Eduardo Ambrosio


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QUESTIONE MERIDION.

STORIA > I TEMI DEL '900

LA QUESTIONE MERIDIONALE
storia e storiografia

Sommario: PREMESSA, I " termini" della" Questione Meridionale", I rapporti tra politica e cultura a Napoli, il NOVECENTO.


PREMESSA

È comunemente verificata la realtà di un'Italia settentrionale come società industriale avanzata e di un'Italia meridionale come società agraria arretrata. La spiegazione dei termini della
Questione Meridionale è tutta nell'esame di questo fenomeno complesso e apparentemente irreversibile. Lo sviluppo economico dell'Italia meridionale, assai lento rispetto a quello del Nord, può essere ricondotto - attraverso l'esame della storiografia meridionalistica - ad alcune cause principali.

La regione meridionale si trova in condizioni fisiche e geografiche assai sfavorevoli: povertà del suolo, clima avverso, scarsezza d'acqua e mancanza quasi assoluta di risorse minerarie. Inoltre, nel periodo immediatamente successivo alla rivoluzione industriale, si è trovata lontana dai mercati dell'Europa settentrionale, quando i costi dei trasporti incidevano in maniera decisiva sugli insediamenti industriali.
Le
regioni settentrionali, al contrario, vicine ai paesi protagonisti della rivoluzione industriale, ricevettero molte spinte verso la industrializzazione che si tradussero, nel campo sociale, in ampie possibilità di istruzione e d addestramento professionale, stimoli alla ricerca legata alla produzione industriale, miglioramento delle strutture organizzative private e pubbliche, sviluppo della "partecipazione" sia a livello locale che nazionale, diffusione di mezzi dei comunicazione, miglioramento dei rapporti tra città e campagna.

Il Meridione, invece, manteneva le sue caratteristiche di società organizzata intorno alla famiglia e alla comunità dominata dai costumi e dalla tradizione che spinsero F. S. Nitti a definire Napoli come una "fiera permanente" ovvero come un enorme paese.
Ma la
causa principale del sottosviluppo del Sud è legata alle conseguenze dell'unificazione nazionale, quando furono saldate due entità profondamente diverse (l'una capitalistica e industriale, l'altra feudale ed agraria) e la conseguenza fu il dominio politico ed economico della più forte: "la borghesia piemontese - cioè - egemonizzò e diresse il movimento di unificazione e non esitò ad imporre la propria politica nelle nuova nazione" (Allum).
Le tariffe protettive di cui avevano beneficiato le nascenti industrie del Sud furono soppresse con l'introduzione del nuovo regime doganale che diede un colpo tremendo - favorendo la concorrenza del Nord - all'industria manifatturiera meridionale. Il forte debito interno del Piemonte fu pagato dall'intero paese ed ebbe conseguenze disastrose sulla parte più debole di esso. Il sistema fiscale piemontese fu esteso a tutto il paese raddoppiando le imposte finanziarie a danno dei contadini.
Il
tentativo di riforma agraria, ovvero la vendita all'asta delle proprietà ecclesiastiche secolarizzate, non fece altro che arricchire gli speculatori a danno dei contadini, confermando il persistere del rapporto feudale tra contadini e proprietari.
Verso la fine dell'Ottocento, poi,
l'alleanza tra capitalismo del Nord e agrari meridionali introdusse una nuova politica di tariffe con un forte danno all'economia del Mezzogiorno: i dazi sui beni industriali e sul grano costrinsero le popolazioni del Sud a pagare prezzi più alti per i manufatti provenienti dal Nord e per il pane. Alla distribuzione dell'industria dl vecchio Regno di Napoli seguì quindi nel giro di pochi decenni la grave crisi dell'agricoltura.

Gli uomini politici meridionali poi - tutti provenienti dalla borghesia agraria avvantaggiata fortemente dal nuovo assetto economico seguito all'unificazione - si guardavano ben dal difendere gli interessi del Sud quando l'aumento del prezzo del pane incrementava il reddito ricavato dalle proprietà coltivate in maniera intensiva.
Il
Mezzogiorno, perciò, avrebbe potuto sfuggire a questa grave situazione di sottosviluppo e sudditanza solo attraverso uno sviluppo industriale parallelo a quello dell'altra Italia che per realizzarsi avrebbe avuto bisogno di quei forti investimenti che i proprietari meridionali non avevano interesse a compiere per non ledere gli interessi dei conquistatori piemontesi di cui diventarono presto fedeli alleati: preferivano cioè trasferire al Nord i capitali accumulati nello sfruttamento fondiario.
Ecco spiegato, quindi - in funzione del dualismo economico - il fatto che la rivoluzione industriale italiana non è mai giunta al suo pieno compimento (e non avrebbe potuto giungervi) e l'enorme dislivello fra reddito medio al Nord e al Sud.


I " termini" della" Questione Meridionale".
Tali termini vennero circostanziandosi e specificandosi negli anni successivi all'unità in modo assai vago e spesso solo intuitivo, solo molto più tardi in maniera scientifica ed obiettiva.

Nel XVIII secolo però, gli intellettuali particolarmente attenti alla realtà socio- economica meridionale ne avevano denunciati gli aspetti ancora legati al persistere dei rapporti di tipo feudale tra lavoratori e possessori delle strutture produttive, quali Genovesi, Filangieri, Cuoco, Galiani, Pagano.
In questa prospettiva la storiografia contemporanea poi inserisce l'esperienza della "
Repubblica Partenopea" dove i patrioti sperimentarono, pagando di persona, l'impreparazione e l'assenteismo politico delle masse meridionali (quei morti pesano ancora).
Appare chiaro, in questa fase, come il Mezzogiorno non potrà inserirsi ne circuito del progresso europeo sena mutare le strutture sociali c
on riforme volte all'eliminazione dei rapporti feudali che le leggi di G. Bonaparte e del Murat avevano soppressi solo giuridicamente: di fatto una mentalità fortemente feudale continuava a vincolare le masse contadine al barone al quale erano del tutto subordinate sia dal punto di vista sociale che economico.
Gli illuministi napoletani trassero dall'esame obiettivo dei problemi meridionali - questione demaniale e sociale, corruzione delle amministrazioni locali, clientelismo - il convincimento che proprio il Sud sarebbe stata la "polveriera" d'Italia, ovvero il punto di partenza della rivoluzione nazionale.

