Eduardo Ambrosio


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I MOTI PER L'INDIPENDENZA

STORIA > OTTOCENTO

I MOTI CHE PORTARONO ALL'INDIPENDENZA
CORSO DI ECCELLENZA ITCGLS "L. DA VINCI" DI POGGIOMARINO A.S. 2009-10


SOMMARIO: Premessa - Cospirazioni e sette segrete - La preparazione dei moti del 1820-21 e del 1831 - La rivoluzione in Spagna - Napoli - L'intervento austriaco - Piemonte - La reazione - I moti degli anni Trenta - Francia - Belgio - Polonia - La Francia di Luigi Filippo - L'Inghilterra - La Penisola italiana.

Premessa
Il Trattato di Vienna, firmato nel 1815 dopo la sconfitta finale di Napoleone a Waterloo, in teoria "restaurò" la mappa d'Italia su linee simili a quella del 1748, anche se in pratica ridusse la frammentazione politica della penisola, rafforzò gli stati principali (i regni di Sardegna e Napoli e i domini austriaci) e soppresse tutte le antiche repubbliche a eccezione di San Marino.

Genova e i suoi territori - in sostanza la regione della Liguria - furono annessi al Piemonte, a Nizza e alla Savoia come parte di un Regno di Sardegna allargato, che venne così rafforzato come stato-cuscinetto tra la Francia e l'Austria. Venezia e gran parte dei suoi territori italiani e adriatici passarono all'Austria, che controllava anche direttamente la Lombardia. Lucca divenne un ducato sotto un ramo dei Borbone; Maria Luisa, ex moglie di Napoleone e figlia dell'imperatore d'Austria, fu insignita del titolo di duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla; il ducato di Modena, Reggio e Mirandola andò al duca Francesco IV d'Asburgo-Este, strettamente legato all'Austria.

Gran parte della
Toscana ritornò sotto il ramo degli Asburgo-Lorena con Ferdinando III, il cui capo regnava a Vienna come imperatore d'Austria. Il papa vide il suo potere temporale restaurato su gran parte dell'Italia centrale e della Toscana orientale.

La maggior parte dell
'Italia meridionale, inclusa la Sicilia, fu restituita ai Borbone di Napoli, che dominarono sullo stato più vasto e popoloso della penisola. I due regni tecnicamente separati di Napoli e di Sicilia vennero unificati come Regno delle Due Sicilie e Ferdinando IV mutò il suo titolo in quello di Ferdinando I. ciò condusse il numero delle maggiori unità politiche da undici a nove.

Complicate disposizioni vennero previste per il futuro di tre degli stati minori. Alla morte della duchessa di
Massa e di Carrara, il suo territorio sarebbe andato ad aggiungersi al ducato di Modena. In virtù di un accordo supplementare del 1817, alla morte della duchessa, Parma sarebbe passata al duca di Lucca, il cui ducato sarebbe stato annesso alla Toscana.

Il Trattato prevedeva quindi la divisione finale della penisola italiana in soli sette stati di una certa importanza. Massa e Carrara scomparvero in effetti nel 1829, e Lucca nel 1847. Di conseguenza la penisola vide la sostituzione dell'influenza francese con quella austriaca. Due stati soltanto - il Regno di Sardegna e quello delle Due Sicilie - erano effettivamente indipendenti e retti da dinastie, per così dire, nazionali, o meglio "naturalizzate". Il papa era formalmente indipendente ma, come risultò, aveva bisogno dell'aiuto militare di Austria e Francia, che gli fornirono truppe prima in modo intermittente e poi - dopo il 1849 - permanente per presidiare gran parte dei suoi territori. I ducati centrali, inclusi quelli di Toscana, Modena e Parma, erano controllati in modo indiretto ma efficace dall'Austria.

Al di sopra di ogni altra considerazione, l'obiettivo del Congresso di Vienna fu di impedire ogni ulteriore tentativo da parte della Francia di dominare l'Europa. Collegato a questo obiettivo c'era quello di reprimere le velleità politiche e sociali rivoluzionarie che venivano identificate con l'espansionismo francese. In modo più intransigente, le potenze mirarono a sradicare il nazionalismo e il giacobinismo dalla penisola. Questa fu la chiara politica dell'Austria e del suo cancelliere Metternich, ma gli altri paesi la sottoscrissero.

Il
piano Metternich fu di annientare lo spirito dell'unità italiana e le idee sulla costituzione e uccidere il giacobinismo italiano. L'Austria rifiutò la costituzione di una confederazione italiana simile a quella germanica. Forse significativamente, il principale giornale viennese abolì la sua colonna intitolata Italia e da allora in poi si riferì per nome solo ai singoli stati italiani. Nondimeno, se anche la retorica di Metternich fu manifestamente fondata sul suo rifiuto di considerare l'Italia niente di più che un' "espressione geografica", nella sua politica effettiva la trattò come una singola entità, un'area strategica e politica da mantenere sotto stretto controllo austriaco. Pur non acconsentendo alla formazione di una federazione italiana vera e propria, egli unificò tutti i sovrani nella loro soggezione all'Austria. In questo senso, l'applicazione del Trattato di Vienna contribuì a fornire al nazionalismo italiano un'opportunità e un bersaglio.

Le altre potenze accondiscesero. I francesi non mostrarono alcun interesse verso il patriottismo italiano e si preoccuparono soltanto di frustrare quello che credevano fosse il desiderio dell'Austria di annettere il Piemonte o Napoli, o entrambi. L'altro paese che partecipò alla definizione del futuro italiano fu la Gran Bretagna, allora all'apice della sua potenza. Il governo aveva appoggiato i movimenti nazionalisti durante la guerra, dove conveniente - ad esempio in Spagna e in Sicilia - ma riteneva che il mantenimento della pace e di un equilibrio europeo fosse l'obiettivo più importante. Influenzati dai fuoriusciti italiani, alcuni elementi dell'opinione pubblica britannica, tra cui i parlamentari whig, si opposero al Trattato in quanto ignorava le aspirazioni italiane. È interessante notare che le aspirazioni che suscitarono maggiori simpatie furono quelle dei genovesi a mantenere la propria in dipendenza dal Regno di Sardegna. Non sorprende, tuttavia, che fra tutte le potenze, la Gran Bretagna rimase la più favorevole alla causa delle riforme costituzionali in Italia così come in altri paesi dell'Europa meridionale.

Nel XVIII secolo, guerra e diplomazia avevano definito la mappa d'Italia sulla base degli interessi dinastici, dell'equilibrio di potenza e di considerazioni di compattezza territoriale. A questi elementi si aggiungeva ora una preoccupazione ideologica che riconosceva l'emergenza di nuovi atteggiamenti, e non solo da parte della popolazione italiana, ma anche quanto meno di alcuni suoi governanti, e di qualche popolo e governo stranieri.


Cospirazioni e sette segrete
A partire dall'inizio degli anni '20, l'ordine imposto all'Europa e al mondo dal Congresso di Vienna fu seriamente minacciato, e alla fine incrinato, da una successione di moti insurrezionali che si propagavano con grande facilità da un paese all'altro: un meccanismo di reazione a catena facilitato in alcuni casi da un comune stato di malessere economico, ma determinato soprattutto da una fitta rete di collegamenti internazionali fra i diversi centri rivoluzionari. Come governi e regnanti erano uniti dalla trama delle alleanze, così color che lottavano contro l'ordine costituito, per l'affermazione degli ideali liberali, democratici e nazionali, facevano capo a organizzazioni clandestine che, nate per lo più nel Settecento o in età napoleonica, si diffusero in questo periodo con grande rapidità.

