Eduardo Ambrosio


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COSTITUZIONE

SAGGISTICA E POLITICA

L A C O S T I T U Z I O N E
Significato e storia con particolare riferimento a quella italiana
2010


La Costituzione è la legge (meglio norma o principio - quella cosa che i popoli si danno da sobri, a valere per quando saranno ubriachi) suprema, la carta fondamentale e fondante dello Stato di diritto, dello Stato regolato dal diritto.

Quale garanzia di pace interna, con i suoi 139 articoli, ci tiene per mano dal momento della nascita: la incrociamo quando dobbiamo scrivere i figli a scuola scegliendo tra un istituto pubblico o privato; quando si partorisce o ci si deve curare e, non avendo soldi per una clinica, ci si rivolge la servizio sanitario nazionale; quando si vuole aprire un giornale o fondare un partito; quando si devono pagare tasse e imposte.

La parola "costituzione" è moderna, non discende dalla constitutio o constitutiones dei romani, e non si afferma nel suo significato attuale fino al Settecento inoltrato. I puritani inglesi (eredi della Magna Charta), che pur furono i primi estensori di testi che oggi definiremmo "costituzionali", non li designarono mai così. Furono i costituenti americani, a partire dal 1776 in Pennsylvania e poi nel 1787 a Philadelphia per il nuovo Stato federale, ad adottare "costituzione" intesa come suprema legge. Li seguirono i rivoluzionari francesi del 1789. e la dizione si affermò un po' dovunque, in Europa, nel corso dell'Ottocento. Fece eccezione Carlo Alberto di Savoia, che ne 1848 concesse al Piemonte e al Regno di Sardegna uno "statuto", così detto perché era "ottriato", e cioè unilateralmente concesso dal sovrano, anche se lo stesso ricalcava la costituzione belga del 1831.
Il punto è, allora, che sin dalla fine del Settecento alla fine della Grande Guerra il significato di costituzione era "
garantista": non designava qualsiasi forma, qualsiasi struttura dello Stato, ma specificamente quella organizzazione del potere che garantiva la "libertà da", la libertà dei cittadini dallo Stato, nei confronti dello Stato.
"Un governo senza costituzione - dice Paine nel 1791 - è potere senza diritto". E nella Dichiarazione francese dei diritti del 1789 si legge: "Una società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è definitivamente determinata non ha costituzione".
Questa accezione garantista di costituzione viene stravolta, o comunque respinta, dalla teoria pura del diritto di Kelsen e, più in generale, dal "formalismo giuridico" che si afferma tra la Prima e la Seconda guerra mondiale.
Questo formalismo, attentissimo alla forma e alla coerenza del diritto, è però molto, anzi troppo disattento alla sostanza dei problemi. Resta il fatto che tuttora impera nella facoltà di giurisprudenza e nella forma mentis della nostra magistratura. E si capisce perché. Al giurista piace, così come piace e conviene a quasi tutte le specializzazioni, chiudersi in un proprio orto inespugnabile. Il che è bene per la sistematica deduttiva del diritto, ma male per il problema del potere politico.

Comunque sia, i nostri costituenti del 1946-48, uscivano dall'esperienza della dittatura fascista, e i cattolici e i comunisti di quegli anni si temevano e non si fidavano gli uni degli altri. L'Assemblea costituente era profondamente divisa, le divisioni attuali sono nulla rispetto a quelle di allora, per questo si parlò di miracolo costituente.
Pertanto, partendo dall'
imperativo supremo dalla pacificazione, si impegnarono nella progettazione di uno Stato il più garantista possibile. Forse anche troppo garantista, a scapito della governabilità; ma che ci ha pur sempre garantiti per più di mezzo secolo.

Il periodo '46-'48 è caratterizzato da una transizione accelerata per i forti mutamenti esteri e il processo si concentra, per la definizione di Stato e partiti (repubblica dei partiti), nel dibattito all'Assemblea Costituente, dibattito che proseguirà nonostante l'estromissione, nel maggio '47, delle sinistre dal governo producendo, causa un certo equilibrio numerico e la paura della sconfitta di entrambi i poli, una carta costituzionale eccessivamente equilibrata con "CONTRAPPESI" istituzionali (Corte Costituzionale, ecc.), molto voluti dalla DC, poi dalla stessa snobbati in quanto GABBIE, e poco dalle sinistre, poi dalle stesse molto usati per arginare il potere della DC e centro.