Il fallimento della "Spedizione di Sapri" dimostrerà poi quanto possa essere pericoloso affidare la trasformazione di una realtà socio- economico- politica a masse come quelle meridionali del tutto impreparate politicamente.
Quando però,
C. Pisacane - nel saggio "La Rivoluzione" - scriveva che "l'uguaglianza politica è derisione allorché i rapporti sociali dividono i cittadini in due classi distintissime, l'una condannata a perpetuo lavoro per miseramente vivere, l'altra destinata a godersi il frutto del sudore di quella" mostrerà di aver intuito con precisione quasi profetica su che basi sarebbero stati impostati i rapporti tra Nord e Sud nel nuovo stato voluto dal Cavour.

Ma la possibilità scientifica di una discussione intorno alla Questione si ebbe solo nell'Italia post- unitaria, il Risorgimento era stato una rivoluzione mancata dove l'alternativa tra un'Italia democratica e repubblicana era venuta a mancare col fallimento della spedizione di Sapri che fu l'ultimo tentativo di un meridionale di rendere autonomo il movimento unitario italiano senza attendere l'aiuto straniero. Pisacane fu profeta: morendo, egli pose l'esigenza di profonde trasformazioni sociali ed agrarie, che dessero alle classi più povere del Sud una coscienza politica e insieme una fede sicura nell'Italia unita.
Quattro anni più tardi, il 17 marzo 1861, a Torino, il Parlamento Italiano votava una legge, secondo la quale il re assumeva il nome di Vittorio Emanuele II, sottolineando così
la prosecuzione ideale della monarchia piemontese e il carattere annessionistico e monarchico e non popolare e rivoluzionario dell'unificazione ormai avvenuta: era il trionfo della politica delle annessioni voluta dal Cavour, la fine di ogni illusione in una Costituzione Italiana.

La Questione Meridionale nacque, quindi, nell'epoca post- risorgimentale nella coscienza di un piccolo gruppo di intellettuali (non meridionali) come riflessione sulla politica economica e sociale del nuovo stato nazionale e sulle conseguenze della politica stessa. Ma l'influsso della Questione sulle lotte parlamentari di quegli anni fu minima se non nulla e non valse certo in nessuna occasione a modificare risultati elettorali.

I rapporti tra politica e cultura a Napoli
La città - antica capitale di un grande regno - era stata centro tradizionale della cultura italiana. Nel Settecento vide il fiorire dell'illuminismo italiano. Dopo la sconfitta giacobina del 1799, Napoli tornò ad essere centro culturale attivo nei primi anni dopo l'Unità per il fiorire della scuola hegeliana fino a regredire a livello di città di provincia.
Ma tutta l'attività intellettuale napoletana fu impostata su basi notevolmente astratte: i filosofi napoletani abbandonavano facilmente nelle loro ricerche la concretezza storica e scientifica per il grande sistema perpetuando il distacco fra lettrès e peuple; i primi rivendicavano una vita oziosa in quell'ambiente sterile ed accademico fatto di ricchi nobili ed ecclesiastici, il popolo restava nelle secche della sua miseria ed ignoranza.
L'assenza, quindi, di ogni comunicazione con l'ambiente culturale spinse gli intellettuali meridionali ad una rivincita ideologica contro la miseria della società provinciale in cui erano costretti a vivere e all'evasione da essa attraverso l'elaborazione di sistemi universali.
Tale rapporti tra società e cultura spiegano, perciò, come mai la
Questione come problema nazionale sia nata - negli anni tra il 1875 e il 1880 - non negli ambienti intellettuali del Mezzogiorno ma tra un gruppo di positivisti fiorentini. Solo più tardi essa divenne il problema centrale della cultura meridionale.

Nella storia della storiografia meridionalistica possiamo distinguere tre generazioni di studiosi:
-
la prima di Villari, Sonnino e Franchetti dell'Università di Firenze, che con Lucano e G. Fortunato analizzarono la condizione del Sud distruggendo il mito di una regione naturalmente ricca condannata alla degenerazione economica e sociale dalla indolenza della popolazione, e ponendo in luce, al contrario, la sterilità di gran parte del terziario ed il malgoverno borbonico suggerivano crediti a basso tasso di interesse e riduzioni fiscali per un miglioramento delle condizioni sociali;
- la
seconda ebbe il suo elemento più rappresentativo in F. S. Nitti che - nel contesto della rivoluzione industriale centroeuropea e norditaliana - pose il problema della imprescindibile necessità di industrializzazione per il Sud onde risolvere la Questione fornendo occupazione alla manodopera meridionale e, nel contempo, creando le strutture di una moderna società in grado di sconfiggere l'arretratezza economica e sociale;
-
la terza di Salvemini, Dorso e Gramsci i quali, superando il limite della visione ottocentesca come solo un problema di buon governo, vedono la Questione come un preciso disegno politico che derivava dalla "posizione dominante della classe dirigente della società locale e della sua situazione subalterna nell'ambito nazionale" (Allum). Solo una vera e propria "rivoluzione" quindi, organizzata dai meridionali stessi e dai loro naturali alleati, avrebbe potuto mutare i termini del problema. Era necessario, perciò, un grande blocco delle forze popolari: un'alleanza fra i contadini del Sud e gli operai del Nord.

