Eduardo Ambrosio


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FILOSOFIA IN DANTE

FILOSOFIA


LA FILOSOFIA NEL MONDO DI DANTE
ESTRATTO DAL VOLUME "LEGGERE DANTE OGGI" - AA. VV. - FRANCO DI MAURO EDITORE -2008

SOMMARIO: 1 – Premessa , 2 – La filosofia fino a Dante, 3 - L’ingresso della concezione aristotelica dell’intelletto nell’Occidente latino, 4 – La filosofia nell’opera di Dante, 5 – Una considerazione riassuntiva e conclusiva
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1 – Premessa

Una presentazione esaustiva del pensiero filosofico dei secoli XIII e XIV (il periodo dantesco) è un lavoro alquanto arduo, data la necessità di sintesi richiesta; comunque l’analisi non può prescindere da una rapida carrellata su un periodo più ampio, tanto da coinvolgere buona parte della filosofia antica e la quasi totalità di quella cristiana e medioevale, perché la filosofia duo/trecentesca è una diretta rielaborazione di pensieri precedenti, in particolar modo di quello neoplatonico e di quello aristotelico con varie interpretazioni.

Trattare, quindi, la filosofia nel mondo di Dante Alighieri significa analizzare una stagione di rilevante ricchezza speculativa e di grande apertura dialogica sui temi più intriganti dell'esistenza umana.

La natura allegorica della
Divina Commedia e il suo distendersi sul piano dei quattro “sensus” assicurano il continuo appello del Sommo Poeta al procedimento raziocinativo ed attestano l'imprescindibilità del ricorso alla filosofia per una puntuale comprensione degli assunti teologici. I1 poema, quindi, diventa sacro in virtù dell'evolversi dell'allegoria e della filosofia in teologia (scienza di Dio), fino a renderlo espressione di una poesia “cristiana” in grado di tradurre nella potenza del linguaggio e dell'immaginario poetico i contenuti della speculazione teologica.

Il presente lavoro si snoderà attraverso un’analisi del pensiero filosofico del periodo in oggetto con l’inserimento strategico di brevi schede sui pensatori più caratterizzanti, dalle quali traspare quasi ininterrottamente il pensiero aristotelico, che resta il punto di riferimento e filo conduttore di tutte le riflessioni.

2 – La filosofia fino a Dante

A grandi linee, dopo il sistema aristotelico, si sviluppa l’Ellenismo fino al III secolo con la cultura alessandrina ed il Neoplatonismo, ossia quella ultima grande corrente della filosofia antica, ispirata a Platone, ma influenzata dal Cristianesimo che stava diffondendosi nell’ambito dell'Impero romano.

Il pensiero neoplatonico, il cui massimo esponente è Plotino, avrà una grande influenza nel Medioevo.

Plotino, pur mantenendo la struttura gerarchica della realtà platonica, a differenza di Platone, secondo il quale al vertice vi era un principio bipolare, mette a capo dell'intera realtà l'Uno, al secondo livello il Nous (la ragione). L'Uno è l'erede del principio supremo platonico, ossia il Bene in sé, la cui caratteristica fondamentale era di essere “superiore all'essere per dignità e potenza”. Questa concezione porta il Nostro a formulare la teoria della “teologia negativa”: l'Uno, che di fatto è il dio, non lo chiama dio perché cadrebbe in errore; chiamarlo Uno è la maniera meno errata di definirlo, in quanto si tratta di una realtà superiore all'essere, non può neanche essere nominato, altrimenti non sarebbe più un principio unico; è come se nominandolo si sdoppiasse: definendolo Uno si proclama proprio la teologia negativa perché non si dice ciò che dio è, ma ciò che non è, ossia si dice che non è molteplice: dio è “pensiero di pensiero”.
L'Uno è al vertice e la realtà (o il molteplice) ne deriva in maniera gerarchica: per esprimere questo concetto Plotino introduce il concetto di
emanazione. Ma come l'Uno emana la realtà? L'attività dell'Uno, innanzitutto, non è né necessaria né libera, oppure si può anche intendere che sia ambedue le cose: cioè che l'Uno agisce senza obblighi, ma tuttavia, seguendo la propria natura, l'azione dell'Uno è spontanea; esso fa emergere l'essere a causa di una sovrabbondanza di essere, come una fonte inesauribile; infatti non è che l'Uno emanando, emettendo l'essere, diminuisca: ricordiamoci che è al di sopra dell' essere.
Dopo l’influsso platonico, si avverte anche quello aristotelico: è infatti tipicamente aristotelica l'idea che tutto ciò che si produce sia conseguenza di un'attività teoretica (l'artigiano produce in conseguenza del pensare); altrettanto aristotelico è il concetto di divinità vista come pensiero di pensiero (la divinità infatti per Aristotele non fa altro che pensare a se stessa, senza conseguenze, se non la sua beatitudine); unendo l'Uno e la derivazione della realtà con la produzione artigianale, nonché il “pensiero di pensiero”, Plotino prova a dare una sua interpretazione; vi è l'Uno, pensiero di pensiero, che pensa a se stesso e da questa attività teoretica emana spontaneamente la realtà. Ma va notato che anche il concetto di "pensiero di pensiero" è un'ibridazione tra Aristotele e Platone: infatti Plotino dice che il pensante e il pensato sono, in modo radicale, la medesima cosa: per conoscere bisogna che l'oggetto e il soggetto siano sempre più vicini, ma una volta arrivati a combaciare, paradossalmente, il soggetto si identifica con l’oggetto; anche noi possiamo provare a pensare a noi stessi, ma non sarebbe lo stesso perché l'unità soggetto - oggetto non sarebbe quella intesa da Plotino: infatti, pur non essendoci distinzione numerica, ci sarebbe distinzione concettuale, ossia sapremmo pur sempre quale è il soggetto e quale l'oggetto. Quel che intende Plotino è l'
autointuizione, ossia la conoscenza diretta e non mediata: una sorta di coglimento immediato di sé in cui soggetto e oggetto non sono distinguibili né numericamente né concettualmente. Esattamente nel momento in cui l'Uno si autointuisce emana qualcosa. Per esprimere meglio il concetto Plotino usa due metafore: la prima è quella della fonte luminosa e della luce che si espande intorno: immaginiamoci una candela accesa in una stanza buia: l'Uno è la candela, la realtà la sfera luminosa che si espande intorno; la seconda è quella della fonte e il ruscello: la fonte è l' Uno e il ruscello che scende a valle è la realtà; oltre all' idea di emanazione, già presente nella metafora della candela, va qui notato il tipo di rapporto tra Uno e realtà: la fonte diversa dal ruscello rivela l’assenza dell'atto creatore: l'essere procede fuori dall'Uno senza una vera e propria cronologia: è solo in termini logici e avviene all'eterno; la metafora suggerisce anche che non ci sarà mai netta separazione tra Uno e realtà: non si può concepire la fonte senza il ruscello e viceversa.
Il mondo, quindi, per la sua origine è divino. Tuttavia nel mondo v’è disordine, dolore e distruzione, in quanto esso può essere definito solo come un non-essere, assenza di bene, mancanza di misura e di forma, ma coloro che pensano di eliminare il male dal mondo, eliminano solo la Provvidenza. Anche il male morale sottostà alla provvidenza ed esso è possibile perché l’uomo è libero. In merito Dante dirà che come la forma di un’opera d’arte spesso non è in armonia con l’intenzione dell’artista, allo stesso modo l’uomo si allontana da Dio, in quanto ha il potere e la facoltà, per il suo libero arbitrio, di deviare verso il male.

