Eduardo Ambrosio


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PART. COMUNISTA ITAL.

STORIA > NOVECENTO > ITALIA, LA REPUBBLICA

PARTITO COMUNISTA ITALIANO


Brevi cenni storici del PCI

La nascita

Il PCI è stato per lungo tempo il secondo partito italiano per consensi elettorali, ebbe in origine il nome di PARTITO COMUNISTA d'ITALIA e fu costituito il 21 gennaio 1921, in seguito ad una scissione del PSI. La frattura era venuta maturando nel biennio (rosso) precedente, quando le agitazioni popolari e operaie avevano as sunto una tale radicalità di obiettivi da non trovare nel PSI una corrispondenza adeguata per incanalarle verso indirizzi strategici unificanti e coerenti.
Sull'esempio dei soviet russi, alcuni membri dei Consigli di fabbrica, che erano stati al centro dell'azione del gruppo torinese di Ordine Nuovo, si misero alla guida delle masse operaie come mediatori fra gli operai stessi, i tecnici e gli intellettuali. Alla base di questa esperienza c'era l'idea leninista secondo cui spettava ad un'avanguardia operaia il compito di guidare il proletariato alla rivoluzione. Quindi, i Consigli di fabbrica avevano una valenza politica oltre che sindacale: da essi partì il movimento dell'occupazione delle fabbriche (settembre 1920) che si estese a tutta l'area industriale del paese; ciò voleva essere una dimostrazione del fatto che gli operai erano in grado di fronteggiare i problemi della produzione e di sapersi organizzare in modo autonomo. Il movimento, però, dopo una fase di grande espansione, fallì nei suoi intendi, soprattutto perché si ritrovò senza una guida politica a livello nazionale, a causa del rifiuto del PSI che non volle impegnarsi su un fronte rivoluzionario dagli sbocchi imprevedibili.
La sconfitta del movimento di occupazione delle fabbriche provocò la definitiva rottura tra i militanti comunisti che giudicavano indecisi PSI e CGIL: E' allora che i comunisti cominciano a contarsi su scala nazionale, a raggrupparsi, a prospettare un partito nuovo, che sia davvero capace di organizzare lo stato operaio, che non abdichi alla sua funzione nel momento decisivo, che abbia i suoi quadri alla testa delle masse " (P. Striano, 1975). Si cominciò a pensare che la rivoluzione proletaria avesse bisogno di un partito che seguisse con fedeltà la direttiva di un supremo centro internazionale come lo era la Internazionale comunista (la Terza sovietica9.
Al Congresso del PSI, convocato a Livorno il 15 gennaio 1921, l'ala comunista, che aveva ritenuto l'adesione del PSI all'Internazionale come un qualcosa di esclusivamente formale, fu estromessa dal partito stesso e si proclamò come Partito comunista, sezione della Terza Internazionale.
La formazione di questo nuovo partito si distingue per due caratteri principali: da una parte il desiderio di appartenenza al partito unico mondiale, cioè alla Terza Internazionale; dall'altra la compattezza sociale e ideologica degli iscritti, che erano in massima parte operai e contadini che nel partito si ritrovavano uniti da una rigorosa omogeneità di principi.
I primi anni di attività del PC d'I furono contraddistinti da un'aspra polemica contro i vecchi compagni del partito socialista, ma nello stesso tempo anche da una durissima e quotidiana lotta contro le violenze e l'offensiva armata del fascismo. Per quanto i comunisti avessero lottato con energie e spirito di sacrificio subendo la persecuzione squadrista e la repressione poliziesca, raggiunsero risultati limitati, sia per la relativa fragilità del partito non del tutto radicato sul territorio, sia per la linea politica impressa dal segretario Bordiga, contrario a qualsiasi azione di alleanza con gli altri partiti antifascisti, come la non partecipazione al movimento degli "Arditi del popolo" o l'opposizione al riavvicinamento con i socialisti massimalisti, in quanto egli concepiva il partito organismo puro, da preservare da ogni contaminazione.
Questa rigida ed estremista direzione ben presto sfociò in un malcontento che, nel 3° Congresso di Lione del gennaio 1926, affermò la linea politica del nuovo segretario Gramsci, che giudicava il fascismo uno strumento di unificazione politica della grande borghesia in una società italiana proiettata verso un forte sviluppo capitalistico.