Nel momento dell'unità, il primo impatto tra Nord e Sud fu subito scoraggiante: il Croce ricorda che molti contadini meridionali credevano ancora che
"La Talia" fosse la moglie del re, tanto lontane erano le vicende nazionali dai loro immediati e vitali interessi; gli ufficiali garibaldini inorridivano al contatto con la barbarie delle popolazioni "conquistate".
Fu proprio questa
"diversità" ad accreditare il convincimento di un'obiettiva inferiorità del Sud, fornendo al Nord l'alibi per perpetuare il proprio stato di vantaggio.
La "
scuola antropologica" si affrettò a suffragare scientificamente questo convincimento: sono proprio i meridionali i responsabili della loro miseria negati ed insensibili come sono ad ogni possibilità di progresso. Alfredo Niceforo, perciò, poteva scrivere che le disgrazie e i disagi del Sud nascono da una costituzionale incapacità a tenere il passo col mondo civile; dal suo essere restato ad uno stato di inferiorità nella scala dell'evoluzione sociale.
Queste teorie, però - che finivano col considerare l
'Italia del sud solo una "colonia da civilizzare" da parte dell'evoluta e ricca Italia del nord - sollevarono vastissima eco e diedero il la ad una vivace polemica nella quale si inserirono tra gli altri Colajanni e Salvemini.
Il primo con una critica serrata al metodo positivista che, utile nel campo delle scienze naturali, si rivela inadeguato in quello delle scienze umane in quanto la "scuola antropologica" non faceva altro che dare una mascheratura scientifica ai malanni sociali del Sud ed un alibi alla classe dirigente che non riusciva a sanarli perché li affrontava in maniera inadeguata e sena una seria volontà politica. Il Salvemini ponendo l'accento sul fatto che nel raffronto tra le regioni italiane
"diversità" non significa "inferiorità" nel senso che quelle teorie che cercano di spiegare la condizione del Sud in funzione di una presunta endemica inferiorità sono teorie da "poltroni" che eludono la realtà vera del problema.
Le critiche - giuste e validissime -
del Colajanni e del Salvemini alle teorie positiviste della "scuola antropologica" non debbono, però, far dimenticare un altro aspetto del problema: le condiziono storiche e geografiche hanno certamente almeno in parte influito sulla formazione delle strutture socio- economiche delle terre del Sud.
Se fu sfatato il mito di un'Italia meridionale
"alma parens" dell'agricoltura ricca e prosperosa lo si deve all'analisi accurata e scientifica di Giustino Fortunato che, attraverso l'esame della geografia economica del Sud, giungeva alla conclusione che pochi paesi al mondo presentano le differenze fisiche e climatiche esistenti tra nord e sud d'Italia, e queste differenze non hanno potuto non influire - anche se solo in parte - sulle rispettive condizioni economiche e sociali.
"
Tra noi - scriveva Fortunato - quando si eccettuino la Campania, dal Garigliano al Sele, la terra di Bari, dalla foce dell'Ofanto al porto di Brindisi, troppo densa la prima, troppo arida la seconda tra il nodo calcareo degli Abruzzi a settentrione, che è tutto un erbaio da pascolo, e la punta granitica delle Calabrie a mezzogiorno, che è vero sfasciume pendolo sul mare, corrono immense estensioni di origine scagliose, di scisti galestrini, di marme cretose più o meno impermeabili, acconce, se pure, alle selve d'alto fusto ed ai pascoli radi, qua e là alle colture specializzate, non mai, o assai poco, alle colture promiscue, intensive, causa efficiente di una fitta popolazione sparsa per la campagna".
Purtroppo però, su questi dati obiettivi - così riassunti dal Fortunato - si è basata la tendenza - che tuttora sopravvive anche inconsciamente - a considerare inutile ogni impegno per il riscatto del Sud. Al contrario, un serio lavoro - che abbia a monte una forte volontà politica - volto al rimboschimento, alle irrigazioni, all'arricchimento dei suoli, alle culture razionali, è in grado di mutare anche le più avverse condizioni naturali.
Lo stesso Fortunato, poi, indagando sulle condizioni dei contadini del Sud, constatava che la quotizzazione dei demani pubblici o espropriati non aveva in alcun modo posto rimedio all'estrema miseria delle masse contadine: le quotizzazioni hanno giovato solo ai grossi proprietari che hanno messo insieme impressionanti latifondi ricomprando le quote di quei contadini che - per mancanza di capitali - erano costretti a disfarsi della propria quota e a ritornare servi nella "abietta condizione di cafoni".
Il dato fisico- geografico - prima trascurato, poi sopravvalutato - ha certamente un posto nell'indagine sul sottosviluppo economico e civile del Mezzogiorno, ma l'indagine deve orientarsi decisamente verso quei fattori sociali e soprattutto politici che hanno operato ed operano nel Meridione e che sono i responsabili principali della subordinazione economica e della diseducazione politica e sociale delle masse.
Tale condizione di degradazione nella quale è stato lasciato volontariamente vivere ha fatto sì che maturasse nella coscienza di un popolo un'estrema sfiducia in ogni forma di organizzazione e rappresentanza: la collettività si è indirizzata verso strutture sociali lontane dai metodi di convivenza democratica: mentalità feudale e mentalità delegante, omertà e ossequio alla mafia e alla camorra, clientelismo politico sono tante facce dell'asservimento e dello sfruttamento come fattori sui quali riposava la possibilità dell'affermarsi prima e dell'enorme sviluppo poi del capitalismo industriale norditaliano.
Le bande di contadini che si posero al seguito di Garibaldi nella speranza di liberarsi della vecchia classe feudale che li dominava furono ben presto deluse. Saranno gli stessi garibaldini - alleatisi nel frattempo con i grandi proprietari terrieri - a reprimere nel sangue ogni moto di ribellione (Bixio nella piana di Catania).