Successivamente si va affermando dal IV secolo il pensiero cristiano con la Patristica (i Padri della Chiesa), il cui principio ispiratore è il platonismo elaborato nella versione cristiana da S. Agostino: tale concezione di natura accademica influenzerà la cultura occidentale fin verso il X secolo (il periodo degli amanuensi: i conservatori della cultura).


Il platonismorappresenta la fonte basilare del pensiero cristiano grazie alla felice intuizione metafisica (oltre la fisica) di tipo idealistico, anzi, per molti versi, anticipa le coordinate del cristianesimo come il dualismo tra realtà terrena (mondo reale corruttibile) e realtà celeste (governato dall’idea del bene) o la figura di Cristo con il Demiurgo, quale anello di congiunzione tra le due realtà.

L’idealismo platonico è soddisfazione del bisogno dell’uomo di liberarsi dalle angustie del mondo naturale, in cui egli nasce e vive come essere finito, e di partecipare a quella vita superiore dello spirito che si espande nell’infinito. Il Bene, fine ultimo dell’uomo, consiste nel dominare gli impulsi del corpo; ma, per ottenere tale dominio, occorre che l’anima razionale collabori mediante la sapienza, l’anima concupiscibile mediante la temperanza, l’anima irascibile mediante il coraggio. Ogni anima ha in tal modo la sua virtù che, una volta attuata, permette di dominare le passioni del corpo, affinché le tre anime non invadano l’una il campo dell’altra, è necessaria una quarta virtù, la giustizia, la quale fa in modo che ciascuna anima assolva ordinatamente ed esclusivamente il proprio compito.
Platone, ritenendo che la felicità sia essenzialmente contemplativa, in quanto consiste nella visione immediata i diretta delle
Idee, anticipa in un certo qual modo un aspetto fondamentale della filosofia di Dante, il quale ritiene che la visione di Dio rappresenti per i Cristiani la massima felicità goduta in Paradiso. Le Idee platoniche sono Enti universali, eterni, immutabili, da cui noi ricaviamo i concetti: la loro sede non si trova in questo mondo materiale, ma in un mondo trascendente chiamato Iperuranio.

Dopo il Mille, grazie ad un nuovo dinamismo storico (Crociate, Comuni, ecc.), si avverte la necessità di nuove conoscenze meno dogmatiche, più volte al nuovo e più idonee a spiegare, insomma un bisogno di scolarizzare, da qui lo sviluppo della Scolastica che elaborerà progressivamente il sistema aristotelico.

Aristotele ha il merito di aver eliminato il dualismo platonico: i valori ideali, pur rimanendo distinti dalle cose sensibili, sono nelle cose stesse. In tal modo la nostra vita terrena riacquista nuovo valore in quanto ha in se stessa la ragione del proprio essere.
Ma lo stesso Aristotele ammette l’esistenza di un principio divino da cui tutto deriva, e che muove il mondo restando assolutamente immobile, come l’oggetto di amore, resta immobile quando attrae l’amante. Come è evidente, la causalità del
Primo Motore (Atto puro) non è di tipo efficiente, come quella esercitata da una mano che muove un corpo, o dallo scultore che incava il marmo, o dal padre che genera il figlio, ma è propriamente una causalità di tipo finale.
Dio, quindi, è il fine ultimo verso cui tendono le cose del mondo, la
causa finale della realtà tutta, che da sempre si muove verso di Lui.
L’atto puro non crea il mondo, il Dio dei Cristiani sì. L’atto puro non è provvidenza, il Dio cristiano sì. L’atto puro è divinità assoluta, impersonale, il Dio dei Cristiani è persona.

Aristotele giunge in Occidente, dopo un lungo oblio, grazie soprattutto ai pensatori di origine orientale Avicenna ed Averroè in una interpretazione naturalistica, poi sarà elaborato da vari pensatori cristiani fino alla sistemazione definitiva di S. Tommaso (il Tomismo o aristotelismo cristiano). Le interpretazione dei primi due, e quelle arabe in genere, tendevano a separare nettamente l’ambito della fede e quello della ragione. Il Tomismo, invece, adattando l’Aristotelismo al Cristianesimo, cercò un equilibrio tra i due termini, dimostrando rigorosamente le verità cristiane secondo il principio “intellego ut credam”.