L
a FORMA del SISTEMA POLITICO e del SISTEMA dei PARTITI, definita all'interno e a lato del dettato costituzionale, si fissa su un rigido PROPORZIONALISMO e un forte GARANTISMO (equilibrio dei poteri) che sarà la caratteristica dominante del nuovo assetto (centralità partito = immobilismo).

Il DIBATTITO storiografico sulla Costituzione è diviso tra un giudizio di FECONDO COMPROMESSO e uno di ARRETRAMENTO (debole cultura democratica) rispetto alla Resistenza, ed è aperto e variegato per quanto riguarda l'attuazione, in quanto:
- appena varata viene congelata perlomeno fino al 1953;
- le prime applicazioni sono solo quelle dei principi: nazionalizzazioni (ENEL), unificazione della scuola media ('62-'64), statuto dei lavoratori e regioni ('70);
- non si attua una vera DEFASCISTIZZAZIONE dello Stato
.

Il SISTEMA dei PARTITI in Italia fino agli anni Ottanta può essere esaurientemente descritto nelle seguenti formule POLITOLOGICHE (da notare che i politologi rappresentano più degli storici l'immagine dell'Italia all'estero):
-
bipolarismo imperfetto (Galli), la DC con il monopolio del potere assicura impunità e il PCI è un'eccezione per la mancata alternanza;
-
pluralismo polarizzato (Sartori) o estremizzato, vi sono spinte estremistiche (dal PCI a sinistra) che alzano sempre più il tono rivendicativo sicuri di non dover mai affrontare le richieste da governanti, la formula va in crisi con la secolarizzazione, la legittimazione e la distribuzione;
-
pluralismo centripeto (Farneti), dal '65 i partiti si omologano al centro per ridurre le distanze ideologiche;
- IL POTERE NON VUOLE POLITICA NELLA SUA BASE (DC CON POCA PRESENZA NELLE SEZIONI PERIFERICHE, PCI GRANDE MOVIMENTO DI BASE).


Negli Anni Settanta, l'analisi dei partiti rimanda al tema di fondo del dibattito POLITOLOGICO: il CASO ITALIANO (Italia, paradigma ECCEZIONALISTA), come anomalia nel quadro delle democrazie occidentali, per la diversità comunista.

Il PCI, isolato dal '45 al '54, si caratterizzerà come garante della repubblica, per una strategia dell'obesità senza scopo politico, per il legame con l'URSS e per la forte struttura partitica: il mito di Stalin e Stalingrado si ripresenta per ogni generazione saltano (perdita di memoria) i guasti dell'URSS (negli Anni Novanta si è ancora una volta presentato il mito), il PCI ha riconosciuto tali guasti sempre a posteriori, l'élite evita di parlarne per non deludere le masse della base.
Ipotesi CONTROFATTUALE: nel '57, il PCI taglia con l'URSS si sarebbe realizzata in Italia l'alternanza.

La specificità italiana è ottimamente esemplificata negli studi sul sottosistema parlamentare:
-
sopravvivere senza governare, le leggi si fanno in commissione con poca trasparenza;
- il ceto politico parlamentare si sente frustrato perché esautorato dai decreti legge, né si delinea un vero CONSOCIATIVISMO ma solo confusione di ruoli
;
- per Bobbio,
l'Italia ha coniugato governi instabili e parlamenti inefficienti, si sono prodotte troppe leggi ripetitive e limitate, solo MICROPROVVEDIMENTI di facile accordo, che hanno bloccato le riforme strutturali, esempio esauriente la mancata riforma della scuola o elettorale (caoticamente e solo in piccola parte mutata coi referendum).

Si può dare una spiegazione complessiva incentrata sulla dimensione della cultura politica determinata dalla formazione dell'OPINIONE o somma di atteggiamenti degli individui del sistema (dipendente dalla fiducia nella democrazia, sondaggi sulla soddisfazione per la democrazia e sulla fiducia verso i connazionali vedono l'Italia all'ultimo posto tra i paesi della UE), monopolizzata da cattolici nel Nord - Est e dai comunisti al Centro:
-
l'Italia nella morsa del particolarismo e degli "APRIORISMI ideologici", l'attenzione è per il minimo privato (basso continuo);
-
il Mezzogiorno area residuale o "base produttiva del consenso"?, caratterizzata da un formalismo amorale e niente sviluppo del pubblico, nel Nord, invece, è più forte lo spirito pubblico - associativo;
-
ma l'arretratezza non è un dato "naturale": gli studi negli anni Settanta sulla costruzione del sistema (sostanziale dualismo economico pubblico - privato) di potere DC, sviluppo di clientele di massa attraverso l'ex notabilato per un codice di significazione complessiva.