Ecco perché ben presto i contadini abbandonarono Garibaldi e - dopo l'abolizione dei decreti a favore del popolo e lo scioglimento dell'esercito dei volontari - tornano ad abbracciare la causa di re Francesco. L'esercito interviene in forze per spegnere nel sangue la ribellione di quella che il Cavour definì "la parte più debole e corrotta d'Italia".
Il brigantaggio se fu certamente strumento della reazione clericale e borbonica secondo la classica interpretazione, esso - secondo interpretazioni più attente - fu anche espressione di genuine istanze popolari. La Chiesa non esita ad usare i briganti come strumento del proprio legittimismo contro la secolarizzazione dei beni ecclesiastici attuata dai piemontesi. I contadini dal canto loro vedono nel brigante il potenziale vendicatore di tante prevaricazioni sofferte per mano del potere.
Questa è la spiegazione della istintiva complicità (perpetuatasi fino ad oggi) delle popolazioni contadine del Sud col brigante o col mafioso, la quale trova la sua ragion d'essere sempre nella "disgregazione" della società meridionale e nella precarietà dei rapporti socio- economici oltre che nella nefasta influenza del passato regime borbonico.
L'integrazione del Sud nel nuovo stato ebbe, quindi, soprattutto negli anni dal 1861 al 1866, aspetti fortemente traumatici, ma dopo la conquista di Roma la situazione andò lentamente "normalizzandosi".
Intanto si dava inizio ad una ferrea politica finanziaria volta al raggiungimento del pareggio del bilancio che fu raggiunto soprattutto a spese delle terre del Sud che - in proporzione - furono le più vessate dall'imposizione tributaria mentre, oltre ad essere obiettivamente le più povere, erano abituate al blando sistema tributario borbonico; la politica degli investimenti, poi, non fu certo impostata su basi meridionaliste, valga un sol dato: dal 1862 al 1896 per acquedotti e miglioramenti idraulici vennero erogati 457 milioni di lire, ma di questi soltanto tre vennero spesi per le regioni meridionali.
Contemporaneamente lo Stato affrontava, per la prima volta e in maniera inefficace, il problema più grave ovvero quello del latifondo che - a dispetto della soppressione giuridica della feudalità - si ricostituiva costantemente nelle mani dei pochi capitalisti (
come denunciava G. Fortunato).
Finalmente negli anni intorno al 1870 cominciavano a levarsi le prime voci di denuncia a rivendicare gli interessi delle terre del Sud disgraziate e diseredate, e la Questione Meridionale ebbe una prima impostazione coerente, però, con gli interessi della borghesia capitalistica.
Il
Villari fu il primo a rivolgersi alla classe dirigente borghese ed a d invitarla con attente argomentazioni - viziate, però, da un tono fortemente paternalistico - a favorire - assolvendo al proprio compito - la redenzione delle plebi meridionali allontanando così il pericolo delle insurrezioni.
Ma nella prima generazione dei meridionalisti spicca per la preparazione sui termini storici, economici e geografici della Questione G. Fortunato che ebbe soprattutto il merito di dissipare - una volta per tutte - il mito del Mezzogiorno naturalmente fertile descrivendolo - quale in effetti era - costituito da terre aride e coste malariche, fiumare e valli franose, montagne brulle e piane dissestate.
Questi primi meridionalisti - a ben guardare - non andarono al di là di un prudente riformismo e se criticarono la politica del Governo lo fecero soprattutto per invitarlo a risolvere una questione che - alla lunga - avrebbe potuto indebolire il governo stesso e dei suoi protetti: borghesia capitalistica e capitalismo agrario.
Con l'avvento al
potere della Sinistra, la politica degli investimenti ebbe un'impostazione ben diversa da quella sperata, anche perché il partito di Depretis aveva trovato sostegno al Sud soprattutto in chi attendeva vantaggi a livello personale, ovvero in quei notabili e possidenti che miravano a tutt'altro che a riforme sociali. La politica del "trasformismo", poi, non poteva che confermare il Sud nella sua situazione di sottosviluppo destinato ad aggravarsi in seguito all'alleanza ormai divenuta stabile tra borghesia settentrionale e capitalismo meridionale.
Il Governo, perciò, emise una serie di decreti volti a favorire l'inserimento delle industrie del settentrione (con tariffe doganali più alte per proteggersi dal prodotto straniero) nella competizione con i più avanzati paesi europei.
Anche se
R. Romeo ha sostenuto non a torto che il protezionismo doganale era indispensabile per creare in Italia un'industria moderna, questo tipo di politica protezionistica tuttavia che avrebbe certo dato buoni risultati se limitato a brevi periodi (come in Germania) divenne ben presto una misura stabile e finì col deteriorare l'economia del Mezzogiorno non solo per l'inflazione che seguì al rincaro dei prodotti industriali "protetti", ma soprattutto perché tutti i capitali disponibili anche al Sud furono sottratti all'agricoltura bisognosa di investimenti adeguati per sperare in un ammodernamento delle proprie strutture che le permettesse di sopravvivere, e furono indirizzati verso le più redditizie industrie del Nord.
La politica "protezionistica" è quindi l'esempio più chiaro di quanto lo Stato non ha fatto per risolvere il problema del Sud o - paradossalmente - di quanto ha fatto per aggravarlo.
Come nel secondo dopoguerra, al tempo del famigerato boom economico, era il Mezzogiorno ad accollarsi tutte le spese dello sviluppo industriale della penisola traendone vantaggi minimi e di riflesso e spesso molto appariscenti ma privi di effettiva concretezza.