Dal momento che in quasi tutti i paesi europei l'espressione del dissenso politico era impedita, o gravemente limitata, sette e società segrete - già ampiamente diffuse nel periodo napoleonico - divennero nell'età della Restaurazione il principale strumento di lotta politica. Più numerose ed importanti erano però le sette di tendenza democratica o liberale. Alcune di esse traevano origine ed ispirazione dalla Massoneria, la più antica fra le società segrete, nata nel Medioevo come corporazione di mestiere e diventata nel '700 un centro di diffusione degli ideali laici ed illuministi. Alla Massoneria era in qualche modo collegata la più importante e diffusa tra le sette attive nell'età della Restaurazione: la Carboneria, presente soprattutto in Italia e in Spagna. I carbonari - che riprendevano i loro simboli ed i loro complicati rituali dal lavoro, appunto, dei carbonai (come i massoni da quelli dei muratori) - ispiravano per lo più la loro azione a ideali di costituzionalismo e di liberalismo moderato. Altre associazioni - come quella dei Comuneros spagnoli, o quelle degli Adelfi o dei Filadelfi, diffuse soprattutto in Francia ed in Italia settentrionale - avevano invece un orientamento spiccatamente democratico.

Ma i confini tra le società segrete erano spesso abbastanza incerti: sia perché le diverse associazioni erano unite fra loro per mille fili; sia perché la struttura verticistica e rigorosamente clandestina delle organizzazioni (i cui aderenti erano per lo più tenuti all'oscuro sia del contenuto completo del programma sia dell'identità dei capi) favoriva la coesistenza nella stessa setta di diversi progetti politici, corrispondenti ai diversi gradi di iniziazione. Poteva accadere, ad esempio, che le rivendicazioni costituzionali agitate dai militanti dei gradi inferiori fossero considerate dai gradi superiori come una tappa intermedia sulla via dell'instaurazione della repubblica democratica; e che vi fossero nuclei ancor più ristretti che si proponevano come fine ultimo la "legge agraria" e la "comunione dei beni", ossia ciò che allora si intendeva per socialismi. Attraverso questo meccanismo iniziatico, essi tentarono di collegare l'attività di sette diverse, anche in diversi paesi, ed esercitarono una certa influenza sulle società di orientamento moderato, come la Carboneria.

A prescindere dai fini che si proponevano, le società segrete poggiavano tutte su una base piuttosto ristretta: pochissimi gli artigiani e in genere i popolani, qualche membro dell'aristocrazia liberale, qualche esponente della borghesia del commercio e delle professioni, ma soprattutto intellettuali, studenti e militari. Furono i militari - in particolare gli ufficiali ed i sottoufficiali formatisi nel periodo napoleonico - a fornire alle sette i nuclei più preparati ed intraprendenti: i soli che, disponendo di una forza armata, fossero in grado di minacciare seriamente la stabilità di troni e governi. Furono i militari a dare inizio alla prima ondata rivoluzionaria che scosse l'Europa all'inizio degli anni '20.


Le origini sociali dei moti insurrezionali. Nelle aspettative, l'assetto di Vienna doveva essere la fine di vent'anni di rivoluzioni, ma si rivelò invece l'inizio di nuove rivolte e trasformazioni. Le motivazioni furono diverse, anche se ci fu un fattore comune alla base della maggior parte dei movimenti riformatori o rivoluzionari: vale a dire l'aspirazione - da parte di larghi strati dell'aristocrazia e della borghesia - a forme di governo rappresentativo e alle libertà fondamentali (di parola, di riunione e di stampa) che l'Illuminismo aveva esaltato e la Rivoluzione Francese reso popolari fra le classi colte, poiché le ritenevano essenziali per la loro espressione politica e il perseguimento dei loro interessi economici. Nel Sud, i bassi ranghi dell'esercito rimpiangevano la gloria e le opportunità di carriera dell'era napoleonica. Ovunque, le idee della rivoluzione francese avevano permeato la cultura dei ceti artigiani urbani (ma non quella della società rurale), come sarebbe apparso evidente a tempo debito.

Le prime espressioni delle nuove aspirazioni liberali si ebbero in Sicilia. L'isola era la sola parte dell'Italia sfuggita, insieme alla Sardegna, all'invasione francese e, come la Sardegna, aveva mantenuto il suo Parlamento medievale fino al XVIII secolo. Anche se il liberalismo siciliano non fu direttamente influenzato dalla rivoluzione francese, nel corso del Settecento la nobiltà era stata influenzata dalle idee politiche francesi oltre che dalle dottrine economiche britanniche, e nell'ultimo decennio del secolo le autorità lamentavano le attività dei "principi giacobini" (quali il Principe di Castelnuovo, il duca d'Angiò e il Principe di Villafranca). Questi aristocratici credevano nei diritti dell'uomo - qualificati da requisiti di censo - e nel libero scambio, che avvantaggiava l'agricoltura siciliana, tradizionalmente orientata alle esportazioni; ma le loro richieste erano fermamente respinte dal governo napoletano, contrario alla libertà economica ancor più che alla libertà politica.

L'occasione d'oro per i baroni liberali venne con il consolidamento del regime francese sulla penisola dopo il 1808. La marina britannica aveva protetto l'isola contro i francesi, ma in cambio il re Borbone dovette accettare l'influenza inglese che, tramite gli uffici di Lord Bentinck, il rappresentante britannico, era fortemente favorevole ai baroni giacobini. Questi ultimi chiesero la costituzione e una rappresentanza parlamentare. La costituzione venne effettivamente redatta e rapidamente approvata dal riconvocato parlamento siciliano il 19 luglio 1812.

Non si trattava di un documento puramente politico, ma affrontava anche importanti questioni economiche. I baroni volevano sbarazzarsi delle ultime vestigia del feudalesimo e insistevano sulla trasformazione dei privilegi feudali - con la loro miscela di diritti, doveri e titoli antagonistici - in moderno diritti di proprietà borghesi, basati sul concetto della proprietà assoluta individuale. L'aristocrazia siciliana cercò in tal modo di bypassare la rivoluzione francese in stile britannico, rafforzando l'egemonia aristocratica con mezzi liberali e capitalisti. Se avesse avuto modo di proseguire, forse, questo esperimento, avrebbe avuto importanti conseguenze per il Sud.

Tuttavia, il crollo improvviso della monarchia di Murat a Napoli e le raccomandazioni del Congresso di Vienna portarono alla restaurazione dell'Antico Regime, aggravato dal nuovo centralismo napoletano che i siciliani di ogni classe trovavano del tutto inaccettabile. Nel 1816 la costituzione fu abrogata da Ferdinando I e il Parlamento venne sciolto, per non essere mai più convocato. Alcuni di baroni liberali si ritirarono nelle loro proprietà di campagna e si dedicarono a progetti di riforma economica e di sviluppo agricolo, un comportamento molto diffuso tra gli aristocratici liberali della Restaurazione, non solo in Sicilia ma in tutta Italia. Continuarono tuttavia a coltivare la loro teoria politica, sviluppando un liberalismo siciliano che coniugava i temi repubblicani classici (virtus e bene pubblico) con quelli del progresso tecnico e della moderna economia di mercato.

Queste idee trovarono riflesso nel liberalismo post-murattiano a Napoli. Qui la brutale repressione della varietà locale di giacobinismo aristocratico nel 1799, e la felice esperienza della monarchia di Murat fino al 1815, avevano intaccato profondamente la credibilità del re Borbone tra una parte consistente della nobiltà e della classe intellettuale. I nuovi sovrani - Ferdinando I (1816-1825), Francesco I (1825-1830) e Ferdinando II (1830-1859) - cercarono di incoraggiare lo sviluppo di un'economia di mercato e sponsorizzarono la creazione di infrastrutture, fra cui la costruzione nel 1839 della prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici. Imposero tuttavia rigide restrizioni sulle esportazioni agricole: una misura populista per proteggere i consumatori napoletani che divenne una costante fonte di frustrazione per i proprietari terrieri, e che impedì l'integrazione dell'economia meridionale nel più ampio mercato europeo.

