Eduardo Ambrosio


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ARRIVO DEI FRANCESI

STORIA > 1799 REPUBBLICA NAPOLETANA > GLI EVENTI

ARRIVO DEI FRANCESI

SOMMARIO:
- SPEDIZIONE FRANCESE NEL REGNO DI NAPOLI.
- FUGA DI FERDINANDO IV.
- TREGUA DI SPARANISE.

- LA PLEBE PADRONA DI NAPOLI.
- I PATRIOTTI A CASTEL S. ELMO.
- RESISTENZA DEL POPOLO NAPOLETANO CONTRO I FRANCESI.
- PROCLAMAZIONE DELLA REPUBBLICA NAPOLETANA. IL GOVERNO PROVVISORIO.
- CARATTERE DELLA RIVOLUZIONE NAPOLETANA.
- I PATRIOTI IL POPOLO E LO CHAMPIONNET.
- ORDINAMENTO DELLE PROVINCE.
- CONTRIBUZIONE MILITARE E IL COMMISSARIO FAYPOULT.
- MALCONTENTO VERSO I FRANCESI E IL GOVERNO PROVVISORIO.
- RICHIAMO DELLO CHAMPIONNET.
- IL MACDONALD.
- DEPUTAZIONE NAPOLETANA IN FRANCIA.
- CONTRASTI FRA IL MACDONALD E IL GOVERNO PROVVISORIO.
- MISSIONE SEGRETA DI CESARE PARIBELLI - ANDREA ABRIAL.
- LE UNIONI REALISTE - LA COSPIRAZIONE DEL BACCHER.
- LA RIFORMA DELL'ABRIAL.
- PROVVEDIMENTI CIVILI E MILITARI DEL GOVERNO PROVVISORIO.


SPEDIZIONE FRANCESE NEL REGNO DI NAPOLI.


Il 19 dicembre1798 lo Championnet, dopo avere imposto alla città una taglia di centomila scudi, lasciava Roma e iniziava la marcia verso il Regno di Napoli. L'esercito france-se, forte di circa trentamila uomini, fu diviso in cinque colonne: tre, quelle comandate dallo Championnet, dal Macdonald e dal Mathieu, per vie diverse puntarono su S. Germano, dove si congiunsero il 30 dicembre per proseguire alla volta della capitale; le altre due invasero l'Abruzzo di cui una, capitanata dal Lemoine, occupava, dopo una lunga lotta Aquila e Popoli, l'altra, agli ordini del Duhesme, occupava Civitella del Tronto, Pescara e Chieti. Negli Abruzzi i Francesi non incontrarono che scarsissima resistenza da parte delle milizie regolari napo-letane, ma trovarono un forte ostacolo nelle popolazioni, le quali, rispondendo all'appello lanciato dal sovrano, spinte dal desiderio di vendicare le violenze commesse dal nemico nei primi giorni dell'invasione, stimolate da sentimento religioso e nazionale ed eccitate da preti e frati, si levarono in armi e iniziarono una spietata guerri-glia contro i Francesi, causando a questi gravi perdite e spronando con l'esempio le regioni vicine alla resistenza o alla rivolta.
Ma la guerriglia degli Abruzzesi, per quanto fosse condotta con valore, non poteva arrestare la marcia delle truppe repubblicane. Ben lo sapeva il generale Mack, che, il 18 dicembre, scriveva dal suo quartier generale al re di porsi in salvo non essendovi più speranza di fermare il nemico. La lettera del generalissimo mise in subbu-glio la popolazione della capitale. Per tre giorni consecutivi la plebe si mise a rumoreggiare e, accalcatasi intorno al palazzo reale, supplicava il sovrano affinché non abbandonasse la città, dicendosi pronta a difenderlo. Il parossismo del popolo giunse a tal grado che un corriere di gabinetto, certo Antonio Ferreri, scambiato per una spia francese, fu catturato, linciato, trucidato e trascinato sotto le finestre della Reggia dalla plebe furente che si calmò solo quando Ferdinando e Maria Carolina promisero di rimanere in mezzo ai loro fedeli sudditi.

FUGA DI FERDINANDO IV.