Del pensiero aristotelico sicuramente la più dibattuta è la concezione dell’
intelletto (su cui si basa quella cosmologica e l’intero sistema), per cui si rende necessaria una rassegna delle diverse concezione. Rassegna che parte dalla concezione del Maestro e si sviluppa nelle varie determinazioni.
Aristotele non dà definizioni di questa facoltà, ma ne fa emergere le caratteristiche sulla base del confronto con il senso: in analogia a questo, egli rileva le caratteristiche proprie della parte passiva dell’intelletto che è ricettivo della forma (intelligibile), quindi in potenza alla forma stessa, così come il senso è in potenza al sensibile (per conoscere una cosa bisogna avere la capacità di conoscerla, esserne cioè conoscenti in potenza). La natura di tale intelletto è di essere in potenza ed è detto perciò intelletto potenziale (o passivo): non è ragionevole secondo Aristotele che sia mescolato al corpo, perché in tal caso ne assumerebbe le qualità; si tratta invece di una facoltà, che, a differenza del senso, non ha organi. Caratteristica propria dell’intelletto è l’impassibilità, che fa sì che questo non si corrompa, cosa che invece accade al senso, dopo l’azione di un sensibile troppo intenso (suono forte, luce abbagliante ecc.).
Aristotele afferma, poi, che c’è un elemento
attivo dell’intelletto: detto produttivo (o attivo). In età medievale, l’intelletto produttivo aristotelico è definito intelletto agente. L’intelletto agente è ciò che fa diventare una conoscenza in potenza, conoscenza in atto, è cioè l’elemento di attività che permane sempre identico a se stesso, conosce tutto, ed è immortale e, rispetto all’anima umana, proviene dall’esterno, quasi un principio divino. In parallelo, l’intelletto potenziale o passivo di Aristotele è spesso definito dai medievali intelletto possibile (la possibilità o potenzialità di divenire tutte le cose).

La distinzione tra intelletto agente ed intelletto possibile nella tradizione peripatetica e araba
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L’interpretazione data da
Alessandro di Afrodisia (vissuto sotto Settimio Severo, II-III sec. D.C.) dell’intelletto aristotelico influenzerà i pensatori medievali. L’intelletto attivo, o agente, è identificato con il primo motore immobile (o causa prima o atto primo che è all’origine di tutte le cose) di Metafisica XII: Alessandro accentua dunque il carattere di separatezza e il fatto di “provenire dall’esterno”, per cui solo il pensiero proviene dall’esterno, e esso solo è divino. L’intelletto potenziale, o materiale, che inerisce l’essere umano non è altro che l’attitudine a possedere la capacità di conoscere. La perfezione di tale attitudine si ottiene con l’esercizio e l’abitudine all’attività intellettiva (lo sforzo individuale è necessario per progredire nella conoscenza): questo è l’intelletto in abito. I due intelletti potenziale e in abito sono forma del corpo e muoiono con esso. Immortale e separato è solo l’intelletto agente: Alessandro è celebre per aver sostenuto la mortalità dell’anima individuale e la divinità dell’intelletto agente.
La parafrasi di
Temistio del “De anima” aristotelico è il commento più antico pervenutoci. Egli rifiutò l’interpretazione alessandrina dell’intelletto agente = Dio, affermando che questo deve in qualche modo inerire l’individuo, poiché l’attività conoscitiva concerne l’essere umano che pensa quando vuole.
La tradizione filosofica islamica offrì nel suo insieme un contributo speculativo enorme al mondo latino in relazione al tema gnoseologico, in particolare sull’intelletto agente: le raffinate sintesi di Avicenna e del Commentatore per antonomasia di Aristotele Averroè furono studiate attentamente, nonostante le interdizioni che ne vietarono la lettura alle Università.

Avicenna utilizzando l’identificazione Dio = grado supremo dell’essere, compiuta già nel neoplatonismo arabo, elabora una metafisica unitaria fondata sulla distinzione tra l’essere possibile e l’essere necessario e una cosmologia che vede in Dio la prima causa della gerarchia degli esseri che sono all’origine del cosmo e della natura intera. Essere necessario è definito quello la cui esistenza è interna e fa parte della sua stessa essenza. Tale è soltanto Dio, essere semplicissimo che non ammette al suo interno distinzione alcuna, e necessario in quanto causa prima. Tutti gli altri esseri, ricevendo la propria esistenza da altra causa, sono possibili. Ciò non toglie, tuttavia, che poiché il processo di causazione di tutti gli esseri del Pleroma (perfezione del mondo intelligibile) è necessario, gli esseri possibili non sono per questo contingenti. La causa prima, fonte dell’intero cosmo, è identificata con Dio, essere supremo da cui sgorga, attraverso un atto di autocontemplazione, un primo intelletto. Dal carattere necessario di questa e delle altre emanazioni consegue la dottrina della eternità del mondo.
La creazione si esprime nella priorità ontologica di Dio sul mondo, dovuta alla sua prerogativa di essere necessario. Pensando se stesso come contingente in sé il primo intelletto genera il corpo del primo cielo, pensandosi come necessario rispetto alla sua causa esso genera la seconda sostanza intellettuale associata al primo cielo. Questa, a sua volta, pensandosi come contingente in se stessa genera il corpo del secondo cielo (cielo delle stelle fisse), pensandosi come necessaria rispetto alla causa da cui proviene genera la terza intelligenza, associata a quel cielo. Lo stesso processo governa la formazione delle sfere sopralunari (di Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio e Luna) e delle rispettive intelligenze. L’ultima delle intelligenze, associata alla Luna, è l’Intelletto Agente. Sede delle forme intelligibili esso governa i processi che avvengono nel mondo sublunare (o fisico). Dallo stesso provengono, inoltre, i singoli intelletti e la materia dei corpi.
L’origine del processo conoscitivo nell’uomo è il congiungimento (senza fusione) dell’intelletto umano con l’Intelletto Agente, separato e unico per tutti gli uomini. Come il Sole agisce sia sulle cose sia sulla vista, illuminando entrambe, così l’Intelletto Agente, opera sia sugli intelligibili (rendendoli visibili) sia sull’intelletto umano (rendendolo atto a riceverli).
L’intelletto umano si distingue in diverse facoltà: -
l’intelletto materiale, che è la pura potenzialità di conoscere data a ciascun uomo; - l’intelletto possibile, che conosce i primi intelligibili; - l’intelletto acquisito, che rappresenta l’insieme delle conoscenze acquisite dalla unione con l’Intelletto Agente.