Del pari, la stretta interdipendenza di chiesa e corona aveva bloccato la liberalizzazione del mercato fondiario iniziata sotto la monarchia pre-1799 e continuata dal regime napoleonico fino al 1815. Perciò la monarchia della Restaurazione si presentò come un facile bersaglio non solo per democratici, giornalisti e intellettuali - che avevano le loro ragioni ideologiche e professionali per opporsi a essa -, ma anche per una parte della potente e ambiziosa nobiltà, per la quale liberalismo economico significava affari, e una costituzione parlamentare significava potere e sicurezza contro la corona. Per contro, la monarchia sviluppò la propria strategia, coniugando la modernizzazione con il conservatorismo e la repressione. L'espansione industriale e commerciale venne accanitamente perseguita, ma senza consultare le classi agiate. Un analogo approccio autoritario fu usato nei confronti di un altro potente gruppo di interesse, la professione legale. Nel 1819 il codice civile napoleonico venne confermato, nonostante l'ostilità che aveva suscitato durante il decennio precedente, specie nelle corti di giustizia e fra gli avvocati (che avevano interessi acquisiti nel mantenimento dell'Ancien Régime sul terreno dell'amministrazione della giustizia).

Pertanto, anche se la monarchia realizzò alcuni risultati, essi ebbero un costo considerevole sul piano economico e politico, inclusa l'emarginazione di larghi settori delle classi superiori non solo in Sicilia ma anche a Napoli e nelle province. Il re contava sul sostegno della Chiesa, del proletariato urbano e dell'esercito. Quest'ultimo, tuttavia, era diviso ideologicamente e spesso inaffidabile. Le idee giacobine e specialmente quelle bonapartiste avevano infiltrato il corpo degli ufficiali, in particolare i subalterni.

Come in Piemonte, anche il re delle Due Sicilie doveva decidere se sviluppare un esercito moderno ed efficiente a spese dell'ortodossia politica o uno politicamente affidabile a spese dell'efficienza militare. Cercò di adottare una politica di compromesso, mantenendo quanti più ufficiali napoleonici possibile ma imponendo i propri uomini nelle posizioni di comando. Inevitabilmente, la frustrazione diffusa tra i veterani murattiani - che sapevano di essere più qualificati professionalmente dei loro superiori tratti dall'ambiente di corte - generò un calo di lealtà nell'esercito che trovò espressione dapprima nell'adesione alle società segrete e infine nella rivoluzione del 1820.

Nel Nord, il dominio austriaco in Lombardia e nel Veneto - che formarono il nuovo regno del Lombardo-Veneto - si rivelò un buon governo, ovviamente nei limiti in cui può esserlo un governo imperiale straniero. Notevoli risorse vennero investite nell'educazione popolare con risultati eccellenti: nel 1860 l'Italia austriaca aveva il tasso di alfabetizzazione più alto della penisola. Il sistema sanitario era sorprendentemente avanzato e sofisticato, anche se le buone intenzioni austriache vennero spesso frustrate dalla mancanza di fondi a livello locale. Le infrastrutture di trasporto erano fortemente sviluppate: in termini di qualità ed estensione, la rete stradale del Lombardo-Veneto era molto più avanzata di quella del resto d'Italia e delle altre province dell'impero austriaco. Le entrate fiscali erano, in linea generale, ben spese.

Sule breve periodo, la maggiore debolezza del sistema fu l'assenza di meccanismi istituzionali di raccolta del consenso, specie fra gli intellettuali e i giovani aristocratici, che avevano riscoperto uno spirito di casta e domandavano a gran voce antichi privilegi in un nuovo linguaggio, quello del liberalismo. C'erano inoltre migliaia di ex funzionari della pubblica amministrazione e ufficiali dell'esercito che avevano maturato un nuovo senso patriottico delle loro esperienze istituzionali nel Regno italico. Alcuni erano legati alla massoneria o aderivano a società segrete, altri erano attivi nel giornalismo politico e divennero i portavoce dell'embrionale cultura di opposizione liberale. Anche se la polizia reprimeva la protesta aperta, in segreto si poteva rovesciare la colpa di tutto ciò che non andava sul governo, il quale non disponeva di mezzi efficaci - al di fuori della propaganda - per rivendicare i crediti che avrebbe meritato per i suoi risultati effettivi.

La presenza militare straniera nelle città rinnovò la xenofobia popolare che aveva già svolto un ruolo nella caduta del regime francese. Essa fu occasionalmente aggravata da sentimenti di superiorità razziale nei confronti dei rozzi contadini croati che formavano alcune delle guarnigioni. Per quanto illuminato, il dispotismo del regime austriaco inevitabilmente non riuscì ad accontentare tutti i gruppi sociali, anche all'interno delle élite, e non poté beneficiare delle valvole di sicurezza costituite da istituzioni rappresentative e da una stampa libera, entrambe anatema per Metternich.

Nondimeno, il buon governo austriaco significò che il Lombardo-Veneto non conobbe niente di simile alle rivoluzioni che nel 1820 scossero altre parti d'Italia. Le attività sovversive lombarde coinvolsero solo un piccolo gruppo di patrizi piuttosto innocui e trovarono espressione nella Carboneria e in altre società segrete di tradizione massonica ad essa collegate. Il maggiore fallimento dell'impero fu esattamente quello di spingere molti giovani aristocratici - che non aspiravano a una carriera burocratica o militare, ma che avrebbero potuto trovare posto in un parlamento regionale o imperiale - ad attività cospirative. Diversi "settari" vennero esiliati o arrestati dalla polizia nel biennio 1819-1820. Si trattava in prevalenza di nobili - come i conti Federico Confalonieri, Giuseppe Pecchio e Luigi Porro Lambertenghi - o intellettuali, come Silvio Pellico. Quelli che furono arrestati - alcuni erano riusciti a fuggire e vissero in esilio volontario - vennero condannati a morte - una condanna successivamente commutata in carcere duro.

Vari storici, come Meriggi e Laven, hanno giustamente sottolineato che i processi furono perfettamente regolari e che la formalità giuridica non venne in alcun modo violata dalle autorità austriache. In ogni caso, quando si consideri che questi cospiratori erano colpevoli unicamente di aver espresso opinioni e desideri - quantunque sovversivi, auspicando fra l'altro la creazione di un regno nord-italiano e l'unificazione del Piemonte e del Lombardo-Veneto sotto la corona di Sardegna - le leggi che vennero tanto scrupolosamente applicate non potevano che apparire crudeli e repressive.

Come sostenuto fino a questo punto, dunque, gli stati italiani furono fertile terreno di propaganda e di adesione di sette segrete -> forme associate clandestine nelle quali viveva quel dibattito delle idee, quel formarsi di progetti politici che la repressione dei governi non consentiva di manifestare apertamente.

In esse si trasferiva il modello settecentesco della Massoneria come nel caso di una delle più importanti e famose di esse: la Carboneria, che traeva la sua origine dal periodo dell'occupazione napoleonica e le società che con vario nome (Adelfi, Filadelfi, Società dei Sublimi Maestri Perfetti) facevano capo alle idee e all'azione organizzativa di Filippo Buonarroti, un antico rivoluzionario.

Inoltre, la restaurazione dei vecchi stati e delle vecchie dinastie comportò un arresto, o meglio un rallentamento di quel processo di sviluppo civile che si era avviato, anche se in forme parziali e contraddittorie, durante il periodo francese.

Piemonte - Regno di Sardegna. Qui il re Vittorio Emanuele I abrogò completamente la legislazione napoleonica, epurò drasticamente la pubblica amministrazione e ristabilì il controllo della Chiesa sull'istruzione e riportò in vigore le discriminazioni contro le minoranze religiose (ebrei, valdesi).