Le
costituzioni non sono, e nemmeno dovrebbero essere, immodificabili. Sono, ovviamente, figlie del loro tempo. Però è importante che durino, che siano longeve. Infatti sono, per lo più, costituzioni rigide, e cioè sottoposte a speciali procedure di modifica. Lo è - rigida (è ciò su cui non si vota più, eccetto se vi è ampia condivisione) - anche la nostra.

Definita una delle più belle del mondo a cui si sono ispirate molte altre venute dopo, la
Costituzione italiana, in gran parte, coincide con la posteriore Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del dicembre 1948, grazie all'idea di coinvolgimento civile e ad un solidarismo che abbraccia tutti e non lascia nessuno indietro - Art. 3 dell'eguaglianza.

Una concezione oggi in difficoltà, per l'affermarsi di un'ideologia anticostituzionale, tutta orientata alla competizione e alla concorrenza, che dividerà la gente in due, i vincitori e i vinti. Berlusconi parla di ispirazione sovietica, sorvolando sul fatto che la nostra Costituzione si inserisce perfettamente nel corso storico del costituzionalismo del nostro tempo che si ispira alla società aperta, democratica, liberale, e solidale, non al totalitarismo. Riconosce la libertà di iniziativa economica privata (chi più di lui può testimoniarlo!), ma prevede anche il diritto dello Stato a intervenire ove occorra.
La libertà del mercato senza limiti può trasformarsi nel suicidio del mercato
(come gli interventi pubblici richiesti dalla crisi economica attuale).
Nemmeno la nostra Costituzione fu immune dall
'inciucio come la posizione di Togliatti sull'Art. 7 (Stato e Chiesa), ma questo fu una sintesi politica che contribuì enormemente alla pacificazione del paese, altra cosa è lo scambio del Lodo Alfano (immunità di alcune cariche).

Ma mentre la
costituzione degli Stati Uniti è stata modificata in piccolo, per dire con emendamenti di singoli articoli che ne lasciano invariata la struttura portante, noi abbiamo cominciato sin dal 1983 a vagheggiare riforme di interi blocchi della Carta originaria. Nessuna di questa riforme è mai andata in porto fino al 2001, quando il governo Amato di centrosinistra varò in extremis un grosso pacchetto di riforme di tipo federalista (vedi, nel Titolo V su Regioni, Province e Comuni, specialmente i nuovi articoli 114-120). Questa riforma frettolosa, anche perché ispirata da interessi elettorali contingenti, e incompleta, nel senso che rinviava la riforma del bicameralismo paritario alla futura creazione di un Senato che fosse espressione di rappresentanza territoriale.
Al momento abbiamo dunque una
Costituzione incompleta (e anche controversa) nel suo assetto federalista, mentre siamo assurdamente fermi sulle piccole riforme intese a rafforzare la capacità del governo - e così correggere l'eccesso di parlamentarismo dalla Carta del '48 - attribuendo al capo del governo il diritto di scegliere e revocare i suoi ministri, e assicurando ai governi una maggiore stabilità introducendo l'istituto tedesco della sfiducia costruttiva. Su questa piccole riforme, che non toccano la struttura del sistema parlamentare, quasi tutti i costituzionalisti sono d'accordo. Eppure non si fanno.
Berlusconi e Bossi, per la nota insofferenza verso il bilanciamento dei poteri che la Costituzione garantisce, hanno invece perseguito l'intento di disegnare una nuova costituzione - la cosiddetta costituzione di Lorenzago - che cambiava più di cinquanta articoli della costituzione vigente. Ma il progetto di Lorenzago è stato massicciamente respinto dal referendum del giugno 2006. Nonostante questo secco colpo di arresto, agli addetti ai lavori continua a piacere di ripensare la costituzione in grande. Così la questione più discussa oggi è se la prima parte del testo del '48 non sia largamente obsoleta e da rifare.
Preminente è il fatto che le costituzioni durino e che diano "
certezze" durevoli. Ma è pur vero che alcuni articoli, o anche molti articoli, del testo originario esibiscono principi "datati".

L'articolo 1, ad esempio, recita: "
L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro" (che nella formulazione proposta da Togliatti diceva "fondata sui lavoratori" e che si vorrebbe sostituire con merito e competizione, il darwinismo sociale) ove si evince la valenza etica della nostra democrazia perché il lavoro non è legato all'economia, al lavoro come merce, ma esso è un aspetto essenziale della dignità umana.