Averroè formula una interpretazione teologica del Primo Principio, Intelletto Divino, Dio, Uno.
Da un punto di vista cosmologico critica i sistemi emanatistici e riprende alcune
categorie (schemi della conoscenza) aristoteliche per spiegare la formazione del mondo. Il filosofo rileva le contraddizioni cui va incontro Avicenna spiegando la nascita della molteplicità dall’unità, in quanto viene meno a due principi su cui pure fonda il suo pensiero: - L’idea che dall’Uno viene soltanto l’uno; - L’identità tra intelletto e intelligibile. Causa della molteplicità è la differenza, per ogni essere esistente, delle quattro cause che lo determinano (formale, materiale, efficiente, finale). L’unione di materia e forma, che è l’origine della esistenza di tutto, è operata direttamente da Dio, Primo Principio. Sia la materia sia le forme intelligibili, che sono nell’Essere Supremo, esistono dall’eternità. Il mondo, al contrario, è stato creato con il tempo dall’azione divina, che ha agito su materia e forma fuori dalla dimensione temporale.
Riguardo la dottrina dell’intelletto Averroè apporta una fondamentale innovazione nella quadripartizione, di ispirazione aristotelica, elaborata fino ad Avicenna. Egli ritiene, infatti, che non solo l’Intelletto Agente, di origine divina, ma anche
l’intelletto materiale sia unico per tutti gli uomini, in quanto pura potenzialità. Per spiegare poi l’individualità della conoscenza egli sottolinea l’origine sensibile del processo gnoseologico umano. La percezione del sensibile, da cui gli uomini astraggono gli intelligibili, essendo legata alla fantasia e alla immaginazione, varia da uomo a uomo e produce l’individualità della conoscenza. Compito essenziale dell’Intelletto Agente è, in questo contesto, quello di rendere possibile l’astrazione. E’ l’unione dell’Intelletto Agente con l’intelletto possibile a rendere immortale la parte intellettiva dell’anima, cioè l’intelletto speculativo, che costituisce l’attualizzazione della conoscenza nell’uomo.

3 - L’ingresso della concezione aristotelica dell’intelletto nell’Occidente latino.

Già prima della definitiva integrazione del “De anima” nel programma di studi della Facoltà di arti i maestri latini, conoscevano bene il testo naturale aristotelico e articolavano secondo i loro propri orientamenti teoretici la distinzione tra i due intelletti proposta da Aristotele e diversamente interpretata dai suoi commentatori peripatetici (un’altra denominazione degli aristotelici, da peripato, la scuola aristotelica) ed arabi: alcuni autori, leggendo Avicenna, privilegiarono l’idea di un intelletto agente separato dall’essere umano, identificato con un’intelligenza angelica; molti teologi, fedeli ad Agostino, lo concepirono in ultima istanza come la luce di origine divina che rende possibile ogni atto conoscitivo umano.
I teologi Alberto Magno e Tommaso d’Aquino considerarono intelletto agente e intelletto possibile come parti dell’anima umana. In questa interpretazione della distinzione aristotelica, l’intelletto (sia agente che possibile) è una facoltà (o parte, o potenza) dell’anima umana: è separato solo nel senso che è una facoltà inorganica, che opera, nell’ambito della conoscenza del mondo naturale, a partire dai dati offerti dai sensi, per astrazione, ma costituisce un tutt’uno con il singolo individuo conoscente.

Alberto Magno, il primo che si rese pienamente conto dell'inevitabile processo di identificazione della ricerca filosofica con lo studio del pensiero di Aristotele, si preoccupò di distinguere nettamente fra l'ambito della filosofia e quello della teologia: “le dottrine teologiche non si accordano con quelle della filosofia, quanto ai principi, perché si fondano sulla rivelazione e sulla divina ispirazione, e non sulla ragione; di esse dunque non possiamo discutere in filosofia”. Sono i “principi” di teologia e filosofia che sono diversi, e così gli ambiti di discussione da essi definiti: la rivelazione costituisce infatti la fonte della riflessione teologica, mentre la natura in tutte le sue articolazioni è la fonte e il campo di applicazione della filosofia.
Nell'ambito filosofico la
metafisica (la scienza delle sostanze separate) è - aristotelicamente - la scienza prima, poiché “è quella che non trae nulla dalle altre scienze, ma da essa tutte ricevono qualcosa. Questa scienza è più antica e precedente a ogni altra scienza che è al suo servizio”.
La teoria albertina dell'essere è di carattere neoplatonico; la creazione è considerata un processo di emanazione in cui le parole-chiave sono quelle di
fluxus e di processus. All'origine è Dio, “causa prima che è pura luce, sopra cui non v'è altra luce: in essa l'essere si identifica con l'essenza”, intelletto universale, “causa di ogni essere, fonte e origine di tutte le forme”. Dall'intellectus universaliter agens procede l'intelligentia, ovvero il primo essere causato, e poi le intelligenze separate (gli angeli), le anime, i cieli. Questi ultimi sono strumento della prima causa, in quanto ne trasmettono la virtù nel medium opaco della materia, di cui la luce è la prima, generalissima forma. Le cause seconde non sono negate, ma subordinate alla “virtù di Dio che primariamente e universalmente opera in esse”. Questa struttura del mondo dà ad Alberto la possibilità di provare l'esistenza di Dio, poiché si può risalire alla prima causa ripercorrendo il fluxus verso l'alto. Ma essa offre anche una salda base alla fiducia nell'astrologia e nella magia: si rafforza infatti la concezione aristotelica della dipendenza dei moti del mondo sublunare da quelli degli astri, poiché questi ultimi diventano, secondo la concezione neoplatonica, i modulatori della virtù della causa prima. Il processo emanatistico rischia, però, di porre come necessario il processo dall'Uno al molteplice, mettendo fuori gioco la libertà della creazione; la considerazione di questa difficoltà porta Alberto ad ammettere che “l'inizio del mondo per creazione non è dottrina fisica né può essere provato con argomenti fisici”.
Alberto fa ricorso a formule diverse per spiegare la distinzione ontologica fra creatore e creature: il primo è principio assolutamente semplice, a differenza delle seconde, che invece sono caratterizzate dal fatto di presentare, nella loro essenza, una qualche forma di composizione. La materia non è intesa da Alberto in senso aristotelico come privazione o passività totale: essa contiene “un qualcosa della forma”, che le permette di “tendere alla forma”, un appetito o desiderio definito inchoatio formae. L'agente trae le forme fuori dalla potenzialità della materia, in cui esse sono “per essentiam confusam”; la composizione degli esseri materiali risulta per conseguenza da un successivo determinarsi delle forme (ilemorfismo).
Alla dottrina della inchoatio formae si collega la dottrina dell'ingresso dell'anima umana nell'embrione: nella materia è già presente, incoativamente, la forma vegetativa o vita, la quale contiene a sua volta incoativamente la forma sensitiva o sensibilità; infine “l'inchoatio dell'anima razionale è nella sensitiva”. Il passaggio dalla forma incoativa della razionalità alla sua attuazione avviene per intervento diretto di Dio, il quale completa e perfeziona il processo iniziato dalle potenze naturali.
L’
astronomia è definita come quella “scienza intermedia fra la metafisica e la fisica”, che permette di comprendere i legami che uniscono il cosmo e le influenze mediante le quali il mondo celeste trasmette alle creature del mondo sublunare la virtus della Prima Causa.