Stato della Chiesa. Qui la restaurazione si attuò in forme particolarmente anguste ed oppressive. Alla tolleranza di Pio VII e del suo segretario Ercole Con salvi si opponeva la linea di pura restaurazione teocratica dell'ala intransigente del collegio cardinalizio (gli zelanti). L'elezione di Leone XII e il prevalere dell'intransigente corrente degli zelanti, ossia di cardinali favorevoli ad un pieno ritorno all'ancien régime, aprì un'epoca di feroce repressione di qualsiasi desiderio di rinnovamento che ebbe nel nuovo segretario di stato, Rivarola, il suo rigoroso rappresentante.

Negli anni tra il 1824 ed il '25 vennero pronunciate quasi 500 condanne contro gli aderenti alle molte società segrete mentre agitazioni e violenze si avviavano a diventare una situazione piuttosto endemica.

Lombardo-Veneto. La Lombardia continuò ad essere la regione più ricca della penisola nonostante fosse sottoposta ad un regime fiscale e doganale che ne ostacolava grandemente lo sviluppo. Nonostante questo, la Lombardia poteva contare su grandi zone di agricoltura moderna, su nuclei di industria, su una fitta rete di comunicazioni interne e su un sistema di istruzione pubblica molto progredito.

Granducato di Toscana. La politica di Ferdinando III e dei suoi due ministro Fossombroni e Corsini mirò principalmente al rinnovamento dell'agricoltura, incoraggiando la diffusione della mezzadria e conciliando interessi proprietari e bisogni dei contadini, garantendo a questi ultimi condizioni di esistenza non esaltanti ma apprezzabili.

Regno delle due Sicilie. Qui il Trattato di Casalanza con il quale Ferdinando si era impegnato a rispettare gli elementi fondamentali della legislazione napoleonica e a non perseguitare chi avesse inizialmente collaborato con il precedente governo, fu inizialmente disatteso dal ministro principe di Canosa che attuò, al contrario, una politica nettamente repressiva.

Ciò indusse il re a congedarlo e a sostituirlo con Luigi de' Medici che si fece interprete della politica dell'amalgama -> che tendeva a coinvolgere sia il ceto politico di nostalgie francesi che quello borbonico intorno ad un progetto di rinnovamento amministrativo dello stato napoletano.

Rispondeva a questo disegno la riforma del 1817, con la quale venivano estesi alla Sicilia gli ordinamenti amministrativi del Regno, accentrando a Napoli l'apparato burocratico e governativo. La riforma incideva certo positivamente sul sistema dei privilegi feudali ancora esistente in Sicilia ma, allo stesso tempo, mortificava i sentimenti di autonomia isolana, alienando al progetto conciliatore del Medici il sostegno di buona parte della classe dirigente siciliana.

La preparazione dei moti del 1820-21 e del 1831.
Negli anno 1820-21 e 1831 si verificarono due importanti stagioni rivoluzionarie. Prima di passare a una loro discussione dettagliata sarà tuttavia opportuno considerare gli oppositori dei governi restaurati nel loro contesto ideologico. Ai fini della nostra analisi, loi divideremo in tre gruppi, tutti rappresentanti di tendenze incoraggiate dalla rivoluzione francese in alcune delle sue manifestazioni.

Il primo fu un piccolo gruppo di estremisti di cui Buonarroti rimase leader indiscusso quasi fino alla sua morte nel 1837. Si trattava in linea di massima di repubblicani, democratici, comunisti, rivoluzionari e unitari (ossia a favore dell'unificazione) e furono importanti perché la loro fede nella perfettibilità dell'uomo e del mondo li spinse a partecipare ad attività clandestine e insurrezionali incuranti delle conseguenze. Non si può dire tuttavia che essi furono specificamente nazionalisti italiani, data la dimensione "internazionalista" dei loro interessi e programmi. Buonarroti agì da Bruxelles, Ginevra e Parigi e perseguì disegni rivoluzionari in Francia non meno che in Italia. Per lui come per i suoi seguaci, l'unificazione italiana fu semplicemente un altro intervento di razionalizzazione che non ebbe carattere prioritario nei loro programmi: furono utopisti del tardo Illuminismo prima di essere nazionalisti.

Questi estremisti collaborarono in qualche misura con "radicali" meno settari, identificabili a grandi linee con i carbonari, che rappresentarono il secondo grande gruppo di opposizione nell'Italia della Restaurazione. Le proposte da loro avanzate furono relativamente moderate. Molti volevano che i vari stati italiani adottassero la Costituzione spagnola del 1812. Il re spagnolo Ferdinando VII aveva ceduto il proprio potere a un'unica Camera elettiva e benché il Parlamento fosse eletto indirettamente, il primo stadio dell'elezione era stato a suffragio universale. Rispetto al modello italiano del tempo, questa costituzione fu un documento "radicale" che divise, anziché unire, i liberali della penisola.

Il terzo gruppo era costituito da carbonari ancora più moderati che rifuggivano dal suffragio universale in qualsiasi forma e preferivano forme meno democratiche di governo costituzionale. Essi caldeggiavano l'adozione della Costituzione francese del 1814, sulla base della quale la Francia fu governata dal 1815 al 1830. Questa costituzione era assai meno avanzata di quella spagnola del 1812. Introduceva due camere, una delle quali - la camera bassa - rappresentativa, l'altra - la camera dei pari - costituita da membri a titolo ereditario o di nomina regia. Il suffragio sulla cui base la camera bassa era eletta era molto ristretto, essendo fondato su requisiti di censo. A parte questi due modelli stranieri, la Sicilia domandava il ripristino della propria Costituzione del 1812, che era più moderata di quella spagnola dello stesso anno, ma meno della Charte francese.

Gli anni Venti, dunque, si aprono in Europa con i moti rivoluzionari in Spagna, a Napoli ed in Piemonte, caratterizzandosi, così, immediatamente, come un decennio fortemente irrequieto, al termine del quale, con la rivoluzione del luglio del 1830 in Francia, il disegno complessivo della Restaurazione, prodotto della sconfitta napoleonica, è profondamente anche se non definitivamente modificato.

I moti degli anni Venti mostrarono, altresì, come essi non fossero il frutto dell'aberrazione degli spiriti o di eccessi sanguinari, ma l'esito ragionevole di un lungo processo storico. E proprio perché storicamente fondati, essi rivelarono in quegli anni una grande capacità di diffusione.

A chiedere indirizzi economici e sociali che non tutelassero solo la grande proprietà terriera, o a chiedere una Costituzione, erano strati sempre più vasti delle collettività nazionali: piccoli e medi proprietari, imprenditori e finanzieri, militari, piccola borghesia artigianale e nascente proletariato.

La rivoluzione in Spagna
In Spagna, il rapporto con l'esperienza rivoluzionaria e napoleonica era stato contraddittorio. Da un lato, erano parsi giungere dalla Francia conforto e impulso a un processo di riforme solo accennato negli anni dell'Illuminismo spagnolo. Dall'altro lato, l'occupazione napoleonica e l'imposizione di un sovrano, avevano suscitato, in un paese come la Spagna, di antica tradizione nazionale, sentimenti di orgoglio patriottico anche in chi aveva la consapevolezza che la guerra anti-francese avrebbe potuto risolversi in una esclusiva vittoria della due grandi forze conservatrici, la Chiesa e la Monarchia.

Dopo il 1815, il problema principale che si presentò alle forze progressiste del paese fu quello di utilizzare lo sforzo collettivo della rivolta antinapoleonica per imporre al sovrano una coraggiosa politica riformatrice. Si mirava, cioè, a proseguire nel solco del compromesso tra Corona e riformatori rappresentato dalla liberale Costituzione di Cadice, concessa da Ferdinando VII nel 1812.