Il valore del lavoro è il sale della della democrazia, il suo declino peggiora inesorabilmente le qualità democratiche.
In antitesi alla prima democrazia, quella ateniese (dove era appannaggio solo degli uomini liberi, il lavoro era riservato agli schiavi), la
democrazia moderna è il frutto di un lunghissimo processo di liberazione del lavoro: artigiani, mercanti poi banchieri hanno conquistato uno spazio economico e, con i Comuni, anche politico. Conquiste che, anche se ancora per pochi, venivano dal lavoro, dalla bottega, dal commercio (solo il lavoro agricolo restava servile) e, lentamente, sfoceranno nelle rivoluzioni moderne (americana, francese), dove il lavoro viene sacralizzato in valore.
La perdita di tale valore è la nuova povertà con la crisi, soprattutto nei paesi industrializzati, del legame tra lavoro e diritti: una concezione del lavoro bruta e legata alla sola sopravvivenza è una minaccia per la democrazia. La precarizzazione del lavoro rende diffusa l'accettazione del lavoro senza diritti: si baratta un po' di reddito con la rinuncia dei diritti collegati al lavoro (accordo Fiat a Pomigliano D'Arco), ciò ci riporta indietro, a un'epoca predemocratica quando il lavoro era semplicemente sudore in cambio di (poco) denaro.
"
L'associazione del lavoro al diritto - scrive Nadia Urbinati - non può essere considerata come un optional del quale si può fare a meno, ma è a tutti gli effetti un fattore di stabilità democratica".
Nel rapporto tra democrazia e capitalismo, è quest'ultimo, ovvero proprietà e mercato, che assicura la prima grazie, però, a interessi diffusi (egualitari) - fortificati dal lavoro - in grado di bilanciare gli inevitabili forti (oligarchici) - sostenuti dall'efficienza nel creare ricchezza e benessere.
"
Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione adeguata agli organismi economici, sociali e politici, è condizione del nuovo carattere democratico" Dal concetto di lavoro che Giorgio La Pira propone il 16 ottobre 1946 alla sottocommissione della Costituente per la formulazione dell'articolo 1.
La missione del lavoro è il fondamento di una buona democrazia.


La importante distinzione tra norme programmatiche (che sono soltanto "indirizzi", norme virtuali e latenti) e norme percettive (le vere norme cogenti) consente di mantenere in vita senza danno norme che sono, appunto, datate.

Sarebbe, dunque, molto utile lasciare al tempo il compito di rendere desuete le
norme programmatiche (la prima parte: la forma repubblicana, i diritti fondamentali di libertà, i diritti sociali, la democrazia, con il popolo protagonista e partecipe - purtroppo oggi sempre più trasformato, dal potere attuale, in pubblico spettatore e tifoso) che sono diventate tali, al contrario, intervenire con una urgenza e opportunamente sulle norme percettive (la seconda parte: come già verificatosi con la riforma del titolo V o al giusto processo) relative alla governabilità.
Passare dal regime parlamentare a quello presidenziale, però, non è cambiare ma una vera e propria sostituzione di una concezione politica con un altra, dove, per il fascino di una democrazia d'investitura, si tenta di eliminare ogni bilanciamento dei poteri (Unico caso storico europeo di adozione di una forma di governo presidenziale è quello francese di Luigi Bonaparte del 1849, che però nel 1851 fece un colpo di Stato dando vita al secondo impero).

Per far ciò è necessario, però, riuscire a
trascendere se stessi, i propri interessi particolari perché la Costituzione, quale opera che ha qualcosa di sovraumano (De Maistre pensava che le costituzioni fossero opera della Provvidenza ed Hegel dello Spirito incarnato nella storia), resta lo strumento attraverso il quale ci diamo una forma di vita comune (Croce, da laico, nel '46, invocava l'ispirazione divina) ed è fatta per valere nei confronti degli stessi (fuori dal bozzolo dei propri interessi e volti al bene di tutti) che la fanno.



Alcuni costituenti rappresentativi:

-
Piero Calmandrei (1889-1956) giurista e politico, fu membro della Costituente e difensore dei valori dell'antifascismo a cui diede voce attraverso la rivista "Il Ponte" da lui fondata nel 1945.

- Giuseppe Dossetti (1913-1996) antifascista ed esponente della Democrazia Cristiana, fu membro della Costituente e quindi deputato (1948), abbandonò nel 1956 per diventare sacerdote.

- Umberto Terracini (1895-1983) entrato nel movimento socialista, fu tra i fondatori del Partito Comunista Italiano (1921). È stato presidente della Costituente (1947-48) e tra i firmatari della Costituzione.


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