Eduardo Ambrosio


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I PROCESSI E I MARTIRI

STORIA > 1799 REPUBBLICA NAPOLETANA

I PROCESSI, LE CONDANNE, I MARTIRI

SOMMARIO:
- PROCESSI E CONDANNE.
- IMPICCAGIONE DELL'AMMIRAGLIO CARACCIOLO.
- I MARTIRI NAPOLETANI.
- CONSIDERAZIONI FINALI.



PROCESSI E CONDANNE.

Il 5 agosto Ferdinando IV partì alla volta di Palermo, e mentre qui si riprendevano le feste di S. Rosalia, che erano state sospese un mese prima per la partenza del re, a Napoli s'istruivano i pro-cessi contro prigionieri che a migliaia gremivano le carceri. Due tribunali straordinari erano stati istituiti, la "Giun-ta di Stato" e la "Giunta Militare": la prima era composta di Felice Damiani, presidente, Giuseppe Guidobaldi, fiscale, Antonio Della Rossa, Angelo di Fiore, Gaetano Sambuco, Vincenzo Speciale, consiglieri, Salvatore di Giovanni segretario, Gaspare Vanvitelli e Girolamo Moles, difensori e Alessandro Nava procuratore; la seconda, che doveva giudicare gli ufficiali di terra e di mare, era formata dai generali Spinelli e De Gambis, dai principi di Ripa e di Sassonia e dal barone De Boisy.

IMPICCAGIONE DELL'AMMIRAGLIO CARACCIOLO.

In un primo momento non furono pronunciate da queste due giunte le prime condanne. La prima sentenza fu, infatti, impartita da una giunta di cinque ufficiali borbonici pre-sieduta dall'inglese Thurn riunita per ordine del Nelson sulla sua nave, e che mosso da una stolta invidia e dallo zelo eccessivo per la turpe causa di un sovrano non suo, condusse dinanzi ad essa, per sottoporlo ad un giudi-zio sommario, uno dei più prodi marinai del tempo, l'ammiraglio Francesco Caracciolo, che si era guadagnata una grande fama in audaci scontri contro i Barbareschi, nell'assedio di Tolone e, sotto gli inglesi (!), nella guerra d'America e nel Mediterraneo. Il 13 giugno, essendo stata infranta la resistenza repubblicana a Napoli, lui era fuggito ma un paio di settimane dopo era caduto nelle mani degli sbirri del Nelson. Condotto, la mattina del 29 giugno, sul "Foudroyant" fu giudicato quel giorno stesso sotto l'accusa di ribellione al proprio re. Soltanto due membri della giunta, gli alfieri di vascello Giuseppe Niscemi siciliano e Andrea Caperozzo triestino, proposero come pena di relegarlo su un'isola; gli altri pronunciarono la sentenza di morte, che venne eseguita poche ore dopo.
Alle ore 5 del pomeriggio, mentre sulla nave ammiraglia allegramente si pranzava, all'albero di trinchetto della "Minerva" veniva impiccato il prode Caracciolo, il cui cadavere poi buttato in mare al tramonto, fu più tardi raccolto da pietose persone e sepolto nella chiesa di S. Maria della Catena.

I MARTIRI NAPOLETANI.