Nell'esercito, il malcontento era ulteriormente alimentato dal deludente rilievo sociale che aveva assunto dopo la conclusione delle guerre napoleoniche. Vi si erano inoltre radicate delle sette massoniche e carbonare, per cui non sorprende che proprio da esso venne il segnale dell'insurrezione. Il 1° gennaio del 1820 truppe concentrate a Cadice pronte per imbarcarsi per l'America dove avrebbero dovuto sedare la rivolta dei coloni, si ammutinarono sotto la guida degli ufficiali Rafael Riego e Antonio Quiroga, chiedendo il ripristino della costituzione di Cadice del 1812.

La ribellione si diffuse rapidamente in altre località, coinvolgendo militari, gruppi liberali ed associazioni segrete. Nel marzo Ferdinando VII accettò nuovamente la Costituzione, convocando un nuovo parlamento (Cortes), dove prevalevano gli elementi liberali, ed in aprile nominò il primo ministero costituzionale.

L'aprirsi di un libero confronto politico, nonostante le sotterranee manovre conservatrici del sovrano, mise però in luce diversità assai profonde nei gruppi progressisti spagnoli. I democratici, cioè i comuneros, che erano stati tra i promotori dell'insurrezione, si mostravano favorevoli ad attuare misure radicali di trasformazione sociale. I liberali moderati, che invece erano alla guida del governo, avrebbero preferito invece attestarsi sulla difesa degli istituti di rappresentanza parlamentare, senza affrontare ancora con decisione le questioni relative alla proprietà terriera. Questo difficile quadro internazionale sfociò presto in una serpeggiante guerra civile, cui non fu estranea l'azione del re e della Chiesa.

Il quadro si complicò, poi, per l'estendersi sul piano internazionale del moto rivoluzionario. Prendendo a modello la Spagna, infatti, nell'agosto del 1820 si ammutinarono i militari portoghesi, imponendo a Giovanni Vi di Braganza di ritornare dal Brasile, dove si era rifugiato dopo l'invasione napoleonica, e di concedere la Costituzione.

Sempre avendo a modello la Spagna, nel mese precedente la rivoluzione era scoppiata nel
Regno delle Due Sicilie.

Napoli
Nel Regno delle due Sicilie la rivoluzione spagnola provocò rapidamente fermenti ed impulsi all'azione, Come già ho detto precedentemente, la diffusione di sette liberali aveva trovato terreno particolarmente fertile nelle file dell'esercito. Come in Spagna, la rivoluzione prese avvio sotto forma di insurrezione militare.

Nella notte del 1° luglio del 1820, sotto la guida di due ufficiali aderenti alla carboneria, Michele Morelli e Giuseppe Silvati, e di un prete anch'egli carbonaro, Luigi Minichini, si sollevò un reggimento di stanza a Nola. Da Nola, i rivoltosi cui si erano aggiunte le truppe del tenente colonnello De Conciliis, marciarono su Avellino, chiedendo la Costituzione spagnola del 1812. La rivolta si estese a molte altre località della Capitanata, della Lucania e del Salernitano, mentre truppe inviate a reprimere l'insurrezione si ammutinavano, facendo causa comune con gli insorti.

L'elemento decisivo fu, infine, rappresentato dall'adesione al moto rivoluzionario dl generale Guglielmo Pepe, protagonista della difesa della Repubblica Napoletana del 1799 e figura di primo piano negli anni di Napoleone e Murat. Assumendo il comando delle forze militari ribelli realizzava la saldatura tra gruppi di nostalgie murattiane e gruppi più propriamente carbonari.

Di fronte a ciò il re Ferdinando VII si convinse a cedere. Nominò suo figlio Francesco duca di Calabria vicario del regno, ed il 7 luglio quest'ultimo promulgò la costituzione spagnola. In ottobre si riunì a Napoli il primo parlamento con una maggioranza di liberali moderati, così come prevalevano nella formazione del governo esponenti del periodo murattiano, quali Michele Carrascosa, Giuseppe Zurlo e Francesco Ricciardi.

La breve stagione napoletana tra il 18120 ed il 1821 fu straordinariamente ricca di idee e progetti. Ma la vivacità del dibattito politico mise subito in luce, al di là della convergenza di vedute ed interessi realizzatasi nei giorni dell'insurrezione, l'esistenza di profonde diversità di interessi ed obiettivi tra gli esponenti della Carboneria, rappresentanti di una piccola borghesia provinciale delle professioni e dei mestieri, e quelli del liberalismo moderato e murattiano, nei quali invece si riconoscevano borghesia ed aristocrazia proprietaria ed alti funzionari della burocrazia e dell'esercito.

Sul piano economico, i carbonari tendevano ad accogliere istanze favorevoli a modifiche nei rapporti giuridico-sociali nelle campagne. I murattiani, invece, puntavano a misure di modernizzazione che consentissero alla proprietà fondiaria di affrontare una congiuntura economica difficile ed una concorrenza internazionale agguerrita.

Sul piano più propriamente politico, i carbonari chiedevano un'integrale applicazione della democratica costituzione spagnola del 1812 che trasferiva la sovranità dal re al popolo e poneva il governo sotto lo stretto controllo di un Parlamento unicamerale. Le preferenze dei moderati andavano, invece, a una Carta non molto diversa da quella francese, dove il re, formalmente sovrano, nominava il proprio governo, ed il potere legislativo era bilanciato tra due camere, una di diretta espressione popolare e l'altra di nomina regia, controllata, quindi, da alta borghesia ed aristocrazia.

Si trattava di posizioni molto diverse che, nel loro scontrarsi, finivano con l'indebolire l'insieme delle forze costituzionali che, peraltro, ora erano costrette ad affrontare la difficile questione del separatismo siciliano. Nell'isola, infatti, era scoppiata un rivolta verso la metà del mese di luglio, animata sia dalla grande proprietà terriera che dalle maestranze artigiane, due gruppi sociali entrambi colpiti dai provvedimenti antifeudali ed anti-corporativi della riforma amministrativa del 1818, con la quale venivano estesi alla Sicilia gli ordinamenti amministrativi del Regno, accentrando a Napoli l'apparato burocratico e governativo.

A reprimere la rivolta il governo costituzionale di Napoli inviò il generale Florestano Pepe, fratello di Guglielmo, che raggiunse con gli insorti l'accordo di Termini Imprese (settembre 1820), grazie al quale la Sicilia avrebbe potuto eleggere un proprio Parlamento. L'accordo, però, non fu accettato dal parlamento napoletano che preferì inviare nuove truppe, al comando di Pietro Colletta, per reprimere definitivamente il moto siciliano.

L'intervento austriaco
Questa decisione, che indubbiamente inaspriva i contrasti tra la Sicilia e Napoli, peraltro, dal bisogno di recuperare rapidamente una forte compattezza politica di fronte all'aggravarsi della situazione internazionale.

L'Austria era preoccupata, infatti, dell'estendersi dei moti insurrezionali, né poteva immediatamente agire sulla Spagna, dove un intervento di truppe straniere avrebbe molto probabilmente suscitato una resistenza patriottica; dunque puntò ad una rapida liquidazione dell'esperienza costituzionale napoletana.

Già nell'ottobre del 1820, infatti, convocò a Troppau un congresso delle potenze europee, cercando di far valere la necessità di un intervento a Napoli in difesa dei principi della Santa Alleanza. Si trovò, però, di fronte alle esitazioni della Francia, dove pur nei suoi limiti vigeva una Costituzione; a quelle dell'Inghilterra che non poteva impegnarsi in dichiarazioni di principio che fossero contrarie all'opinione pubblica del paese; e a quelle della Russia, che vedeva con qualche soddisfazione l'incrinarsi della solidarietà tra l'Austria e Napoli, e aprirsi opportunità di alleanze mediterranee.