Quindi si diede al fascismo un'interpretazione più preoccupata e meno contingente e ci si attrezzò contro di esso e la sua "legalità" per una lotta dura e lunga, con attività (e non estranei a tutto per "salvarsi l'anima") continua di scioperi, manifestazioni, diffusione di stampa clandestina, mantenere una rete di collegamenti. Sono in maggiorana comunisti quelli che cadono sotto i colpi del Tribunale Speciale e ne subiscono pesanti condanne (4000 su 5000).
I rapporti dei comunisti con gli altri antifascisti furono sempre difficili: a socialisti e socialdemocratici criticavano la sottovalutazione del fascismo; loro miopia politica per la dipendenza ideologica dal partito egemone russo. Uno scossone ci fu con l'avvento del nazismo, infatti, nel 7° Congresso dell'Internazionale Comunista, si dette sanzione alla formazione di fronti popolari nei quali non soltanto si saldassero le componenti del movimento operaio, ma si legassero ad esse anche le formazioni di carattere democratico borghese che la necessità di opporsi al fascismo.
I due capi storici del socialismo e del comunismo italiani, Nenni e Togliatti spingono nelle rispettive organizzazioni in senso decisamente unitario e giungono a favorire la firma di un patto di unità di azione tra PCI e PSI, consolidatosi durante la militanza a fianco dell'esercito repubblicano spagnolo.
Tra la guerra di Spagna e la Resistenza la fragile unità subisce un duro colpo per la rottura, all'inizio del II° conflitto mondiale, di Francia e Inghilterra con L'URSS (patto di non aggressione tra Hitler e Stalin). Dopo l'aggressione tedesca all'Unione Sovietica, le forze dell'antifascismo italiano, anche se con difficoltà e ritardi, tornano ad unificarsi nella lotta comune dei popoli liberi contro il nazifascismo. Dopo il 25 luglio '43, il PCI esce dall'illegalità alla lotta politica aperta con manifestazioni popolari insieme (comitati) agli altri partiti antifascisti (vietate da Badoglio) come la proclamazione dello sciopero generale, la rivendicazione di un immediato armistizio, la libertà di stampa e l'amnistia per i condannati politici. Dopo l'8 settembre, i diversi Comitati si trasformarono in Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), dove i comunisti parteciparono con slancio e si impegnarono nella lotta di liberazione (la Resistenza al tedesco) con le capacità militanti. L'arrivo a Napoli, nella primavera del '44, di Togliatti inaugura una nuova linea politica del partito: non più solo critica e propaganda ma intervento nella vita politica con indicazioni e proposte proprie, per cui non più solo quadri selezionati ma partito do massa. La conseguenza sarà la presenza dei comunisti nei vari governi che, dalla primavera del '44, si succedettero con la partecipazione dei partiti antifascisti. Sulla stessa linea l'azione comunista in occasione del Referendum istituzionale.

IL PCI NELLA REPUBBLICA
Il "partito nuovo" voluto da Togliatti si inserì profondamente nella realtà italiana, radicato profondamente nel movimento operaio e contadino; i riscontri elettorali lo collocarono stabilmente al secondo posto tra i partiti italiani; amministrò stabilmente, insieme a socialisti ed altre forze di sinistra, molti comuni e province; esercitò una grande influenza culturale, grazie alle sue lotte per l'attuazione delle norme costituzionali e per la difesa delle libertà democratiche.
Il legame che ha unito per molti decenni il PCI all'URSS, però, ha creato un'immagine di "doppiezza" che si è andata fugando, dopo il 1956 e i grandi sconvolgimenti del blocco comunista (la denuncia dei crimini di Stalin nel XX Congresso del partito comunista sovietico, la crisi polacca, la repressione sovietica della rivolta ungherese) quando il gruppo dirigente nel XIII Congresso del PCI a Roma nel dicembre 1956 si orientarono verso una "via italiana al socialismo", incentrata sul rispetto delle regole democratiche, rivolta al varo di riforme di struttura, capaci di preparare il superamento del capitalismo.
Da quel Congresso ebbe inizio una lunga e contraddittoria marcia del PCI verso una collocazione che comportava la rinuncia alle tradizionali ipotesi rivoluzionarie. Non per questo si attenuò la preclusione verso il PCI da parte della DC e degli altri partiti di centro, che da soli o con il PSI avevano occupato l'area del governo.