Caratteristica peculiare dei martiri della Repubblica Napoletana è stata la loro estrazione sociale, bisogna fare attenzione alle loro professioni, non erano questi plebei, contadini, banditi, briganti, nullatenenti, o ribelli senza un nome ! Il desiderio d'indipendenza non faceva da contrappeso alla fame, ma veniva dall'anima, spesso giocandosi il proprio benessere, la propria posizione sociale, il proprio prestigio, piuttosto che fare gli umili "servi")
Luogo del martirio fu la famosa piazza del Mercato, boia crudele e beffardo, di fatto, e perfino nel nome, era Tommaso Paradiso; ci pensava lui a mandarli all'inferno dando "spettacolo" in piazza agli assetati di sangue!
Mentre a Napoli, dalla giunta istituita dal Ruffo furono pronunciate le prime condanne capitali dopo di quella del Caracciolo. Dal 6 al 26 luglio mandò sul patibolo
Antonio Tramaglia, il negoziante Domenico Perla, il bibliotecario Giuseppe Cotitta. fra Giuseppe, l'orologiaio Andrea Vitaliani. Ma le giunte, furono quelle che mandarono a morte il numero maggiore di persone.
Il 4 agosto fu impiccato il colonnello Gaetano Russo, il 14 fu decapitato
Oronzo Massa, duca di Galugnano, il 20 furono giustiziati Giuliano Colonna principe di Aliano, Gennaro Serra Duca di Cassano, Michele Natale vescovo (!!) di Vico Equense, l'avvocato Vincenzo Lupo, il sacerdote (!!) Nicola Pacifico, Domenico e Antonio Piatti banchieri, ed Eleonora Fonseca Pimentel poetessa e direttrice del "Monitore".
Morirono tutti serenamente. L'avvocato Lupo mentre era condotto al supplizio disse agli amici "
Vi lego il mio odio contro la tirannide"; Eleonora, prima di uscire dal carcere, volle bere il caffè recitò un beffardo verso in latino poi salì intrepidamente sul palco, quindi, salutati i cadaveri dei suoi compagni già giustiziati, si affidò risolutamente alle mani del carnefice. Il 29 furono uccisi Michele il "pazzo", il venditore di olio Antonio d'Avena, l'avvocato Nicola Fasulo, il maestro di scherma Gaetano De Marco, il capitano di cavalleria Niccolò Fiani; il 4 settembre venne il turno e fu decapitato il valoroso Ettore Carafa, il quale, per mostrare ancora una volta il suo coraggio, volle giacere supino in modo da poter guardare la mannaia che gli scendeva sul collo; il 24 salirono sul patibolo il viceconsole di Francia Pasquale Sieyes e il generale Gabriele Manthoné; il 30 Ferdinando Pignatelli principe di Strongoli e il fratello Mario, il padre Nicola De Meo e gli avvocati Prosdocimo Rotondo e Francesco Antonio Astore.
Il mese d'ottobre vide altri martiri salire sul palco di piazza del Mercato. Il 10 ottobre il professore
Ercole D'Agnese e il giovane marchese di Genzano Filippo De Marini che prima di affidare il collo alla mannaia volle baciare il boia Paradiso; l'8 il prof. Nicola Maria Rossi e l'avvocato Domenico Antonio Pagano; il 10 il generale Pasquale Matera; il 14 il capitano Antonio Tocco, il tenente Pasquale Assisi, il sacerdote Niccola Palomba, il medico Felice Mastrangelo; il 22 i marchesi Giuseppe Riario Sforza di Corleto e Onofrio De Colaci di Guisaco, il sacerdote Gaetano Morgera, il tenente Giovanni Varanese, il notaio Luigi Bozzaotre, il cavaliere Francesco Antonio Grimaldi; il 23 il generale Francesco Federici, il marchese di Pietrastornina e il sacerdote Vincenzo Troise, professore dell'Università; il 18 furono impiccati l'avvocato e professore universitario Mario Pagano, il medico Domenico Cirillo, il poeta Ignazio Ciaja e l'avvocato Giorgio Pigliacelli; il 31 il teologo Severo Capeto, il professore d'eloquenza sac.ote Ignazio Falconieri, Colombo Andreassi e Raffaele Jossa.
Nel mese di novembre furono giustiziati: il 9 l
'avvocato Gian Leonardo Palombo, l'11 Pasquale Baffi professore di lingua e letteratura greca all'Università, il 13 il frate Francesco Guardati professore universitario, il 19 gli avvocati Nicola Magliano e Vincenzo Russo, il 23 il giureconsulto Antonio Reggi e il negoziante Melchiorre Maffei, il 28 il giureconsulto Albanese, l'avvocato Domenico Bisceglie, il magistrato Gregorio Mattei, l'avvocato Luigi Rossi, i professori Clinio Rosselli dell'Accademia militare, Francesco Bagno dell'Ospedale degli Incurabili, Vincenzo De Filippis dell'università di Bologna e l'avvocato Giuseppe Logoteta.
L'elenco dei martiri non è ancora finito: il 3 dicembre il medico Nicola Neri, l'avvocato Gregorio Mancini e il te-nente Pietro Nicoletti, il 7 i tenenti di Vascello Raffaele Doria e Ferdinando Reggi, il tenente di fanteria Antonio Sardelli, e Francesco Conforti sacerdote e professore di storia all'Università, il 12 il barone Leopoldo De Renzis di Montanaro, l'avvocato Niccola Fiorentino, il carmelitano prof. Francesco Saverio Granata e il capitano Carlo Romeo, il 14 il marchese Carlo Mauri di Polvica; il 4 gennaio del 1800 il poeta Giacomo Antonio Gualzetti, Nicola Ricciardi, Giuseppe Cammarota e Marcello Eusebio Scotti professore di filosofia all'Università, il 18 Michelangelo Ciccone e il notaio Niccola Mazzola; il 1° febbraio gli studenti di medicina Gaspare Pucci e Cristoforo Grossi, l'8 i quattro capitani di marina Andrea Mazzitelli, Luigi De Granelais, Raffaele Montemayor e Giambattista de Simone; il 6 l'avvocato Carlo Muscari e il 18 il medico Gennaro Felice Racucci.
L'ultima martire (ma solo in questo periodo) che salì il palco di piazza del Mercato fu una donna: Luisa Sanfelice.
Invano si era cercato di salvarla, più volte con un senso di pietà era stata rimandata l'esecuzione perché risultò essere incinta di alcuni mesi, il re disse che era un pretesto, non fidandosi dei dottori di Napoli la fece trasferire a Palermo, ma anche qui risultò incinta; fu quindi solo sospesa l'esecuzione in attesa del parto. Quando nacque il bambino il caso volle che venisse al mondo negli stessi giorni che sua figlia la principessa ereditaria Maria Clementina metteva anche al mondo un bimbo. Quando Ferdinando, gli fece visita per vedere l'erede, e lo prese in braccio, la principessa credette che quello era il momento più favorevole per chiedere la grazia per la sventurata donna e la sventurata creatura che sarebbe rimasta senza una madre. Ma Ferdinando incollerito per la richiesta, gli buttò il bambino sul letto, uscì dalla stanza non concesse nessuna la clemenza, ma ne ordinò l'esecuzione. L'11 settembre del 1800, fra la pietà della folla, Luisa Sanfelice, salì sul patibolo magra e stravolta. Temendo un tumulto, il boia, si adoperò a fare più in fretta del solito, ma nel movimento disperato e convulso della donna la scure la colpì solo sopra una spalla dilaniandola ma con lei ancora viva negli spasimi, allora il carnefice mise fine alla cruenta scena, e la terminò con una peggiore, infatti, chiuse lo "spettacolo" scannandola con un coltello infilato sotto la gola.