Fu deciso, allora, di tenere un nuovo congresso, questa volta a Lubiana (gennaio 1821) dove lo stesso re dei Napoli avrebbe potuto chiarire i motivi della concessione della Costituzione. Autorizzato dal parlamento napoletano, Ferdinando I partì per Lubiana con l'impegno di difendere la Costituzione. Al contrario, giunto al congresso, egli dichiarò di essere stato costretto a cedere di fronte alla forza degli eventi rivoluzionari e chiese l'intervento delle grandi potenze per essere reintegrato nella propria piena sovranità.

Il tradimento di Ferdinando spalancò le porte alla repressione militare, resa ancora più agevole ai contrasti tra moderati e carbonari, che quel tradimento contribuì ad esacerbare. Sconfitte le truppe del generale Pepe al passo di Antrodoco, gli Austriaci entrarono a Napoli il 23 marzo del 1821, sciogliendo il Parlamento costituzionale, mentre Ferdinando I, nuovamente sul trono, abrogava la Costituzione.

Piemonte
I timori austriaci per il diffondersi anche in altri stati italiani del moto costituzionale napoletano, dunque, non erano privi di fondamento. Nel tempo si erano infatti intensificati i rapporti tra le diverse società segrete attive sulla penisola e andavano meglio precisandosi e facendosi più omogenei gli obiettivi della loro azione politica.

Già sul finire del 1820, infatti, fu scoperta una vendita carbonara fondata dal romagnolo Pietro Maroncelli, tra i cui membri figuravano alcuni collaboratori del soppresso "Il Conciliatore" e lo stesso direttore della rivista Silvio Pellico.

Proseguiva a Milano, anche dopo gli arresti di Maroncelli e Pellico, l'attività clandestina dei federati che, guidati da Federico Gonfalonieri, ponevano l'obiettivo della creazione di un Regno dell'Alta-Italia (nato dall'unione del Lombardo-Veneto e del Piemonte) da affidare alla sovranità dei Savoia, se costoro avessero accettato di trasformarsi in monarchia costituzionale.

Il progetto parve vicino a realizzarsi allo scoppio della rivoluzione in Piemonte. Protagonisti di quel moto furono aristocratici e militari legati agli stessi ambienti della corte sabauda: il conte Santorre di Santarosa, il conte Giacinto Provana di Collegno ed il marchese Asinai di San Marzano. Nel loro obiettivo di imporre un regime costituzionale essi pensavano di poter contare sull'appoggio di Carlo Alberto, destinato a succedere nel trono a Vittorio Emanuele I, privo di figli maschi.

Ma, dopo una iniziale promessa di appoggio, Carlo Alberto ritirò la sua parola, quando però era troppo tardi per fermare l'organizzazione della rivolta fissata per l'8 marzo. L'ammutinamento della guarnigione militare di Alessandria fece, dunque, precipitare gli eventi: il moto si estese, il re abdicò a favore del fratello Carlo Felice che, momentaneamente a Modena, affidò la reggenza al nipote Carlo Alberto.

Carlo Alberto accettò allora di promulgare la Costituzione spagnola voluta dai settori più intransigenti, mentre Santarosa assunse la guida del governo. Carlo Alberto aveva, però, subordinato la concessione della costituzione all'approvazione di Carlo Felice, con l'obiettivo di prendere tempo in attesa di una soluzione repressiva imposta dall'esterno.

Carlo Felice sconfessò l'operato del nipote, esortandolo a raggiungere al più presto le truppe a lui fedeli a Novara. Carlo Alberto fuggì da Torino nella notte del 21 marzo, lasciando il governo di Santarosa solo ad organizzare la resistenza contro la prevedibile avanzata dell'esercito austriaco, unitosi ai lealisti piemontesi.

L'8 aprile truppe regie e austriache sconfiggevano l'esercito governativo a Novara ed il 10 entravano a Torino, ponendo fine, dopo appena un mese, all'esperimento costituzionale.

La reazione
Dopo il felice esito degli interventi a Napoli ed in Piemonte, l'Austria ottenne nel Congresso di Verona (1822) che si ponesse termine anche all'esperimento costituzionale spagnolo, del quale si occupò la Francia desiderosa di confermare sul piano internazionale i suoi recenti indirizzi reazionari, incaricandosi delle operazioni militari.

Un esercito di quasi centomila uomini invase, nell'aprile del 1823, la Penisola Iberica, senza suscitare peraltro ostilità nella popolazione.

Dopo la presa di Cadice, dove si era rifugiato il governo costituzionale, Ferdinando VII fu reintegrato nei suoi poteri assoluti (1° ottobre 1823). Dai settori più conservatori della nobiltà e del clero, però, gli venne contrapposto il fratello, il reazionario Don Carlos.

In Portogallo, intanto, un'insurrezione guidata dal secondogenito del re, don Miguel, aveva portato, nel marzo del 1823, all'abolizione della Costituzione, sicché il trionfo dei principi della Santa Alleanza poteva dirsi completo.

In realtà, la situazione internazionale mostrava una fisionomia assai più complessa. Se erano state soppresse le spinte liberali in Spagna, a Napoli ed in Piemonte, le vicende della Grecia e dell'America Latina evolvevano in maniera molto differente.

I moti degli anni Trenta
L'Italia conobbe, nella prima metà dell'Ottocento, un processo di graduale riscoperta e di sempre più netta rivendicazione della propria identità nazionale. Questo processo fu definito dai contemporanei prima e dagli storici poi come "Risorgimento" -> L'Italia non doveva nascere, ma risorgere, tornare cioè a quella condizione di dignità e di rilievo che aveva a lungo ed in misura eminente caratterizzato la sua storia nell'ambito della vita europea; reinserirsi nell'Europa più ricca, più civile, più avanzata; chiudere una lunga parentesi di infelice insubordinazione ed emarginazione; esercitare in Europa quella che Mazzini aveva definito la "missione della Terza Roma" e che i moderati e Gioberti vedevano come una pagina bianca, tutta da scrivere di questo primato morale e civile degli italiani risalente addirittura alla preistoria, questo significava RISORGERE.

Per la verità, l'Italia, diversamente da altri paesi, non aveva mai conosciuto, lungo il corso della sua storia, l'esperienza di uno stato unitario. Era stata unita politicamente solo ai tempi dell'Impero Romano, ma all'interno di un'entità statale di tipo universalistico e sopranazionale. In seguito era sempre stata divisa o, comunque, sempre subordinata a potenze straniere.

Eppure, se uno "Stato italiano" non era mai esistito, un'idea di Italia in quanto comunità linguistica, culturale, religiosa o economica, esisteva almeno fin dall'epoca dei comuni. Nel 1700, col diffondersi della cultura illuministica, questa consapevolezza si era fatta più viva e assieme ad essa si era manifestata in misura crescente l'aspirazione ad una rinascita e ad un rinnovamento culturale e morale di tutto il popolo italiano.

Con la Restaurazione e con lo stabilirsi di un'egemonia austriaca su tutta la penisola, la situazione dell'Italia peggiorò sotto molti punti di vista, ma certamente per i patrioti italiani i problemi risultarono semplificati: la lotta per gli ideali liberali e democratici poteva ora coincidere con quella per la liberazione dal dominio straniero.

Questo però ancora non significava battersi per l'indipendenza e l0unità nazionale. Nei moti del 20 e del 21, infatti, la questione nazionale fu pressoché assente, o comunque subordinata alle rivendicazioni di ordine costituzionale. Nei moti che ebbero luogo dieci anni dopo l'assenza di una visione unitaria risultò ancora più evidente, ma fu proprio dal fallimento di questi moti che avrebbe tratto spunto Giuseppe Mazzini per elaborare una nuova concezione, che aveva il suo punto centrale nella rivendicazione dell'unità e dell'indipendenza nazionale.


Francia
Qui la politica restauratrice, favorevole all'antica nobiltà terriera, di Luigi XVIII e ancora di più di suo fratello Carlo X, era accolta con crescente preoccupazione ed ostilità da quei settori dell'industria e della finanza che guardavano ai progressi realizzati dalla Gran Bretagna grazie anche a un più aperto sistema di istituzioni politiche e amministrative.