Proprio in quegli anni in Italia trionfava il positivismo e il Ferri, il Lombroso, il Niceforo non esitarono - come abbiamo visto -
a definire le popolazioni del Sud incivili per cause congenite invitandole a star quiete nell'attesa che il compimento di uno scientifico quanto fantomatico ciclo evolutivo le innalzasse allo stesso livello di quelle del Nord.
Negli stessi anni veniva documentato - per la prima volta in maniera scientifica e rigorosa - il sacrificio economico che il Sud aveva dovuto sopportare a vantaggio dello sviluppo industriale del Nord: tasse maggiori e investimenti scarsissimi proprio dove c'era più bisogno di interventi organici e decisi. Nel rapporto tra contribuzione media per abitante e spese dello Stato è evidente un terribile squilibrio a sfavore del Sud che precisa i termini della Questione meridionale ben al di là delle elucubrazioni pseudofilosofiche del Lombroso o del Niceforo.

ALCUNI DATI DAL BILANCIO STATALE DEL 1894-1899:

SICILIA E PUGLIA CONTRIBUTI DA 20 A 30 LIRE - INVESTIMENTI DA 10 A 20 LIRE
BASILICATA '' '' 15 '' 20 '' '' MENO DI 10 LIRE
LIGURIA '' OLTRE 50 LIRE '' OLTRE 70 LIRE



NOVECENTO

La politica interna del
Giolitti fu caratterizzata da una strategia dell'attenzione verso le istanze popolari.
Anche il Mezzogiorno risentì favorevolmente del notevole sviluppo delle organizzazioni sindacali ed operaie guidate dal Partito Socialista: cominciava a maturarsi anche nelle classi contadine una certa qual coscienza politica; il potere centrale inverte la tendenza della propria politica assurdamente repressiva di scioperi manifestazioni e i proprietari sono costretti a qualche - pur minima - concessione nei riguardi dei braccianti.
I liberali invocavano una riforma tributaria: "
La verità è - scriveva anche un moderato come F. S. Nitti - che l'Italia meridionale ha dato dal 1860 assai più di ogni altra parte d'Italia in rapporto alla sua ricchezza; che paga quanto non dovrebbe pagare; che lo Stato ha speso per essa, per ogni cosa, assai meno, e che vi sono alcune province in cui è assenteista per lo meno quanto i proprietari di terre".
Negli stessi anni nel Nord si assiste di conseguenza ad un eccezionale incremento della produzione industriale: tra il 1896 ed il 1908 il tasso annuo è del 6,7%, quella politica protezionistica che era stata imposta col crisma della provvisorietà mette radici con uno svantaggio sempre più grave per l'economia meridionale inchiodata ad uno stato di terribile sottosviluppo.
La denuncia del De Viti De Marco di questa assurda sperequazione spinge G. Salvemini a riprendere il problema del rapporto politico- amministrativo tra il Sud e Roma vedendo nella politica accentratrice una delle cause principali dell'inferiorità del Sud. Una soluzione di tipo federalista -
sostiene il Salvemini - avrebbe certamente favorito ben altrimenti il decollo economico del Sud a scapito di quelle stesse sperequazioni e prevaricazioni sottolineate dal De Viti De Marco; solo nelle autonomie locali può esserci speranza di riscatto.
Al discorso di
Salvemini si opponevano, però, tutti quelli che ritenevano che una politica delle autonomie locali non avrebbe fatto altro che accentuare la disgregazione politica e sociale del Mezzogiorno che si manifestava già in forma emblematica nell'infiltrazione mafiosa nell'apparato amministrativo, destinata purtroppo a perpetuarsi nel tempo anche senza la concessione di autonomie locali: la vita politica meridionale andava cioè allontanandosi sempre più dai modelli democratici per il prevalere del clientelismo mafioso e camorrista sugli interessi della collettività.
I Socialisti furono tra i primi a porsi il problema della corruzione politica locale nel Mezzogiorno e a prospettare la necessità di far nascere una coscienza di classe tra la popolazione favorendo la maturazione politica delle masse contadine.
Il tentativo, però, data la totale assenza della mentalità d'impresa (il riferimento non è l'imprenditore ma il politico) era destinato ad imbattersi in due ostacoli pressoché insormontabili: l'opposizione decisa e intransigente dei proprietari terrieri e l'innato individualismo della popolazione meridionale "massa amorfa, manovrata in una direzione o nell'altra a seconda delle esigenze del momento, da abili mestatori politici" (Nitti).