CONSIDERAZIONI FINALI.

Concludendo il suo "Saggio storico sulla rivoluzione napoletana" del 1801, nelle ultime pagine è tutta una commossa rievocazione dei martiri di quell'anno cruento, il patriota "Vincenzo Cuoco" così scriveva:
"…
Il re, strascinato dai falsi consigli, produsse la rovina della nazione. I suoi ministri non amavano né curavano la nazione: doveva perciò perdersi, e si perdette. I repubblicani, con le più pure intenzioni, con il più caldo amor della patria, non mancando di coraggio, perdettero loro stessi e la repubblica, e caddero con la patria, vittime di quell'ordine di cose, cui tentarono di resistere, ma nulla più si poteva fare, che cedere".
"…Una rivoluzione ritardata o respinta è un male gravissimo da cui l'umanità non si libera se non quando le sue idee tornano di nuovo al livello con i suoi governi; e quindi i governi diventano più umani, perché più sicuri; l'u-manità più libera, perché più tranquilla; più industriosa e più felice, perché non deve consumare le sue forze a lottare contro il governo. Ma talora passano dei secoli e si soffre la barbarie, prima che questi tempi ritornino; ed il genere umano non passa ad un nuovo ordine di beni se non attraverso gli estremi mali…"
"…Quale sarà il destino di Napoli, dell'Italia, dell'Europa? Io non lo so. Una notte profonda circonda e ricopre tutto di un'ombra impenetrabile. Sembra che il destino non sia ancora propizio per la libertà italiana; ma sembra dall'altra parte che esso, con il nuovo ordine di cose, non ne tolga ancora le speranze, e fa che gli stessi re travaglino a preparar quell'opera che con infelice successo hanno tentato i repubblicani. Forse la corte di Napoli, spingendo le cose all'estremo, per desiderio smoderato di conservare il Regno, lo perderà di nuovo; e noi, come della prima è avvenuto, dovremo alla corte anche la seconda rivoluzione, la quale sarà più felice, perché desiderata e conseguita dalla nazione intera, per il suo bisogno e non per solo altrui dono…".
Anche lo stesso Vincenzo Cuoco, aveva 29 anni quando a lui gli toccò migliore sorte; fu, infatti, quest'anno esiliato dai Borboni; esule a Milano, qui fondò quattro anni dopo (1804/6) "il Giornale Italiano". Con gli eventi bonapartisti, ritornò poi a Napoli ricoprendo importanti cariche sotto Giuseppe Buonaparte e Giocchino Murat.

Ma con le righe sopra, e mentre era ancora in vita fu profeta due volte, nei successivi sconvolgimenti e nelle repressive imposte restaurazioni; prima napoleonica poi quell'austriaca. E riuscì pure a vedere,
i primi moti di Salerno, di Napoli e della Sicilia, del Piemonte, della Lombardia. Morì nel 1823 nella sua Napoli ancora una volta sconvolta da impiccagioni, esecuzioni, repressioni, invasioni, distruzioni, "straniere", che volevano come il solito "liberare" gli italiani che desideravano invece solo una cosa nella propria penisola: "essere italiani", "sentirsi italiani" e camminare con le proprie gambe.

Le sue righe seguitarono invano ad aleggiare e a far palpitare i cuori degli italiani non solo a Napoli ma su tutta la penisola. Pepe, infatti, iniziò un nuovo periodo, che pur lasciandosi dietro dei bagni di sangue nei decenni che seguirono, lentamente, riuscirono poi a far capire che per fare una nazione, e per non essere dei coloni di altre nazioni, bisognava essere uniti.





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