Il conseguimento di un insieme di garanzie costituzionali per allargare il ristretto spazio previsto dalla carta del 1814 divenne dunque l'obiettivo fondamentale dei principali esponenti della classe legata alla proprietà mobiliare francese e della parte più moderna e dinamica del ceto dei proprietari terrieri.

Il raggiungimento di questo obiettivo divenne più urgente nel momento in cui si rese evidente che Carlo X non aveva alcuna intenzione di giungere a compromessi con le maggioranze liberali affermatesi alla Camera nel 1827 e nel 1830. Di fronte al prevalere di una parte politica a lui ostile, il re pensò bene di operare una decisiva prova di forza: il reazionario principe di Polignac, da lui nominato primo ministro all'indomani del voto del 1827, sciolse nel maggio del 1830 la Camera appena eletta, prima che si riunisse, emanando le famose quattro ordinanze con le quali venivano ristrette, oltre ogni precedente limite, la libertà di stampa e di associazione e veniva annunciata una legge elettorale tesa a conservare la supremazia dell'aristocrazia proprietaria.

Le ordinanze furono il segnale dell'inevitabilità di uno scontro aperto. L'insurrezione scoppiò a Parigi nei giorni 27, 28 e 29 luglio del 1830 e si vide il popolo della capitale sollevarsi sotto l'abile direzione di figure del mondo della finanza, come il banchiere Laffitte, di intellettuali come Adolphe Thiers e François Guizot e di vecchi protagonisti della rivoluzione come Talleyrand, in quelle che sono passate alla storia con il nome di Trois Glorieuses.

Fuggito Carlo X, il trono fu offerto dagli insorti a Luigi Filippo d'Orléans, figlio di quel Filippo Egualité che aveva partecipato alla Rivoluzione, rimanendo poi vittima del Terrore. Proclamato il 9 agosto <<re dei Francesi per volontà della Nazione>>, Luigi Filippo modificò subito la Carta del 1814, introducendovi importanti correttivi relativi alla libertà di stampa, al ruolo del cattolicesimo che non era più religione di Stato e all'allargamento, seppur prudente, del corpo elettorale.

La rinuncia ad ogni investitura divina della sovranità e l'adozione della bandiera tricolore al posto del bianco stendardo con i gigli borbonici confermavano che si era finalmente realizzata in Francia una monarchia costituzionale.


Belgio
La Rivoluzione di luglio ebbe delle immediate ripercussioni anche in Belgio, che il Congresso di Vienna, per ragioni di equilibrio internazionale, aveva unito ai Paesi Bassi olandesi. Si trattava, però, di un'unione che aveva fortemente sacrificato gli interessi economici della borghesia industriale belga, favorevole a dazi protezionistici in opposizione a quella olandese prevalentemente mercantile e quindi favorevole al mantenimento del libero scambio.

Il 25 agosto l'insurrezione scoppiò a Bruxelles e si diffuse nelle settimane successive in tutto il Belgio. Non riuscendo a domare la rivolta, il governo olandese chiese l'intervento delle grandi potenze. Francia e Inghilterra, però, non se la sentirono di intervenire, chiedendo che la questione fosse discussa in una conferenza internazionale. Quest'ultima si tenne a Londra tra la fine del 1830 e l'inizio del 1831, quando cioè si riconobbe l'indipendenza del Belgio, affidandone la corona ad un principe tedesco, Leopoldo di Sassonia-Coburgo.

Si trattò di una decisione di portata storica perché non solo riconosceva l'esito vittorioso di una lotta per l'indipendenza (anche se già c'era stato il precedente della Grecia) ma anche perché soprattutto violava esplicitamente una deliberazione del Congresso di Vienna, segnando simbolicamente la fine dell'equilibrio del 1815.


Polonia
Diverso esito ebbe la successiva insurrezione di Varsavia, il 29 novembre 1830. la rivolta anti-zarista non riuscì, infatti, a trovare la necessaria solidarietà internazionale quando, nel settembre del 1830, la repressione dell'esercito zarista vinceva le ultime resistenze della capitale polacca. La tragedia di quei giorni fu cantata da Chopin in una della sue più celebri sonate "La caduta di Varsavia".

Penisola italiana
Italia e Polonia rappresentavano, nell'immaginario politico della prima metà dell'Ottocento, le due nazioni sorelle, oppresse nella loro identità nazionale e nella loro aspirazione all'indipendenza ed alla libertà. I moti italiani del 1831, infatti, finirono per ricalcare il modello delle rivoluzioni del 1820-21, riproducendone le manchevolezze di fondo ed il deludente esito conclusivo.

A Modena, fin dall'inizio, i rapporti tra il duca Francesco IV d'Asburgo Este ed il cospiratore modenese Enrico Misley parvero riprodurre gli equivoci della rivoluzione piemontese del 1820-21. I rivoluzionari, tra cui si distingueva Ciro Menotti, pensavano di poter legare il duca alla causa liberale. Francesco IV immaginava, invece, di potersi servire di un'eventuale insurrezione nei suoi domini per allargare il moto fino a giungere alla formazione di un regno dell'Alta-Italia.

Ma come era accaduto dieci anni prima in Piemonte, anche ora lo scoppio dell'insurrezione coincise con un ripensamento del duca rumoroso che, di fronte a un non intervento francese, l'Austria ne potesse approfittare per reprimere militarmente il moto rivoluzionario. Egli dunque, invece di sostenere gli insorti come aveva promesso, fece arrestare nella notte tra il 3 ed il 4 febbraio circa quaranta insorti, tra i quali Ciro Menotti.

L'insurrezione comunque scoppiò nella città di Bologna, si estese nelle altre province dello Stato Pontificio e infine dilagò nel Ducato di Tarma e in quello di Modena. Francesco IV fuggì dal ducato portando con sé come ostaggio lo stesso Menotti; allo stesso modo fece la duchessa Maria Luisa D'Asburgo, che lasciò Parma.

L'8 febbraio a Bologna la Giunta Rivoluzionaria provvisoria, costituitasi in Governo delle Province Unite, proclamò la decadenza del potere temporale dei papi e invitò i rappresentanti delle province sottrattesi a quel dominio a riunirsi in Assemblea di deputati per il successivo 20 marzo. Nel governo bolognese affiorarono tuttavia quelle divisioni che avevano ugualmente compromesso precedenti iniziative rivoluzionarie.

Il timore di attirare su di sé l'intervento austriaco ed il perdurare di antichi pregiudizi municipalisti, indussero la giunta liberale bolognese a non definire alcuna azione congiunta con i governi provvisori di Modena e Parma, né a tentare di estendere l'insurrezione verso l'Umbria e il Lazio, cioè verso il cuore dello Stato Pontificio. Questa posizione determinò la debolezza degli insorti.

Intanto, con il consenso del nuovo Pontefice Gregorio XVI (1831-46), sopraggiunse l'intervento militare asburgico. Al comando del generale Frimont gli Austriaci, già alla fine di marzo, avevano ristabilito l'ordine precedente, riportando sui troni i sovrani momentaneamente fuggiaschi.

A Modena il ritorno Francesco IV coincise con l'impiccagione di Ciro Menotti e di Vincenzo Borrelli, il notaio che aveva redatto l'atto di decadenza della dinastia estense; a Parma Maria Luisa non smentì la sua fama di sovrana tollerante; nelle province emiliane e romagnole la repressione voluta da Gregorio XVI fu così spietata da indurre lo stesso Metternich, in un Memorandum, a chiedere maggiore cautela e moderazione.

I moti fallirono dunque, ma la questione dell'indipendenza nazionale veniva ora messa al centro dell'azione insurrezionale come questione in grado di mobiliare al massimo le energie politiche, morali ed intellettuali del paese, senza più illusorie speranze su aiuti esterni.