Il fenomeno del
Laurismo e del Gavismo, anche se molto più recenti, troveranno una spiegazione anche in queste osservazioni di Nitti e ancor più e ancore meglio in quelle pagine di Salvemini e, soprattutto, di A. Gramsci nelle quali si ritrova un terribile atto di accusa per i metodi elettorali del periodo giolittiano. Per il "ministro della malavita" i voti del serbatoio meridionale erano troppo importanti perché egli si ponesse il problema dei mezzi con cui venivano accaparrati come nel caso delle elezioni del 1911 che introdussero atmosfere e sistemi tipicamente fascisti in uno Stato che fascista ancora non era.
Anche dopo la riforma elettorale del 1912 - che pure fu una grande conquista democratica- la situazione non cambiò. Il Salvemini criticò il partito Socialista che preferì occuparsi quasi esclusivamente del proletariato industriale del Nord e non dei contadini del Sud, quando se ne allontanò per fondare l'Unità sulle cui pagine continuò la sua coraggiosa battaglia meridionalista.
La corruzione e il clientelismo di questo periodo - pur se aspetti umilianti - non furono i più gravi in quanto si aggiunse il triste fenomeno dell'emigrazione: oltre 4 milioni dal 1900 al 1911.
Il fenomeno dell'emigrazione con le sue rimesse economiche, l'alleggerimento della manodopera e le aperture a nuove culture da parte liberale - con le voci di Fortunato e Nitti - veniva visto come un concreto passo avanti per il riscatto del Meridione, come un opportuno mezzo per mantenere il precario ordine sociale nel Sud, che voleva uscire dalla sua situazione disgraziata per cui la scelta era tra l'emigrazione o divenire fuorilegge; l'emigrazione, quindi, tranquillizzava la borghesia.
In antitesi, Salvemini: "
l'emigrazione è un effetto, non un rimedio: è il mezzo che hanno trovato i contadini meridionali per sottrarsi al male, non è la fine del male. Senza dubbio l'emigrazione corregge alcuni di questi malanni … : spinge, per esempio, i contadini verso la scuola: li sveltisce intellettualmente al contatto di civiltà superiori … ma non rimboschisce i terreni rovinati: non elimina la malaria: non corregge i nostri soffocanti sistemi tributari e doganali: non rende migliori le classi dirigenti …".
Ben presto il mito del contadino emigrante si evolverà in quello che va a coltivare i territori italiani conquistati: il meridionalismo darà, perciò, la mano al colonialismo; ma anche in questa situazione, perpetuando gli squilibri della madrepatria, saranno gli imprenditori del Nord a trarre i maggiori profitti.
Tutto ciò mostrava ancora una volta quanto fosse vana una soluzione - non sottesa da una forte ed onesta volontà politica - puramente spontanea e meccanicistica della Questione Meridionale.

Dopo l'intervento nella Grande Guerra (dal 1915), il Governo italiano si trovò nella condizione di dover chiedere altri sacrifici ai contadini meridionali, di mandare al fronte cioè chi già aveva mostrato di non avere alcun interesse per quell'avventura, anzi di essere apertamente contrario ad essa.
Il capo del governo non poteva far altro che far leggere, per bocca dei loro ufficiali (di complemento, essi erano proprio i figli dei proprietari terrieri) ai soldati al fronte questa dichiarazione: "Dopo la fine vittoriosa della guerra, l'Italia compirà un grande atto di giustizia sociale. L'Italia darà la terra ai contadini, con tutto il necessario perché ogni eroe del fronte, dopo aver valorosamente combattuto in trincea, possa costituirsi una situazione di indipendenza. Sarà questa la ricompensa offerta dalla patria ai suoi valorosi figli".
Si trattava di un sistema chiaramente ricattatorio, e infatti - a guerra finita - tante belle promesse saranno presto dimenticate e i contadini si troveranno costretti a subire le terribili violenze delle squadracce fasciste sovvenzionate dai grandi proprietari terrieri: il fascismo, infatti, era anche espressione della necessità di ricorrere alla violenza per conservare integro e solidale il blocco storico di industriali ed agrari.
Nell'immediato dopoguerra si inserisce nella discussione meridionalistica una nuova voce fortemente polemica nei confronti del tradizionale meridionalismo riformistico, quella di Antonio Gramsci che, riprendendo e portando a compiuta e cosciente elaborazione una tesi già espressa da Salvemini, sostiene che all'alleanza tra agrari e industriali a sostegno del fascismo ormai già parzialmente al potere che finirà col mantenere il Mezzogiorno nella sua spaventosa situazione di sottosviluppo, non si può opporre altro che l'impegno unito degli operai e dei contadini: solo "le due energie della rivoluzione proletaria" possono prospettare una possibilità di redenzione al Mezzogiorno e all'Italia tutta.
È il primo prospettarsi di un impegni meridionalista non puramente riformista ma totalmente rivoluzionario inserito nell'esame scientifico della società a capitalismo industriale.
Negli stessi anni sulle pagine della "Rivoluzione Liberale" G. Dorso si riallaccia non tanto alla tesi gramsciana quanto a quella del Salvemini nel prospettare un esame della Questione che vada al di là dei termini regionali per inserirsi nei termini stessi della questione sociale italiana che potrà essere risolta solo impostando un processo "rivoluzionario" nel Mezzogiorno che restituisca alla lotta politica la propria funzione dialettica.
Ma, intanto, i grandi proprietari terrieri, impauriti dalle recenti occupazioni delle terre, dagli scioperi e dalle proteste dei cafoni, si gettarono nelle braccia del fascismo sostenendo quel regime che tutelava largamente i loro interessi. Col fascismo, perciò, le organizzazioni contadine furono private anche delle pur minime conquiste nel periodo giolittiano che moderavano profitti e privilegi dei proprietari.
Il fascismo accentuò il protezionismo e promosse la battaglia del grano non per una soluzione dei problemi del Sud (anzi negativa perché limitò colture più remunerative) ma per una sorta di autosufficienza in caso di guerra (autarchia).
Anche la politica della bonifica integrale - che pure non era priva a monte di spinte sociali - fu ben presto ridimensionata rispetto agli ambiziosi programmi iniziali per non interferire con gli interessi dei possidenti e latifondisti che vedevano in pericolo i loro privilegi.
Tutto ciò che il fascismo seppe offrire ai contadini furono le terre dello "Impero" dove poter emigrare e veder perpetuarsi l'opera di sfruttamento del soliti speculatori.
I
ntanto, però, il tono paternalistico della retorica mussoliniana non mancava di procurarsi simpatie nel Mezzogiorno (perlomeno fino alla scoppio della guerra) e nel 1936 nella voce relativa della "Enciclopedia Italiana" si poteva affermare che la Questione meridionale, una volta inserita nell'ambito della politica colonialistica del regime, era stata risolta attraverso l'espansione imperiale in cui tutte le questioni particolari trovavano la loro soluzione.
Ma proprio in pieno regime fascista la Questione continua ad essere oggetto di discussioni rigidamente scientifiche, e per questo valide ed interessanti, da parte di quei meridionalisti che si riallacciavano al Salvemini.
Nel 1924 sulla
"Rivoluzione liberale" - il giornale di P. Gobetti - appare un "Appello ai Meridionali" nel quale G. Dorso e T. Fiore negano ogni possibilità di risolvere la Questione con interventi e riforme episodiche da parte del Governo. La "rivoluzione meridionale" si realizzerà solo quando, in seguito al decentramento amministrativo, masse più mature educate e politicamente coscienti dei propri diritti saranno in grado di esprimere una classe dirigente efficiente e democratica e di assumersi, perciò, in prima persona l'iniziativa del riscatto sociale ed economico.
Ancora più avanzata la posizione di Gramsci: è compito del proletariato del Nord la lotta contro il capitalismo industriale che, una volta sconfitto, non potrà non liberare anche la plebe rurale dalle angherie e prevaricazioni dei proprietari terrieri. All'alleanza già un tempo operante fra sfruttatori del Nord e del Sud si può opporre solo un'alleanza fra i ceti sfruttati volta a superare la ormai annosa contrapposizione tra le due Italie.
La prospettiva, però, nella quale la tematica gramsciana viene presentata è finalmente nuova: non si tratta più di chiamare a raccolta gli uomini di buona volontà per il trionfo di una giusta causa né delle dotte ma sterili trattazioni dei De Viti e compagni, si tratta finalmente di assegnare alla classe operaia il compito di spezzare il corporativismo agrario sulla base dell'interesse che esso ha in comune con il contadino, di lottare contro la "vecchia macchina camorristica che, in ultima analisi, opprime in egual modo tutto il proletariato".
La fine del fascismo mostra come - per le regioni meridionali in particolare - i vecchi problemi anziché risolti sussistevano ingigantiti dalle devastazioni belliche e dalla triste realtà della guerra civile.