Verso la fine degli anni Settanta grandi avvenimenti, venuti a maturazione in seguito all'imponente processo di industrializzazione del paese, produssero mutazioni notevoli nello scenario politico: esplose con violenza il movimento di protesta dei giovani nel '68, che si radicalizzò su temi e obiettivi rivoluzionari e coinvolse la classe operaia. Questo arcipelago di associazioni e movimenti politici, poi, si disperse tranne gli elementi più irriducibili che in parte costituirono Autonomia Operaia, presente in ogni manifestazione, e in parte formarono organizzazioni terroristiche (Brigate Rosse, Volante Rossa, Nuclei Armati Proletari, Unità combattenti comuniste, ecc.); del resto egli "anni di piombo" furono caratterizzati da azioni stragiste dell'estrema destra non senza la complicità di servizi segreti deviati ed alcuni settori dell'apparato statale.
Soprattutto il terrorismo "rosso" ebbe un ruolo fondamentale nel far fallire il tentativo del PCI di entrare nel governo attraverso la strategia del "compromesso storico" voluta da Enrico Berlinguer e, ad un certo momento, condivisa anche dal leader democristiano Aldo Moro: la strategia fallì sia per l'uccisione di Moro da parte delle BR, sia perché la partecipazione dei comunisti alla maggiorana che sostenne il Governo Andreotti si svolse nel clima di emergenza antiterroristica, che non offriva loro alcuna possibilità di incisivo intervento. Alla fine del 1979 li PCI usciva dalla maggioranza detta di "solidarietà nazionale": la scelta fu quella di una linea alternativa democratica, che scontava l'incompatibilità del PCI cn qualsiasi governo di cui la DC fosse il centro o comunque l'elemento condizionante. Tale indirizzo, però, incontrò difficoltà notevoli a causa della nuova politica adottata dal PSI in seguito all'avvento della segreteria Craxi (l'avvento dei quarantenni) con il conseguente "nuovo corso socialista" caratterizzato da un'aspra polemica con i comunisti stessi e dall'aspirazione di fare del PSI la fora egemone del progettato schieramento di sinistra.
Proseguiva lo sganciamento del PCI dai collegamenti con i paesi del cosiddetto "socialismo reale", URSS compresa. I nuovi sviluppi determinati in questi paesi dal nuovo coso voluto da Gorbaciov, incoraggiarono larghi settori del partito a dar vita ad una formazione politica sempre meno "diversa" da quelle della sinistra europea e a farne una fora "laica" e democratica. L'estremo sviluppo di questa tendenza è stata, agli inizi degli anni Novanta, la segreteria Achille Occhetto, che ha guidato il partito verso la formazione del Partito Democratico della Sinistra (PDS), d'altra parte, in contrasto con la linea di Occhetto, altre correnti dell'ex PCI, con a capo Cossutta, hanno dato vita a Rifondazione Comunista.



Il PCI -
nell'immediato dopoguerra - svolgeva un grosso lavoro organizzativo tra le masse contadine del Sud sostenendo con entusiasmo e decisione le lotte rivendicative per la conquista delle terre ma cercando, nello stesso tempo, di indirizzare lo scontento e la protesta delle popolazioni contadine verso forme di lotta sociale che non avessero, però, quel carattere di avventura e di disperazione che avevano avuto nel passato.
La rinascita del Mezzogiorno, per il PCI, significa "abbattere le vecchie strutture, cancellare i residui feudali, rompere il monopolio dei baroni della terra, liquidare la grande proprietà as-senteista, spezzare i vincoli che, per l'alleanza dei grandi agrari meridionali con i gruppi monopolistici dirigenti la vita italiana, hanno impedito il progresso economico del Mezzogiorno d'Italia" (cfr. Atti del VII Congresso del PCI).
La lotta per la rinascita del Sud deve essere una lotta di rinnovamento che, affrontando i pro-blemi di fondo della struttura della società meridionale e italiana nel complesso, sia in grado di tentare la soluzione dei problemi legati all'arretratezza economica e sociale attraverso una ra-dicale riforma della struttura socieconomica del paese.