Tommaso d’Aquino prende le mosse dalla riflessione su un concetto centrale della filosofia aristotelica, quello di atto, che utilizza come potente strumento nell'elaborazione della distinzione filosofica fra creatore e creatura; quale dottrina della distinzione fra essenza e atto di essere o esistenza, Dio è concepito come atto puro di essere che è, per sua stessa essenza, incausato e infinito; mentre riconosce nelle creature una distinzione reale fra essenza creata ed esistenza.
Per Tommaso vi è certo distinzione tra Dio e le creature, perché Dio è l’Essere di per sé, e le creature hanno l’essere solo per partecipazione; ma fra l’Essere di Dio e l’essere delle creature vi è analogia, perché l’essere di queste “partecipa per somiglianza” dell’Essere di Dio. Da questa certezza scaturisce la famosa dottrina tomistica dell’analogia dell’essere, che assicura la fondamentale unità dell’orizzonte universale dell’essere, nonostante la pluralità e la diversità degli esseri. Non vi è, quindi, una doppia razionalità e verità, una per Dio e l’altra per l’uomo, bensì un’unica razionalità e verità, che è in Dio in modo pieno ed assoluto, ed è nell’uomo in modo partecipato. La metafisica Tomista dell’essere apre così ad una visione realista strettamente unitaria e razionale dell’Universo, che implica la possibilità della ragione di indagarne ad ogni livello la struttura fondamentale, pur senza esaurirne il mistero. E per lo stesso Dante la conoscenza è adeguazione ad un patrimonio di nozioni già dato una volta per tutte: essa non è avventura di ricerca personale, oppure esplorazione dell’ignoto, capace di sfiorare ogni limite.
Sulla dottrina dell'eternità del mondo Tommaso sostiene che non si può affermare niente dal punto di vista filosofico: né il suo inizio, cioè, né la sua eternità. E che abbia avuto inizio, cioè sia stato creato, "è credibile, ma non è dimostrabile né conoscibile". La dottrina della creazione non annulla la fisica aristotelica, anzi la fonda e la perfeziona; la realtà e l'autonomia degli esseri creati è garantita dalla libertà della creazione divina e dalla struttura partecipativa dell'essere, per cui le cose sono dotate di una vera e propria causalità.
Dio non ha dato alle creature soltanto la sua similitudine quanto all'essere, ma anche "quanto all'agire, in maniera che le creature abbiano le sue proprie azioni". Gli esseri creati si dispongono in una scala, che ha ai suoi estremi Dio, atto puro, e le creature materiali. Fra questi due estremi stanno gli angeli (forme pure create) e la creatura umana: infatti l'anima intellettiva, forma di quel
sinolo (totalità individuale composta di materia e forma) che è l'essere umano, lo pone al confine fra il mondo materiale e quello delle intelligenze.
L'anima è aristotelicamente, forma del corpo: per affermare infatti la piena e concreta individualità dell'uomo egli ritiene di dover eliminare ogni residuo del dualismo platonico espresso nell'immagine dell'anima come nocchiero della nave che è il corpo dell'uomo. L'immortalità dell'anima, che sembrava andare perduta nel recupero del concetto propriamente aristotelico di entelechia ("atto del corpo fisico organico che ha la vita in potenza"), è garantita, per Tommaso, dall'operazione propria dell'anima razionale, l'intelligere, nella quale si manifesta il carattere spirituale e l'autonomia dell'anima - ciò per cui essa si colloca, appunto, al confine con l'ordine angelico. Egli attacca polemicamente la dottrina della pluralità delle forme affermando che l'anima razionale sussume le funzioni inferiori: "per questa ragione lo stesso Aristotele dice che l'anima vegetativa è in quella sensitiva e la sensitiva in quella intellettiva come il triangolo è nel quadrangolo e il quadrangolo nel pentagono". L'anima è così l'unica forma sostanziale dell'uomo.
La conoscenza è intesa da Tommaso come un caso particolare del passaggio dalla potenza all'atto. Gli intelligibili, che si trovano in potenza nelle immagini formatesi dal contatto dei sensi con le cose, infatti, vengono separati da esse e dunque messi in atto come intelligibili. Questo avviene nel processo astrattivo, in cui l'intelletto si rivolge ad un solo aspetto della "cosa", sia considerandone la natura più universale o comprensiva e lasciando cadere gli aspetti specifici o individuali (quando per esempio si dice che l'uomo è un animale razionale: perché animale è un termine che comprende quello di uomo); sia considerando una singola natura o qualità, distaccata dal soggetto in cui sussiste (quando per esempio si dice che nell’uomo vi è la umanità). Nel primo caso si parla di astrazione totale, o universale; nel secondo, di astrazione formale.
Il processo di astrazione è possibile in virtù del
lume naturale immesso da Dio nell'anima umana come sua funzione più alta. Tommaso identifica questo lume naturale con l'intelletto agente. A maggior ragione l'intelletto possibile (o passivo, o materiale: cioè quell'intelletto che "sta agli intelligibili come il senso sta ai sensibili") va inteso come una facoltà individuale, perché in caso contrario non si riuscirebbe, secondo Tommaso, a spiegare come il singolo uomo intenda. Nell'intelletto, saldamente individuale, sta la radice della volontà e della libera scelta. Questa tesi è evidentissima nella dottrina morale di Tommaso che cioè "il libero arbitrio è una potenza passiva, non attiva, e che è mosso necessariamente dall'oggetto dell'appetito".
Come la
ragione e la fede, pur occupando due ambiti separati, non sono fra loro in opposizione, così il fine naturale dell'uomo non può essere, per Tommaso, in contrasto col fine soprannaturale che è oggetto dell'opera divina di salvezza; per questa ragione egli si distacca dall'agostinismo anche nell'ambito del pensiero politico, muovendo dalla premessa aristotelica della naturale inclinazione dell'uomo alla vita sociale. "Poiché ogni uomo è parte della società, è impossibile che un uomo sia buono se non partecipa del bene comune." E quindi falsa la dottrina della “doppia verità” o della irriducibile antinomia fra risultati della ricerca filosofica e risultati della ricerca teologica. La filosofia può dimostrare con la ragione alcune verità, come l’esistenza di Dio.
L’impossibilità della visione diretta di Dio ci induce, infatti, alla necessità di dimostrarne l’esistenza a posteriori: tale dimostrazione rientra nei preambula fidei, verità che la ragione può raggiungere con le sue sole forze e mantenendosi nel proprio ambito attraverso
cinque vie. La prima parte dal movimento osservabile delle cose naturali (il passaggio dalla potenza all’atto), questo è il segno dell’esistenza di un principio primo in cui ogni movimento si arresta: se è vero che tutto ciò che si muove è mosso da altro, affinché tale procedere non vada all’infinito (secondo un assunto fondamentale del paradigma aristotelico e in genere del pensiero greco: l'irrazionalità dell'infinito), è necessario arrivare ad un motore primo non mosso da altro. La seconda analizza l’interazione delle realtà naturali tra di loro: l’una agisce sull’altra in qualità di causa efficiente, producendo effetti. Siccome aristotelicamente nessuna cosa può essere causa di se stessa, per il verificarsi di un evento bisogna ripercorrere all’indietro la catena delle cause e degli effetti, giungendo, se non vogliamo accettare che si processo vada all'infinito, ad “ammettere quella prima causa efficiente, cioè Dio”. La terza muove dalla contingenza della realtà che ci circonda. Un evento può darsi, o meno. In ogni caso esso non è sempre, ma viene all’essere, per poi cessare. Se ammettiamo che la realtà sia pura contingenza, allora non c’è modo di spiegare come ogni ente venga all’essere, perché dal nulla non si crea nulla. E’ invece necessario postulare l’esistenza di un primo principio, necessario, da cui tutte le cose prendano origine, cioè Dio. La quarta prende origine dal fatto osservabile che le cose realizzano delle proprietà secondo gradi differenti. Si può dire infatti che una cosa è più o meno buona, o nobile, di un’altra. Per porre questo paragone è però necessario un termine di riferimento assoluto, in cui tali proprietà sono al massimo grado, che è Dio. La quinta coglie un aspetto della realtà apparentemente meno evidente: gli eventi, realizzati da corpi ed enti naturali pur privi di intelligenza, sembrano orientati verso un fine di perfezione, che è la realizzazione nel creato dell’ordine e della bellezza. Essendo tali enti privi di conoscenza, è inesplicabile il fatto che essi perseguano tale finalità in modo coerente, a meno che non si ammetta un principio superiore intelligente che ordini la loro attività e lo svolgersi degli eventi in relazione a tale fine.