I termini della Questione - deformati da vent'anni di regime in senso demagogico e paternalistico - riappaiono con evidenza addirittura violenta.
Nel dicembre del '44 il Partito d'Azione organizza a Bari un convegno sui problemi del Mezzogiorno presieduto da A. Omodeo per discutere i problemi dei rapporti fondiari e dell'industrializzazione. Nella loro relazione G. Dorso e M. Rossi Doria pongono in via preliminare l'esigenza di una programmazione e ripropongono come momenti di riforma su cui porre l'accento il decentramento amministrativo, un'ampia riforma agraria, l'esigenza di industrializzazione del Sud.
U
n mese dopo le forze sindacali - riunite nel Congresso unitario di Napoli - in prospettiva gramsciana esprimono la volontà di impegnarsi in una battaglia decisa per il Mezzogiorno consacrando l'unità d'intenti e di lotta tra i lavoratori del Nord e contadini del Sud.
Anche il Governo De Gasperi - dopo una fase interlocutoria in cui aveva ritenuto di non intervenire nel processo di sviluppo economico del paese - avverte finalmente - in seguito all'acuirsi delle tensioni sociali - come sia necessario riequilibrare, o almeno tentare di riequilibrare i rapporti fra le classi e fra le varie regioni italiane.

Dal 1950 in avanti tutti i governi si sono impegnati nel tentativo di ridurre il divario Nord/Sud, ma se il Mezzogiorno ha conosciuto uno sviluppo economico maggiore che nel passato e il suo tenore di vita si è elevato, neppure stavolta ha tenuto il passo con il Nord. Il più grave dei suoi malanni , la sottoccupazione, non è andata assolutamente attenuandosi nonostante l'incremento del tasso d'emigrazione (che ha comportato pure l'esodo di energie preziose che poi fanno difetto in loco) e adesso è ancora meno sopportabile di un tempo.

Tra il 1949 1951 prende finalmente
avvio la riforma agraria: si espropriano così centinaia di migliaia di ettari incolti assegnati a contadini poveri nel tentativo di veder nascere quella classe di contadini proprietari la cui carenza era stata una delle cause del sottosviluppo meridionale.
In problema, quindi, fu affrontato in maniera abbastanza seria, il costo della riforma fu però molto elevato (i proprietari delle terre espropriate vennero compensati con titoli di stato al 5%) e i vantaggi - in rapporto alla gravità dei problemi dell'economia meridionale - risultarono in definitiva non adeguati. Migliorò per molti il tenore di vita, aumentò nelle terre di riforma il rendimento dei terreni ma "l
a parte - come scrive il Clough - della popolazione assistita dalla riforma fu soltanto un po' più numerosa dell'aumento della popolazione in ciascuno degli anni dell'immediato dopoguerra, e ciò che i contadini ottennero fu generalmente un miglioramento delle condizioni di lavoro piuttosto che un allargamento delle possibilità di impiego". In realtà i contadini ottennero appezzamenti piccolissimi e in generale il loro tenore di vita subì miglioramenti non decisivi.

Nel
1950 nasce anche la Cassa per il Mezzogiorno per superare e integrare il vecchio sistema di interventi statali. Essa si imbatté in notevoli difficoltà determinate da una mancanza di coordinamento tra gli interventi della Cassa e quelli dei vari ministeri che - unito alle pastoie camorristiche e clientelari - finisce per bloccare del tutto gli interventi e a creare solamente terreno di pascolo per qualsiasi tipo di speculazione.
Inoltre, l'industrializzazione delle aree depresse e la politica dei
"poli di sviluppo" non portano ad altro che ad una nuova colonizzazione del Mezzogiorno da parte del capitalismo in ceca di nuovi sbocchi, ma priva naturalmente le stesse aree di un autonomo sviluppo autonomo. Bisognerebbe, quindi, invertire questa tendenza a mettere le popolazioni del Sud nella condizione di agire esse stesse per il rinnovamento sociale e il progresso economico attraverso la rimozione delle cause politiche ed economiche della Questione meridionale.