La Francia di Luigi Filippo
In Francia, le forze che avevano combattuto nelle giornate del luglio 1830 per far cadere la monarchia borbonica non tardarono ad entrare in contrasto tra di loro.

Già all'interno del gruppo liberale moderato che aveva rappresentato l'elemento più risoluto nell'imporre la propria egemonia, si aprì presto una divisione:
- il "partito del movimento", guidato dal banchiere Laffitte, che era favorevole ad un tendenziale allargamento dell'elettorato e della partecipazione politica di ceti medi e popolari;
- il "partito della resistenza", diretto prima da Périer e poi da Guizot, aveva invece l'obiettivo di rafforzare le istituzioni rappresentati e appena conquistate, circoscrivendole alle classi più elevate socialmente ed evitando di correre avventure sul terreno della democrazia. Era infatti convinzione di questa parte del mondo liberale che un sistema parlamentare elitario, a base fortemente censitaria, avrebbe potuto godere di maggiore stabilità, in quando egli sarebbe stato sostenuto da quelle classi (il pays legal), espressione cioè del paese legale e che avevano maggiore interesse a difendere.

Spettava insomma a questi ceti in via di crescente arricchimento esprimere una classe politica che si collocasse nel just milieu, cioè nel giusto mezzo tra reazione e rivoluzione; una classe politica che sapesse interpretare le esigenze dei ceti più poveri senza però assecondarne gli eccessi.

Con questa posizione mediana, il liberalismo francese intendeva sconfiggere le forze che, in un certo qual senso, minacciavano di voler rimettere in discussione i risultati della Rivoluzione di Luglio ->LEGITTIMISTI. Dunque, il regime orleanista, che si resse durante tutto l'arco della sua esistenza su basi di consenso molto precarie e ristrette, finì con l'identificarsi necessariamente con gli interessi dell'alta borghesia degli affari.

L'Inghilterra
L'Inghilterra visse un periodo di significative riforme politiche e sociali. Il segnale di svolta fu rappresentato dalla salita al potere del re Guglielmo IV e dal capo del governo Lord Grey.

Egli, nel 1832, attuò un'importantissima riforma elettorale o Reform Act che allargava la base elettorale da 500.000 a 800.000 elettori, fissando dei criteri che rimanevano fortemente censitari, ma non privilegiavano più i grandi proprietari terrieri.

La riforma ridisegnava completamente la mappa dei collegi elettorali, sopprimendo un numero cospicui di "borghi putridi" che erano quegli antichi collegi rurali ormai spopolati per effetto della urbanizzazione e, dunque, facilmente corrompibili e dando maggiore rappresentatività alle grandi città del centro-nord del paese, nelle quali andava concentrandosi il nuovo sviluppo industriale e commerciale.

Alla riforma elettorale fecero immediatamente seguito altri importanti provvedimenti:
- nel 1833 venne abolita la schiavitù anche nelle colonie inglesi, indennizzando i proprietari;
- nello stesso tempo fu approvata la Factory Act, la prima legge sulle fabbriche che vietava il lavoro notturno per i fanciulli e la loro utilizzazione per più di 8 ore al giorno al di sotto dei 12 anni e per non più di dodici ore per i ragazzi compresi tra i 13 ed i 18.;
- con una legge del 1834 si definivano pure interventi pubblici si sussidio ai poveri, creando un istituto nazionale di assistenza e promuovendo la costruzione di case di lavoro destinate ad accogliere operai disoccupati;
- la riforma municipale fu invece approvata nel 1835 dal nuovo governo liberale di Lord Melbourne, che diede il diritto di elettorato a tutti i contribuenti senza limite di censo, allargando così di grande misura le basi della vita pubblica locale.



La Penisola italiana
L'età napoleonica aveva condotto in Italia a importanti mutamenti sia sotto il profilo sociale, con l'affermarsi di nuovi ceti accanto alla tradizionale aristocrazia terriera, sia sotto il profilo giuridico-istituzionale, con la caduta di ogni forma di sopravvivenza feudale.

Vi fu un particolare aumento della popolazione, soprattutto nelle campagne, che nell'arco di un secolo e mezzo portò gli abitanti della penisola da 13 a 22 milioni. Conseguenza di questo incremento demografico fu, ovviamente, una maggiore richiesta di prodotti alimentari che portò, per un verso, ad un aumento dei pressi e quindi a un tendenziale peggioramento delle condizioni di vita della popolazione più povera; dall'altro verso si ponevano le basi per vantaggiosi incrementi della produttività agricola attraverso l'utilizzazione di nuove tecniche di coltivazione e l'adozione di colture specializzate.

Molti elementi dunque contribuivano a determinare nell'Italia degli anni Trenta condizioni favorevoli alla modernizzazione e all'investimento industriale. Ma si opponevano ugualmente vari fattori negativi, come la limitatezza delle aree agricole effettivamente utilizzabili per colture estensive, la comunicazione tra le varie regioni era resa difficile dalla conformazione accidentale della penisola, la politica miope e retriva dei vari governi che non aveva incentivato nel coso degli anni dei miglioramenti.

Non si dimentichi, poi, la diversificazione delle singole situazioni regionali:
- Stato della Chiesa ->qui il governo rigidamente conservatore di Gregorio XVI impediva anche solo di immaginari la modernizzazione di un'economia agricola, ancora basata sul latifondo;
- Regno delle Due Sicilie -> qui Ferdinando II, salito al trono nel 1830, sembrò voler inaugurare una stagione di riforme politiche ed economiche, spingendosi ad accentuare il processo di diversificazione della produzione agricola: Accanto alla tradizionale coltura dei cereali si ampliarono le aree utilizzate per la produzione di olio, vino e agrumi, prodotti destinati soprattutto all'esportazione -> per cui notiamo che la mercantilizzazione diventa una delle caratteristiche positive dell'agricoltura meridionale. Nonostante, inoltre, l'adozione di molte misure protezionistiche, l'industria stentò ad insediarsi, creando il circolo vizioso del sottosviluppo -> la povertà ovviamente non crea potenziali acquirenti di merci e quindi deprime le prospettive di vendita di chi intraprende iniziative industriali, non nascono nuove opportunità di lavoro e le condizioni di povertà non vengono mai rimosse.
- Granducato di Toscana -> offriva una condizione per certi versi a metà strada tra le due Italie. La diffusione nelle campagne del contratto mezzadrile - cioè la divisione a metà tra padrone e contadino delle spese e degli utili della coltivazione - consentiva una sia pur minima anche se discontinua disponibilità economica. Ma si avvertivano molto gli effetti positivi del sovrano Leopoldo II, successo a Ferdinando III d'Asburgo Lorena.
- Piemonte -> qui l'ascesa al trono di Carlo Alberto coincise con qualche non trascurabile rinnovamento nel campo della legislazione commerciale, dell'ordinamento scolastico e del sistema delle comunicazioni. Soprattutto nelle zone collinari e pianeggianti i proprietari furono spinti alla specializzazione delle colture, istaurandosi dunque un tipo di agricoltura moderna, in grado di esportare i suoi prodotti.
- Lombardo-Veneto -> rappresentava la regione a più avanzato sviluppo economico dell'Italia nei decenni Trenta e Quaranta. Soprattutto della ricchezza lombarda si giovava il governo austriaco sia attraverso una rigorosa esazione tributaria, che faceva di questa regione una dei maggiori cespiti dell'impero, sia attraverso un sistema tariffario che, all'interno dell'impero, favoriva la circolazione delle merci provenienti da zone industrializzate austriache utilizzando il Lombardo-Veneto come area di collocamento di prodotti manufatti. Ma lo sviluppo economico della Lombardia e del Veneto trovava un vincolo preciso nella condizione di subalternità in cui le due regioni erano collocate all'interno dell'impero.


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