Gli avversari da battere nella lotta per la rinascita del Mezzogiorno sono, perciò, individuati nei proprietari terrieri e nei loro rappresentanti politici e nelle resistenze conservatrici contro cui deve scendere in campo, per realizzare un vero moto innovatore, la classe operaia ed i suoi alleati contadini.
Le rivendicazioni, quindi, devono essere collegate ad una critica generale della società meri-dionale e ad una chiara denuncia delle responsabilità dei ceti privilegiati e parassitari.
La lotta per la terra deve essere, in definitiva, il punto d'incontro del moto di rinnovamento volto a rompere l'annosa "immobilità" meridionale con l'azione della maggioranza delle popolazioni del Sud e l'appoggio e il contributo della classe operaia del Nord.
Nel frattempo la costante preoccupazione di A. De Gasperi (pres. Cons. '45-'53) è quella di ri-equilibrare con un programma di riforme i rapporti tra le varie classi sociali per sottrarre forza e consensi al PCI nel momento della sua massima capacità organizzativa.
La riforma agraria, perciò, mirava ad eliminare il potenziale rivoluzionario dei "contadini poveri" creando una vasta rete di piccoli proprietari terrieri (i futuri Coltivatori Diretti) come baluardo alla propaganda e al cresciuto credito del PCI: il programma degasperiano, però, incontrò serie difficoltà non solo negli ambienti agrari ma soprattutto nei settori più conservatori e reazionari del suo stesso partito e, in genere, presso tutte le forze della destra economico - politica.
La riforma agraria quindi - parzialmente realizzata con la "Legge Sila", la "Legge Stralcio" e la "Legge Siciliana" - mirava all'allargamento ed al consolidamento della piccola proprietà coltiva-trice e alla accelerazione di certe trasformazioni dell'agricoltura verso sistemi più intensivi e redditizi per incentivare - pur negli insuperabili limiti che ne ridussero fortemente la portata innovatrice - l'emancipazione meridionale.


IL PCI NEGLI ANNI SETTANTA
In questi ultimi anni, con l'estendersi presso le popolazioni meridionale della consapevolezza che non è più il tempo di "attendere dall'alto", ma che è giunto finalmente il tempo di "lottare", è cominciata a poco a poco a svanire l'immagine di un Mezzogiorno immobile e generalmente sfiduciato.
Certamente questa volontà di riscossa e questo potenziale di ribellione e di lotta non sono ancora organizzati verso obiettivi precisi attraverso una lotta cosciente per le riforme e il progresso sociale, ma è incontestabile il fatto che anche le popolazioni del più sperduto paese meridionale hanno percepito l'eco e le conseguenze delle lotte operaie del Nord e del Pese tutto.
Il dato di fatto incontestabile che lotte scioperi manifestazioni valgono a strappare ai padroni ed alla classe dirigente grandi conquiste sociali e politiche ha fatto maturare la convinzione che non è più il tempo di rivolgersi come "clienti " ai "notabili" né di attendere provvidenze dall'alto, né di delegare ad altri le pro-prie responsabilità (la cosiddetta "mentalità delegante" definita da Allum), ma che anzi "è alla lotta che bisogna affidare le sorti del proprio avvenire", ed ha messo in crisi nella forma più radicale (proprio nel Mezzogiorno) il governo di Centrosinistra, fallimentare nel tipo di sviluppo enunciato inadeguato ai concreti processi economico- sociali.
Il Centrosinistra, infatti, cercava consensi e fiducia sulla base della prospettiva di uno sviluppo della nostra economia che, pur restando in gran parte concentrato al Nord nel suo impianto fondamentale, fosse in grado, però, di vincere gradualmente ma progressivamente l'arretratezza del Mezzogiorno in funzione di una notevole accumulazione di ricchezza che permettesse un decisivo flusso d'investimenti volto a favorire uno sviluppo capitalistico e industriale anche nel Sud.
Attorno a questa prospettiva si andava "organizzando un determinato sistema politico, di potere, di clientele, raggruppate e tenute insieme da una efficiente rete di interessi, di gruppi politici, ma fondate anche su una serie di convinzioni , di illusioni che si è riusciti a creare in una parte delle masse".
Lo stesso PSI finiva per integrarsi - pur tra contrasti e dibattiti interni, scissioni, riunificazioni - nel sistema di potere che era la proiezione di questa illusoria e distorta prospettiva di sviluppo.