Nel 1957 nasce infine il
Ministero per le Partecipazioni Statali che ha il compito di dirottare al Sud il 60% degli investimenti delle aziende pubbliche che controlla. Questo intervento dà, però, risultati limitati tanto è vero che è accompagnato da un'impennata del tasso di emigrazione: all'inizio degli anni '60 circa due milioni di persone abbandonano il Sud per correre nel "triangolo industriale" dietro il miraggio di un posto di lavoro: gli stessi anni del "miracolo economico" assistono all'ennesimo mancato decollo dell'economia meridionale condizionato pur sempre dal prevalere dell'interesse capitalistico borghese su quello collettivo.
La disgregazione sociale del Sud continua ad essere strumentalizzata e proprio a vantaggio dell'ideologia reazionaria:
la rivolta di Reggio - Battipaglia - Caserta e l'attecchire del neofascismo nelle regioni meridionali ne sono la prova più cruda ed emblematica.

A
ll'inizio degli anni Settanta il meridionalismo marxista (al di fuori delle posizioni ufficiali del PCI), prendendo spunto dalle tesi sul sottosviluppo di Baran, Gunder Frank, Samir Amin, Jalée ed altri, ha cercato alquanto di prendere le distanze non solo dalle interpretazioni democratico- borghesi del Dorso e del Salvemini ma anche da tutta l'impostazione data alla Questione A. Gramsci che, nell'immediato dopoguerra, lo aveva influenzato in maniera decisiva.
L'inutilità di tutti gli sforzi (apparenti) fatti dallo Stato per eliminare o ridurre il gap spaventoso tra Nord e Sud d'Italia ha fatto sorgere tutta una letteratura dovuta alla Nuova Sinistra che ha cominciato a battere sul concetto di funzionalità del sottosviluppo allo sviluppo e sulla scelta del governo borghese di indirizzare le politica meridionalistica sulla base di una dinamicizzazione del sottosviluppo e mai su seri tentativi di eliminare lo stesso, tentativi che (se realizzati) avrebbero richiesto un'impostazione di politica economica assolutamente non funzionale agli interessi della classe dominante capitalistico- borghese tutta tesa all'utilizzazione della forza lavoro per l'accaparramento del plusvalore.

V. Parlato e F. De Felice hanno riproposto di recente in chiave moderna le tesi di Gramsci sulla Questione facendo dello scrittore sardo un precursore delle moderne teorie sul sottosviluppo che sostengono come l'arretratezza non sia dovuta alla mancanza di uno sviluppo capitalistico di società rimasta ad uno stadio precapitalistico e quindi semifeudale, ma sia l'altra e necessaria faccia dello sviluppo del capitale.
Questo tipo di "rilettura" va però respinto in quanto non giustificato a livello propriamente filologico, mentre va approfondita la possibilità di spiegare l'origine dello sviluppo e quindi della Questione in Italia di moderne teorie basate sul concetto di funzionalità (del sottosviluppo alla sviluppo), valido anche sul piano generale per spiegare altre situazioni (apparentemente anomale) di sottosviluppo e colonialismo come ad esempio in America Latina.
La
tesi di Gramsci (poi ufficializzata dalla sinistra italiana) si basa sul presupposto di uno sviluppo precapitalistico e su una organizzazione semifeudale dei rapporti economici nel Mezzogiorno al momento dell'Unità, dove, essendo l'industrialismo "la parte essenziale del capitalismo", è automatico considerare il Sud come un paese precapitalistico mancando di borghesia e quindi di capitalismo: i "contadini" (meridionali) sono qualcosa di ben diverso dal proletariato agricolo riscontrabile solo dove è avvenuta una trasformazione dell'agricoltura, ovvero nella valle padana; gli agrari meridionale, poi, sono una cosa diversa dai capitalisti settentrionali anche se ad essi alleati. Nasce da queste premesse l'ipotesi sul blocco tra capitalismo e agrari (operante) e tra proletari e contadini (da opporre ad esso). L'errore gramsciano consisterebbe, perciò, nell'equazione industrialismo/capitalismo in conseguenza della quale dove manca o è carente l'industrializzazione non può esservi capitalismo o agricoltura capitalistica. Gramsci aveva, cioè, una visione parziale del capitalismo che invece (essendo utilizzazione di forza lavoro ai fini del profitto o plusvalore) utilizza l'agricoltura come l'industria; dove domina il principio dello sfruttamento per il profitto può aversi perciò affermazione del capitalismo anche in assenza parziale o totale dell'industrializzazione.
La conseguenza politica dell'errore gramsciano è, quindi, nel considerare le masse contadine del Sud incapaci di organizzarsi, fornite di un notevole potenziale rivoluzionario che non può però esplicitarsi senza l'intervento di una forza esterna: il proletariato del Nord.

La
Nuova Sinistra, quindi, una volta prese le distanze dalle premesse gramsciane, può rigettare la tesi del Sud come società arretrata e semifeudale asservita ad una società di tipo capitalistico applicando il principio della dialettica sviluppo/sottosviluppo "nell'ambito di uno spazio economico unitario dominato dalle leggi del capitale".

Al momento dell'Unità il divario Nord/Sud era inesistente o irrilevante per cui è stata solo la politica del nuovo Stato unitario (piemontesizzazione) a porre la borghesia del Nord in situazione di privilegio e quindi di preminenza.

A. Carlo e E. M. Capecelatro tra gli altri hanno posto in rilievo (nell'abbrivo dello studio di Baran) come "la dialettica sviluppo/sottosviluppo non si instauri tra due realtà estranee o genericamente collegate, ma presuma uno spazio economico unitario dove lo sviluppo è il rovescio del sottosviluppo che gli è funzionale".




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