4 – La filosofia nell’opera di Dante

Tutta questa ricca atmosfera culturale che animava il dibattito filosofico, teologico, scientifico e politico sul finire del secolo XIII e gli esordi del XIV trova ampio riscontro nelle opere poetiche e dottrinali di Dante Alighieri (1265-1321). Gli influssi dell'averroismo, del neoplatonismo, si delineano nelle sue osservazioni e trattazioni inserite all'interno di tutte le sue opere.
A rendere, inoltre, l’Alighieri un pensatore alquanto eclettico, di difficile e dibattuta collocazione, ma portavoce di un pensiero personalissimo, come ogni vero pensiero filosofico, sono le numerose osservazioni sull'ottica, la geometria, la cosmologia, le dottrine sull'origine e la struttura della lingua volgare, la sua dottrina politica e la sua partecipazione personale alle vicende del tempo.
L’averroismo filosofico emerge prepotentemente nella concezione politica di Dante, il quale porta alla ribalta in termini nuovi il dibattito sul rapporto fra potere politico e potere religioso. Infatti, la tradizionale dottrina dei due fini dell'uomo, quello naturale e quello soprannaturale, viene articolata con la difesa della monarchia universale, che è la migliore fra le forme di governo perché in essa l'uomo può sviluppare al massimo le sue potenzialità intellettive e raggiungere la "
felicità mentale". Dante filosoficamente sostiene la tesi dell'Impero come prodotto dell'intelletto possibile, e la tesi della reciproca autonomia dei due poteri, i due "soli" Impero e Papato, che traggono entrambi autorità da Dio. Contrariamente alla tesi tomistica, Dante ritiene inoltre che l'organizzazione politica derivi dallo stato di corruzione dell'uomo dopo il peccato originale.
Dante afferma, relativamente al rapporto fra volontà e necessità (
il libero arbitrio), che la libertà si può attuare solo subordinandosi ad un principio razionale. Il fondamento della libertà è infatti nel potere che ha la ragione di determinare se stessa. L'azione virtuosa è dunque necessariamente razionale e immancabilmente libera. Ciò vale tanto per la condizione umana, quanto per quella angelica, ove all'accrescimento delle facoltà intellettive segue una più salda volontà.
In linea con l'insegnamento trasmesso dal neoplatonismo in generale, la luce nel cosmo e nell'atto creativo divino porta Dante a concepire la natura come sistema di cause secondarie regolate dalla causalità celeste. L'universo fisico è caratterizzato, inoltre, dall'urgenza poetica di sposare macrocosmo e microcosmo, sulla scia delle cosmologie poetiche. Il platonismo del secolo XII sembra emergere anche nella lettura dantesca della Creazione.