Ma i sovrani non avevano proprio nessuna intenzione di restare a Napoli. Infatti, nel frattempo avevano posto in salvo su alcune navi le opere più pregevoli delle gallerie e dei musei, i gioielli della corona e il denaro dei banchi per un valore di oltre settantadue milioni. Nella notte dal 21 al 22 dicembre, pas-sando per un sotterraneo, s'imbarcarono sulla "Vanguardia", la nave ammiraglia del Nelson. La mattina seguen-te, sparsasi la notizia dell'imbarco dei Sovrani, tutti i corpi civici mandarono sulla nave deputati a pregare il re che ritornasse in città; ma Ferdinando non si piegò e, affidata l'autorità di vicario generale al principe Francesco Pignatelli di Strongoli e impartiti gli ultimi ordini per la difesa al Mack chiamato apposta dal quartier generale, il giorno 23, accompagnato dagli ambasciatori austriaco e inglese e da un largo seguito, fece vela per Palermo, nel cui porto giunse la sera del 25 dicembre dopo una traversata faticosa, durante la quale perdette l'infante Don Alberto, suo terzogenito. I Siciliani non erano ben disposti verso il loro sovrano, che proprio nel corso dell'anno aveva tentato di violare l'antica costituzione dell' isola imponendo un donativo straordinario di duecentocinquantamila lire al mese per tutta la durata della guerra; tuttavia, quando videro sbarcare il loro re, affranto dal dolore, e udirono la regina che con voce di pianto diceva: "Ci volete fra voi, figli miei?" dimenticarono i torti ricevuti e offrirono il loro sangue e le loro sostanze per difendere il trono. Mentre Ferdinando veniva accolto calorosamente Sicilia il Principe Pignatelli si preparava a costituire una milizia urbana e prendeva quei provvedimenti che gli sembravano utili a mantener l'ordine in una città minacciata dal nemico, abbandonata dal sovrano e agitata da contrarie passioni; ma fin dai primi giorni fu costretto a lottare contro gli "Eletti", rappresentanti della nobiltà e del popolo, che, invitati a collaborare con lui, volevano prima unirsi nel governo ma poi finirono con lo schierarsi contro, appoggiando (opportunisticamente) chi stava per vincere! (come avevano fatto a Venezia, nominati subito dal popolino "calabrache" e il banchiere Ippomanno precisò "essendo noi una nullità lo dobbiamo fare per poter tenere tutto quello che abbiamo"). Continuavano intanto le operazioni di guerra. Il 3 gennaio il Macdonald si spinse con una brigata fin sotto Capua e diede l'assalto ad un campo trincerato difeso da seimila uomini sulla destra del Volturno, ma fu respinto dai tiri ben diretti delle artiglierie dei bastioni; tentò allora di passare il fiume a Cajazzo, ma, fu ricacciato dalla cavalleria comandata dal colonnello Lucio Caracciolo, lasciando sul campo quattrocento tra morti e feriti e un centinaio di prigionieri. Questi successi dei Napoletani furono però annullati dalla perdita di Gaeta, che con il suo presidio di quattromila soldati, con i suoi settanta cannoni di bronzo e dodici mortai e le provviste per un anno, avrebbe potuto sostenere un lungo assedio e invece si arrese a discrezione alle prime cannonate per la viltà del senile maresciallo svizzero Tschudi che ne aveva il comando. Intanto in mezzo a gravi difficoltà procedevano le operazioni negli Abruzzi. La rivolta si era propagata nella Terra di Lavoro e nel Molise; le bande crescevano di numero e in audacia: avevano preso Teramo, sconfitto un reggimento francese sul Tronto, catturato alcuni cannoni, distrutto un ponte sul Garigliano, portato via un parco di riserva al nemico, occupato Sessa, Teano, Itri, Aquila, Castelforte, Fondi, S. Germano. Se il generale Mack avesse messo in campo tutte le sue forze, senza dubbio i Francesi sarebbero stati ridotti a mal partito; invece non seppe trarre profitto dalla rivolta e mostrò la propria inettitudine chiedendo a più riprese la tregua e non mantenendo i dovuti contatti con il principe Pignatelli. Il quale,osteggiato dagli Eletti e privo del favore popolare, pur di uscire dalla difficile situazione in cui si trovava, era disposto a venire a patti con il nemico.

TREGUA DI SPARANISE.

Lo Championnet era a Venafro quando si presentarono a lui, inviati dal Vicario genera-le, il principe di Migliano e il duca di Gesso. Iniziate subito le trattative, queste condussero alla Tregua di Spara-nise, firmata il 12 gennaio del 1799, con la quale la guerra fu sospesa per due mesi, Capua, Acerra e Benevento furono cedute ai Francesi con il territorio che andava fino ad una linea le cui estremità erano segnate dalla foce dei Regi Lagni e quella dell'Ofanto e del Lombardo, si dichiaravano neutrali i porti del Regno e il governo regio, ci s'impegnava di pagare alla Francia dieci milioni di lire tornesi, metà al 15 e metà al 25 gennaio. La notizia dell'ignominiosa tregua appena si sparse a Napoli mise in fermento la plebe, che accusava il vicario di tradimento.