I dati dell'emigrazione, dell'occupazione, della disoccupazione giovanile ed intellettuale confermano oggi, anche in quelle regioni sedi nuove importanti iniziative industriali, che le prospettive di sviluppo capitalistico- industriale sono ormai crollate. "La ragione di fondo di questo autentico naufragio sta nel fatto che non si è compreso che non si tratta di una questione di quantità di investimenti e di mezzi finanziari , ma di un fatto organico, cioè di quel modo di essere e di funzionare dell'intero meccanismo capitalistico italiano che ha come condizioni del suo sviluppo da una parte, lo sfruttamento della classe operaia, dall'altra la rapina di uomini e risorse delle regioni meridionali e, quindi, la creazione incessante del sottosviluppo, dell'arretratezza, dl parassitismo" (Cfr. E. Berlinguer , La questione Comunista, Roma 1975 pp. 282 sgg).
La consapevolezza di ciò provoca una maturazione complessiva delle masse lavoratrici meridionali come base per un profondo mutamento dei rapporti di forza a tutti i livelli una volta acquisito il concetto che i destini individuali dei giovani, degli operai , dei ceti medi, sono strettamente legati a quelli dell'intera società meridionale e nazionale. E proprio in funzione di questa consapevolezza del proprio destino e dei propri compiti le masse meridionali hanno decretato la crisi irreversibile della vecchia formula di governo.
In quale maniera può essere, perciò, riempito il vuoto di potere creato anche nel Mezzogiorno dal pro-gressivo esaurimento del Centrosinistra?
L'arretratezza, la degradazione, il dissanguamento non derivano dal fatto che il Mezzogiorno è stato dimenticato bensì dal fatto che è stato utilizzato per un tipo di sviluppo affatto esterno ad esso e subordinato agli interessi dei grandi gruppi monopolistici.
La miseria e l'arretratezza provocano emigrazione (in atto e potenziale) che si trasforma in un grande e stabile esercito di manodopera per gli industriali del Nord; in questo modo il capitalismo italiano si assicura la possibilità di mantenersi competitivo a livello internazionale non tanto sulla base di un razionale sfruttamento delle risorse nazionali e di una politica di consumi e degli investimenti tesa all'incremento complessivo della produttività sociale e nazionale, quanto sulla base di uno sfrenato sfruttamento delle risorse umane e materiali e del basso costo relativo della manodopera. Ne è derivato uno sviluppo di tipo intensivo basato sulla concentrazione territoriale tecnica e finanziaria che ha trascurato, però, l'estensione delle basi produttive, l'espansione dei consumi sociali, l'introduzione di quelle innovazioni tecniche e scientifiche che non fossero rivolte solo ad incrementare il tasso (già elevato) di sfruttamento della forza- lavoro. E' stata, perciò, trascurata ogni riforma tendente al crescente soddisfacimento dei bisogni sociali, all'inversione del regime dei consumi, al tentativo di assicurare all'economia del paese un nuovo e organico sviluppo non basato sulla speculazione, la rendita, la rapina e lo sperpero della spesa pubblica, l'esaltazione dei sistemi privati e degli impieghi improduttivi.
L'esperienza dimostra, perciò, che investimenti al Sud, anche copiscui, non hanno portato, a tutt'oggi, alcuna trasformazione strutturale significativa.
Che senso poteva avere, in una simile prospettiva, la richiesta dell'On. La Malfa di garantire solide condi-zioni economiche e finanziarie al paese prima di dar corso ad un nuovo tipo di politica economica basato sulle riforme e sulla trasformazione delle strutture economiche e sociali? Il Presidente del PRI alludeva - in maniera nemmeno tanto nascosta - al blocco dell'azione sindacale nelle fabbriche: dovrebbero essere cioè gli operai del Nord a solidarizzare con le popolazioni meridionali attraverso ulteriori sacrifici per un incremento dei profitti delle aziende e la conseguente possibilità di nuovi investimenti nel Mezzogiorno. Ma in realtà una rinuncia alle lotte per i contratti e le riforme da parte degli operai del Nord finirebbe col ricacciare ancora una volta indietro il paese tutto. "Il vero problema infatti è di vedere ne Mezzogiorno non un costo ma una possibile risorsa" legata all'industrializzazione completa delle immense capacità produttive e creative delle popolazioni meridionali.
