della base produttiva e quindi dell'occupazione al Sud, di qualificazione e rafforzamento dell'intero apparato produttivo, in seguito al superamento degli acquisti settoriali e territoriali".
Dopo la crescita e difesa dell'occupazione degli anni '50 e la rivendicazione salariale degli anni '60 (rinnovi contrattuali del '63, '69, '72 con unificazione normativa tra operai e impiegati), con lo "autunno caldo" del '69 il movimento operaio pose chiaramente all'ordine del giorno il superamento del sistema capitalistico, è la terza fase del lotte sindacali in Italia, con la elaborazione de:
- La prima linea della strategia del sindacato viene contestato l'uso della forza- lavoro in fabbrica attraverso l'opposizione all'organizzazione del lavoro, al controllo dei tempi, alla lavorazione a catena, alla nocività del lavoro; la classe operaia rifiuta così gli esistenti rapporti di produzione che riducono la sua funzione a quella di mero elemento del capitale.
- La seconda si riallaccia al dibattito sulla programmazione democratica relativa al piano quinquennale in vista del riconoscimento al sindacato di un ampio controllo sugli investimenti sia per quanto concerne la localizzazione dei nuovi impianti, sia la riqualificazione merciologica dei prodotti: dalla centralità della fabbrica agli obiettivi di lotta generali (Mezzogiorno, occupazione, agricoltura).
- La terza metterà in discussione l'individualistico modello di vita borghese proponendo le grandi riforme generali di consumo (Congresso di Livorno, luglio '69) la formulazione di una proposta contrattuale che non si muova solo sul terreno aziendale ma anche su quello sociale (inquadramento unico, Sud, condizioni di lavoro, ecc.).
In definitiva, nonostante le enormi difficoltà politiche e le frequenti vendette padronali attraverso il sistema della strumentalizzazione antioperaia della congiuntura economica, il sindacato è riuscito a porre al primo posto almeno alcuni degli interessi più veri e profondi della classe operaia, anche se ai considerevoli successi contrattuali fanno fatto riscontro insufficienti cambiamenti dell'organizzazione del lavoro e scarsa incidenza sul modello di sviluppo capitalistico.
L'obiettivo dell'unità organica che appare tanto vicino per le esigenze della base e tanto lontano per le resistenze o meno piccole frange reazionarie della UIL e della CISL, non può non realizzarsi su queste nuove basi rivendicative che, attraverso nuovi strumenti unitari di base e sensibili rinnovamenti interni dell'organizzazione, pongano il movimento sindacale fra le forze essenziali per far ulteriormente crescere l'influenza della classe operaia e delle sue esigenze nell'assetto sociale e nella politica dello Stato.





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