L'elaborazione del sistema cosmologico aristotelico e gli apporti astronomici tolemaici permisero di sviluppare la concezione cosmologica del secolo XIII, quanto mai complessa e conflittuale. Tale problematico rapporto dovette inoltre tenere conto del confronto con la Scrittura. La Commedia di Dante propone un'ardita sintesi di tutte queste tendenze, con una visione cosmologica unitaria, che salva il principio dell'azione delle cause seconde, giustificato nel contesto dell'universo rigorosamente geo-centrico di Aristotele, spiega le apparenze dei movimenti astrali e planetari, garantiti dal meccanismo degli eccentrici tolemaici, e rende ragione delle tesi scritturali inserendo la narrazione nel contesto di una salda visione teologica e dogmatica.

La luce occupa un posto di rilievo anche nella formulazione di concetti teologici: Dio, gerarchie angeliche, empireo e visione beatifica sono rese poeticamente, nella Commedia, attraverso un costante riferimento alla tematica luminosa, con analogie relative al comportamento della luce naturale. Anche
la dottrina dell'empireo identificato con il lumen gloriae, tema elaborato per giustificare la visione beatifica degli esseri creati, benché legata alla tradizione aperta da Alberto Magno, è squisitamente originale.


5 – Una considerazione riassuntiva e conclusiva

I pensatori del tempo e Dante stesso ritenevano alquanto chiaramente che la filosofia pagana non permetteva la corretta adorazione di Dio, il riconoscimento dell’identità di natura tra Dio adorato e l’uomo che l’adora, cioè della sua spiritualità. Inoltre il pensiero filosofico si sforza di concepire intellettualisticamente il mondo reale, come oggetto assoluto della conoscenza umana; e la realtà, quale si rappresenta all’intelletto che la presuppone come suo oggetto, concepita come molteplicità atomica o come cosmo intelligibile, come estensione o come pensiero, rimane sempre qualche cosa di chiuso in sé, che l’uomo non può riconoscere senza sentirsene fuori; che è come dire, senza svalutare sé stesso, e annientare idealmente nella realtà assoluta la propria personalità, la propria libertà, la coscienza della propria creatività. Se il mondo è tutto quello che deve essere quando noi prendiamo a conoscerlo, questa vita che comincia a realizzarsi grazie all’attività del nostro spirito, non può non apparire illusoria, poiché rimane esclusa dalla totalità dell’essere concepibile; e non può quindi non svanire nel nulla.

Per restituire la speranza al naturale desiderio dell’uomo, occorre che lo stesso muti la posizione di fronte al mondo, e diverso sia il suo atteggiamento verso Dio, principio assoluto dell’essere che costituisce il mondo. L’intellettualismo deve cedere il passo all’amore: a quell’atto spirituale che non presuppone, ma esso fa essere il termine reale, a cui si indirizza; lo fa essere, si intende, nell’ambito stesso della vita spirituale, nella coscienza. È necessario cioè che la realtà a cui ci si rivolge non sia questa natura, a cui noi pure naturalmente apparteniamo; ma quello spirito, in cui a noi non è dato penetrare se non in virtù, di un’attività che non è istinto, né, comunque, legge naturale, ma libertà: l’opposto, la negazione della natura. La divina realtà deve essere intesa dunque come Spirito: spirito in sé (monotriade), spirito rispetto all’uomo (mediatore).

La concezione che l’uomo torna a Dio in quanto muove da lui; e l’amore supremo con cui l’uomo conosce e ama insieme Dio, lo stesso amore con cui Dio ama e conosce sé stesso, è manifesta anche in Dante. L’universo è un circolo, per cui l’azione divina scende per risalire, si moltiplica, come luce che piove di cosa in cosa, per raccogliersi nella sua unità eterna e infinita.

Questa, come quadro armonico in cui si compongono a unità gli insegnamenti antichi e nuovi del sapere umano e divino, la visione, che Dante vagheggia come contenuto del sacro Poema “
al quale ha posto mano e cielo e terra”. Visione che è una filosofia, ben diversa certamente dalla pagana, poiché dentro vi si muovono elementi nuovi rispetto alla dottrina intellettualistica degli antichi affatto estranei. Nel suo complesso si riduce alla concezione del mondo propria della Scolastica, pur tenendo conto dei diversi elementi che Dante vi concilia. Tali elementi non modificano le idee fondamentali di quella filosofia, in cui cercò il suo assetto, per diverse vie, il pensiero cristiano dopo i Padri che fissarono i dogmi della nuova fede, e prima dell’Umanesimo, che segnerà l’inizio di una nuova èra d’indagine speculativa sulla stessa base dell’intuizione cristiana.

Nonostante si sia definito il carattere della visione, non si è giunti ancora al concreto della filosofia dantesca, che è visione e insieme passione; in tal modo Dante imprime il suggello della sua potente personalità, trasfigurando pertanto la stessa filosofia in poesia. La personalità di Dante, così, da poeta sfocia in quella di profeta.
Il mondo nei contrasti della fortuna e delle passioni politiche apparve al Nostro cosa assai più seria e vasta: la vita, arte ben più difficile e ardua. La sua dottrina politica, che è pura filosofia, investe tutta la sfera delle relazioni che legano l’uomo al mondo. La politica di Dante, è chiaro, non è la spicciola politica, che riflette e crea gl’interessi transeunti di un popolo, e risolve, pertanto, problemi particolari e determinati.

Alle prese con i problemi del suo tempo Dante passa come
quel legno senza vela e senza governo, a cui egli si paragonò dolorosamente. La sua politica è una concezione della massima realtà politica, visibile sull’orizzonte storico del tempo suo, coordinata a una concezione della Chiesa: è il concetto dell’uomo come membro dello Stato e membro della Chiesa, volontà che si spiega e si manifesta nei rapporti mondani e nei rapporti con Dio. Perciò è una filosofia, che non divide lo Stato dalla Chiesa; anzi dimostra i rapporti intrinseci onde sono distinti e congiunti, in modo che buona Chiesa non sia possibile dove non sia Stato ben ordinato. E volgendosi alla riforma dello Stato, intende riformare anche la Chiesa, liberandola da ogni elemento mondano, e riportandola alle sorgenti della sua vita spirituale. Ma dello Stato, da cui dipende quindi il rinnovamento dello spirito, afferma l’autonomia assoluta come indirizzato a un fine riposto in “operatione propriae virtutis”, senza bisogno di quel divino aiuto che occorre invece al conseguimento della felicità celeste. Ci sono “documenta philosophica” (uso della ragione) e ci sono “documenta spiritualia” (che trascendono la ragione e volgono verso le virtù teologali). Né con ciò si nega il valore dello Stato: gli elettori dell’impero, o quelli, in generale, che conferiscono la suprema autorità al capo dello Stato, sono per Dante, “denunciatores divinae Providentiae”. Questa filosofia dunque è un’affermazione energica della divinità dell’uomo nella sua attività provvidenziale: un’esaltazione della virtù propria della natura umana, operante nella consapevolezza della propria legge. Virtù vittoriosa, se conscia di sé; e contro la quale prevarrebbe, infatti, l’umana cupidigia. Virtù, che non è ancora quella dell’Alberti e del Machiavelli, ma ci si avvicina, e ci fa apparire Dante, all’estremo limite del Medio Evo, un precursore dei tempi nuovi.