L'unica scelta possibile, quindi, la più produttiva, la più economicamente e socialmente avanzata, consiste in una seria lotta che ponga al primo posto per il Mezzogiorno l'obiettivo dell'occupazione piena stabile qualificata.
Ecco, quindi, che la riforma altro che presentarsi come alternativa all'industrializzazione o aggiunta ai "pacchetti" governativi, appare come un punto di partenza di una nuova politica per l'industrializzazione del Mezzogiorno che blocchi l'emigrazione, freni la rapina delle risorse meridionali materiali ed umane, colpisca il parassitismo spezzando il blocco tra grandi monopoli e "potentati" locali che ha fondato il proprio potere sullo sfruttamento, sui bassi salari, sulla speculazione, sull'assalto al danaro pubblico ed alle casse statali.
Le lotte sociali e politiche di massa devono, perciò, avere come obiettivo la messa fuori gioco di questo blocco parassitario e privilegiato e, come fine, lo sviluppo della democrazia attraverso la crescita del potere popolare, la convergenza fra tutte le forze democratiche (laiche e cattoliche), l'azione unitaria delle organizzazione di massa, la costruzione di una democrazia di base come autogoverno. Ecco , quindi, la necessità di "un grande e potente schieramento unitario" espressione della lotta e dello accresciuto potere dei lavoratori e delle loro organizzazioni che si realizzi attraverso "una libera ed aperta collaborazione fra tutte le forze democratiche" per rompere o mutare l'attuale equilibrio di forze tra i partiti e all'interno di essi. Solo un nuovo blocco sociale e politico, quindi, costruito intorno agli operai e ai contadini è in grado di avviare un reale processo di trasformazione della società meridionale e nazionale dal punto di vista economico, sociale e politico.
Il compito del PCI è, perciò, quello di chiamare a sé e organizzare verso forme di lotta sociale e politica operai, contadini , ceti medi, donne, protagonisti della battaglia contro clientele e intrighi di notabili che hanno, fino ad ora, frustrato l'ansia di libertà, di riscatto, di giustizia sociale, di sviluppo civile del popolo meridionale che continua ancora ad avere "fame di terra e sete di libertà".
La forza del PCI sta nel fatto che la sua lotta politica "nasce per l'affermazione di quel grande ideale che trascende la politica contingente perché è l'ideale della liberazione di tutti gli uomini, di tutte le energie umane da ogni sfruttamento, da ogni schiavitù".
E facendo leva su questa forza che il PCI può respingere le teorie di reazionari e moderati che attribui-scono le difficoltà alle lotte e alle vittorie della classe operaia, all'avanzata del potere sindacale nelle fab-briche e nel paese, alla lotta delle Confederazioni sindacali per le grandi riforme sociali. Se le lotte e le conquiste sociali scuotono l'equilibrio del paese, esse agiscono come stimolo e non certo come remore al progresso nazionale.
Le crisi - spesso gravissime - trovano, invece, altrove le loro origini: nel prepotere dei grandi gruppi monopolistici, nello sviluppo economico distorto, nel compromesso tra la classe dirigente e le classi e i ceti più arretrati e parassitari della società che ha provocato il prevalere degli interessi di larghi settori improduttivi sugli interessi del progresso generale della nazione.
La lotta del partito è, perciò, tesa ad una precisa inversione di tendenza per il riconoscimento delle richieste e delle aspirazioni delle forze realmente produttive, ovvero della classe operaia forza produttiva per eccellenza. Ogni aumento di reddito deve, quindi, dev'essere a sostegno alla spinta produttiva e non più per ingrassare rendite e parassitismi.
La produzione deve essere orientata verso un incremento del tasso di occupazione e di produttività (mi-surato sul metro dell'intera economia nazionale) che tragga origine dal "progresso scientifico e tecnico, dalla formazione culturale e professionale dei cittadini, dalla trasformazione dell'agricoltura e dalla rinascita del Mezzogiorno " (E. Berlinguer, sostituito, per improvvisa morte nel 1984, da Natta, in carica fino al 1988), e miri all'espansione di quei consumi sociali (casa, sanità, scuola, trasporti) che da un lato ri-spondono a fondamentali bisogni di giustizia e libertà, dall'altro possono essere l'unica solida premessa di uno sviluppo nuovo, duraturo e complessivo dell'economia e della società.



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