LA PLEBE PADRONA DI NAPOLI.

Il fermento diventò tumulto quando la sera del 14 gennaio, giunse l'Arcambal, commissario francese incaricato di riscuotere il giorno dopo i primi cinque milioni. La plebe, credendo che fosse venuto a prendere possesso della città, circondò minacciosa l'albergo in cui aveva preso alloggio, ma non avendolo potuto avere tra le mani perché il Pignatelli l'aveva fatto partire di nascosto, assalì le case del principe di Migliano e del duca di Gesso e disarmò la milizia. Il giorno dopo il tumulto aumentò di intensità: la plebe, sorda alle ammonizioni del Cardinale arcivescovo Capece (che da un lato si faceva vedere pacificatore dall'altro incitava alla rivolta), percorse le vie al grido di "Viva la Santa Fede ! Viva S. Gennaro ! Morte ai Giacobini !" quindi andò al porto a saccheggiare le navi giunte proprio in quel momento da Livorno con parte delle truppe del Naselli, aprì le carceri da cui uscirono seimila malfattori che, unitisi alla folla, si diedero ad ogni sorta di violenze e a far rapine nelle case, infine occupò gli arsenali e i castelli facendosi consegnare le armi dai presidi. Padroni della capitale, i Lazzaroni mossero verso Casoria per togliere il comando al generale Mack. Questi si era avvicinato alla città per esortare i ribelli alla calma ma, quando vide che, ormai senza freno, anche contro di lui era rivolta l'ira irrazionale popolare, rifugiatosi in una casa indossò la divisa austriaca e il 16 gennaio si recò dallo Championnet, dal quale ricevette un passaporto; sperava di raggiungere il territorio austriaco; invece a Bologna venne arrestato e quindi mandato a Digione come prigioniero di guerra. II generale Salandra, a cui il Mack aveva lasciato il comando, cercò di riordinare l'esercito, ma non vi riuscì; molti soldati si sbandarono, molti altri fecero causa comune con i popolani, e il generale stesso, assalito con parecchi ufficiali da una banda di Lazzaroni tra Caivano e Casoria, fu ferito gravemente. Il 16 gennaio la plebe acclamò generale del popolo il colonnello Girolamo Pignatelli di Moliterno, che si era distinto combattendo a capo della cavalleria napoletana, nel 1794, contro i Francesi in Lombardia. Gli "Eletti", riuniti a S. Lorenzo Maggiore, gli confermarono la nomina ed elessero a loro volta, come generale in sott'ordine, un altro prode, il colonnello Lucio Caracciolo che aveva sconfitto il Macdonald a Cajazzo; quindi inviarono una deputazione al vicario generale ingiungendogli di rassegnare il potere se non voleva che glielo strappassero con la forza. Il vicario, che ormai aveva perso ogni autorità, mise in salvo sopra una fregata, tutto il denaro che aveva in custodia e la notte del 16, si imbarcò segretamente e fece vela per Palermo, ma dove, appena giunto, fu incarcerato per ordine di Ferdinando IV. Fuggito il vicario, il Moliterno si adoperò a fare tornare la calma nella città; fece sì che la custodia dei quattro principali castelli fosse affidata a patrizi (il Castel Nuovo a D. Giambattista Caracciolo di Vietri, quello di S. Elmo a D. Nicola Caracciolo di Roccaromana, quello del Carmine a D. Fabio Caracciolo dei principi di Forino e quello dell' Uovo a D. Luigi Muscettola dei principi di Luperano), ordinò alla plebe la restituzione delle armi, minacciò i facinorosi di severissime punizioni; e perché si costatasse che faceva sul serio e che le sue non erano vane minacce fece rizzare in anticipo le forche. Nel frattempo il governo prendeva vari provvedimenti per l'annona, per la zecca, per il tesoro e per il porto e cercava di indurre i Francesi a concludere una pace onorevole. A tale scopo il 18 gennaio mandava allo Championnet una deputazione per farlo desistere dal proposito di entrare a Napoli e confermare i patti della tregua; ma il generale francese che, considerando rotto l'armistizio, era avanzato fino ai sobborghi della capitale, rispose - "È forse vincitore il popolo napoletano e vinto l'esercito francese? ". L'infelice esito di questa missione esasperò la plebe. Non curandosi delle raccomandazioni e degli ordini di Girolamo Pignatelli e di Lucio Caracciolo, che già cominciavano ad accusare di tradimento, i Lazzaroni ricominciarono a tumultuare, abbatterono le forche e la sera dello stesso giorno 18 s'impadronirono nuovamente delle armi che avevano poco prima restituite. Il giorno 19 acclamarono loro capi due popolani, un Paggio mercante di farine un certo Michele Marino detto " ò pazzo ", servo di un vinaio; quindi uscirono confusamente dalla città con il proposito di dare battaglia ai Francesi. Un piccolo presidio nemico, che guardava il Ponte Rotto, fu sbaragliato, ma oltre il fiume Lagni i Francesi affrontarono i Lazzaroni e li costrinsero a tornare in disordine nella città, dove la plebe si diede a febbrili preparativi e a fare barricate per sbarrare la via al nemico. Ma non tutti erano animati da sentimenti patriottici; molti desideravano pescare nel torbido, altri bramavano estinguere la loro sete di sangue. Corse voce che il Duca della Torre fosse in segreto rapporto epistolare con lo Championnet, e bastò quella voce e subito una turba inferocita corse al suo palazzo incendiandolo. Il duca della Torre e il fratello Clemente Filomarino furono catturati, condotti alla Marina della Strada Nuova legati a un palo e bruciati vivi. Dopo questo fatto la plebe corse alla casa di Nicola Fasulo, dove di solito si adunava il Comitato Centrale dei Patrioti, ma vi giunse quando Nicola e il fratello erano fuggiti. Cercarono l'elenco dei Patrioti, ma la sorella dei Fasulo l'aveva dato già alle fiamme; trovarono invece una cassa piena di coccarde francesi e questo bastò perché la casa venisse saccheggiata e poi incendiata. Per salvare Napoli dall'anarchia in cui era caduta, la sera del 19 il Cardinale arcivescovo fece esporre in Duomo la testa e il sangue di S. Gennaro poi uscì in processione per le vie, seguito da un numeroso codazzo di fedeli tra cui si notava Girolamo Pignatelli di Moliterno in veste da penitente. La vista del "capitano del popolo", scalzo, con i capelli disciolti e in atteggiamento di umiltà, commosse i ribelli. Quando, verso la mezzanotte, la processione ritornò in chiesa, il Pignatelli rivolse al popolo accorate parole di fede, interrotte spesso da singhiozzi, e disse di sperare nella protezione del Santo Patrono, esortò tutti a tornare nelle proprie case e a trovarsi la mattina seguente nella piazza di S. Lorenzo da dove si sarebbero poi mossi per andare ad affrontare l'esercito francese. Il giorno dopo i Lazzaroni si trovarono nel luogo stabilito e, presi dai castelli alcuni cannoni, uscirono dalla città in disordine ma pieni di esaltazione pronti a dare battaglia al nemico. Nell'irruenza travolsero al primo assalto le grandi guardie prese alla sprovvista, poi assalirono furiosamente il campo francese posto tra Avella e Capua; ma il loro caotico entusiasmo si spezzò di fronte alla disciplina del nemico, che dopo un ricompattamento e una breve mischia li costrinsero a ritornare precipitosamente a Napoli.