In questa dottrina dell’umana virtù da svegliare affinché s’indirizzi al suo fine, e la cui radice è nella stessa umana natura, la filosofia della Commedia si rovescia. Virgilio non ha più bisogno di Beatrice; anzi questa ha bisogno di Virgilio: c’è Virgilio, che sta tra “
color che son sospesi”, e non si moverebbe senza essere chiamato dalla donna beata e bella; ma c’è pure Dante, il discepolo di Virgilio; il quale fa muovere Beatrice dal cielo per scendere fino all’inferno: e con quella ragione umana, che si spiega nella filosofia, detta leggi alla teologia, mettendo in bocca ai teologi quel che occorre alla rinnovazione della loro Chiesa e alla restaurazione universale del mondo umano. Sì, essi posseggono la verità; e l’insegnano; ma sappiamo che quella verità è un momento di una verità superiore, parte di un sistema, a cui devono servire, e che ha il suo primo principio dentro alla volontà dell’uomo artefice del proprio destino. Senza questa veduta superiore, che della filosofia di Virgilio, della teologia di Beatrice, e di ogni verità professata nelle “scuole de’ religiosi” e discussa nelle “disputazioni de’ filosofanti” fa strumento, e non più che semplice strumento, della dottrina sua, Dante sarebbe il filosofo o il teologo, come tanti altri: non sarebbe quel che egli vuol essere, il poeta-profeta, che, semplice laico, non teme di giudicare la Chiesa e di fulminare dall’alto dei cieli creati dalla sua fantasia la condanna contro capi indegni di quella. Che è quasi un’eresia, e ad ogni modo contraddice a tutta la filosofia che Dante aveva appresa nelle scuole: non solo a quella prettamente intellettualistica, e però naturalistica, degli antichi; ma a quella altresì che, malgrado la nuova intuizione vitale del cristianesimo, ispirata dal concetto dell’amore e orientata perciò verso la concezione spiritualistica del mondo, s’era tuttavia nella sistemazione aristotelica della scolastica congiunta strettamente all’intellettualismo greco, adottandone ed esagerandone la logica e comprimendo quindi la stessa realtà spirituale dentro i rigidi schemi del vecchio naturalismo.

Anche per la filosofia scolastica, infatti, l’oggetto supremo, l’Assoluto a cui l’uomo aspira, è fuori di lui. L’unità della natura umana e divina non è originaria come germe che possa liberamente, spontaneamente svolgersi: è da instaurare, movendo da un dualismo originario, di cui lo spirito umano è un termine solo; e un termine che, restando fuori dell’Assoluto, è nulla; laddove l’altro è sì anch’esso un termine, ma un termine che è tutto. Sicché Virgilio, simbolo di quella ragione che basta all’acquisto della terrena felicità, in linea con quella filosofia sulla cui trama è intessuta la visione dantesca, senza un divino cenno arrecatogli da Beatrice, non condurrebbe Dante dalla selva selvaggia al terrestre Paradiso, perciò senza questo superiore intervento resterebbe abbandonato alla sua “morte”: l’uomo per sé sarebbe nulla, né varrebbe nulla.
Per la filosofia che forma la personalità poetica di Dante, infine, l’intellettualistico concetto dell’essere è più profondo, più veramente cristiano, più moderno: del concetto, che lo spirito umano non ha fuori di sé, già attuato, il suo mondo; ma deve produrlo egli stesso, faticando, durando nelle battaglie, con cui è destinato a vincer tutto. Questo concezione, questa fede di Dante è il rovente crogiuolo, in cui egli fonde l’immane materia accolta dalla vita e dalla storia universale nella sua vasta fantasia, per foggiarne la profezia, con cui egli colpisce l’immaginazione, ma ancor più scuote e scoterà sempre i cuori degli uomini, per animarli alla vita.


6 – Nota Bibliografica


N. Abbagnano – G. Fornero, Itinerari di filosofia – Vol. 1: Dalle origini alla Scolastica, Paravia, Torino 2003

Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana - Vol. 8: Plotino e il neoplatonismo pagano, Bompiani, Milano 2004

Vittorio Mathieu, Come leggere Plotino, Bompiani, Milano 2004

Carbonara Cleto, La filosofia di Plotino, Ferraro, Napoli 1954

C. Baffioni, Storia della filosofia islamica, Milano 1991Sorge, L’aristotelismo averroistico negli studi recenti, Paradigmi 50 (1999).Todisco, Averroè nel dibattito medievale: verità o bontà?, Milano 1999 (Coll. di fil., 102).Magno, Il bene. Trattato sulla natura del bene. La fortezza. La prudenza. La giustizia, a cura di A. Tarabochia Canavero, Rusconi, Milano 1987Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, Laterza, Roma 1973 («I filosofi», 16)d’Aquino, La Somma teologica, trad. e commento a cura dei domenicani italiani, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1984-1992 (testo latino dell’ed. leonina con trad. italiana a fronte)Alighieri, Opere minori, cur. Alberto del Monte, Rizzoli editore, Milano 1966

Dante Alighieri, La Divina Commedia, cur. Natalino Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 1957

Bruno Nardi, Saggi di filosofia dantesca, La nuova Italia, Firenze 1967 (1930 prima ed.)

Bruno Nardi, Dante e la cultura medievale, Laterza, Bari 1985 (1942 prima ed.)




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