I PATRIOTTI A CASTEL S. ELMO.

Mentre i Lazzaroni si trovavano fuori della città per assalire i Francesi, i patrioti napoletani, segretamente favoriti da Girolamo Pignatelli e da Lucio Caracciolo, portavano a termine un'audace impresa. Trentuno di loro, tra cui notiamo Vincenzo Pignatelli di Strongoli, Vincenzo Pignatelli dei principi di Marsico, Vincenzo e Giuseppe Viario dei duchi di Corleto, Leopoldo Poerio, Gaetano Simone, Antonio Napole-tano, Giuseppe Laghezza, Francesco Grimaldi, Raffaele Fargo, Antonio Sicardi, Alfonso Prato e Nicola Verdinois, travestiti ed inermi, sotto pretesto di rafforzar la guarnigione durante la sortita del popolo, s'introdussero a Castel Sant' Elmo, presidiato da centocinquantotto tra soldati e Lazzaroni capitanati da un certo Luigi Brandi. Il comandante del forte, D. Nicola Caracciolo, che era d'accordo con i patrioti, mandò fuori la maggior parte della guarnigione, formando due ronde di vigilanza, quindi disarmò con uno stratagemma gli altri, fece legare e chiudere in una prigione il Brandi e ordinò che fossero chiuse le porte affinché gli usciti non potessero più rientrare. Impadronitisi, senza spargimento di sangue, dell'importantissimo castello, i patrioti issarono una bandiera tricolore, che doveva annunciare, secondo il convenuto, allo Championnet la presa del forte, e diedero ospitalità a molti altri novatori, tra cui si ricordata l' insigne poetessa Eleonora Fonseca Pimentel.

RESISTENZA DEL POPOLO NAPOLETANO CONTRO I FRANCESI.

Il 21gennao il generale Championnet si preparò ad assalire Napoli e, levato il campo, divise il suo esercito in due colonne: una, sotto il comando del Duhesme, per la via di Acerra doveva puntare su Porta Capuana, l'altra, sotto il Dufresse, per Avera Melito doveva giunge-re a Castel Sant' Elmo. Il generale francese era convinto di potersi impadronirsi di Napoli con poca difficoltà, essendo la città priva di bastioni ed uno dei principali forti in mano dei patrioti. Invece incontrò una resistenza accanita da parte dei Lazzaroni, i quali si batterono per tre giorni fino allo spasimo. La colonna del Dufresse, avanzandosi lentamente riuscì la sera del 21 a stabilirsi a Capodimonte. Più difficile fu il compito del Duhesme, che marciava fiancheggiatato alla destra dal Rusca e alla sinistra dal MEUNIER. Questi, giunto a un ponticello presso Porta Capuana, accolto dal fuoco dei popolani, fu costretto a indietreggiare soccorso dal Duhesme con il grosso della colonna, cercò di forzare la difesa e si spinse fino a piazza Capuana; ma qui, investito da raffiche furiose di moschetteria che partivano dalle case circostanti, non riuscì a resistere e fu costretto a ritirarsi con gravi perdite incalzato dai Lazzaroni. Ritornato all'assalto, il Meunier riuscì poi a riconquistare la piazza e per restarci appiccò il fuoco alle case circostanti per eliminare i cecchini. Mentre la colonna s'accaniva dalla parte di Porta Capuana, una massa di Lazzaroni e di contadini assalì alle spalle il campo di Duhesme e avrebbe messo a mal partito il nemico se a soccorrerlo non fosse giunto in tempo da Benevento il capobrigata Broussier, che mise in fuga i Napoletani verso il Ponte della Maddalena. La battaglia fu interrotta dalla notte, ma ricominciò ancora più furiosa il mattino del 22. Il ponte della Maddalena, difeso da un battaglione albanese e da una banda di Lazzaroni, fu espugnato dalla brigata del Broussier. Nello stesso tempo il Kellermann, guidato dal principe Francesco Pignatelli di Strongoli, entrava nel castello di Sant' Elmo. Subito i patrioti, ai quali si erano uniti Girolamo Pignatelli e Lucio Caracciolo, piantarono nella piazza del castello l'albero della libertà e proclamarono la repubblica; l'avv. Giuseppe Logoteta preparò un progetto in undici articoli per dichiarar vacante il trono e stabilire gli ordinamenti del nuovo governo, poi scrisse agli Eletti di adoperarsi per far deporre le armi alla plebe. Questa però più che mai, con le armi in mano, era decisa ad impedire al nemico di far progressi nella città; a quel punto Francesi e patrioti dovettero pensarci loro a organizzare la caccia nei quartieri in cui si erano asserragliati i ribelli. La battaglia, ricominciata, si frazionò poi in tante piccole azioni nei vari rioni, ma senza alcun risultato né da una parte né dall'altra. Doveva invece decidersi il giorno seguente. Il 23 il generale Championnet diede l'ordine dell'assalto generale. Una banda di patrioti, uscita dal forte S. Elmo, occupò l'Ospedale degli Incurabili ed altre località; il Broussier dal Ponte della Maddalena, il Duhesme e il Rusca da Porta Nolana puntarono contro il forte del Carmine e dopo un vivace combattimento lo espugnarono; il Kellermann, spalleggiato da numerosi patrioti, scese dall'altura di S. Lucia de' Monti occupata il giorno prima e, investito Castel Nuovo, se ne impadronì, mentre il Dufresse, calato da Capodimonte, penetrava nella via di Toledo e lo Championnet dal largo delle Pigne dirigeva come meglio poteva le operazioni di assalto. La battaglia fu terribile e i Francesi furono costretti a conquistare a palmo a palmo il terreno, conteso dai Lazzaroni con valore straordinario. Dalle case e dietro le barricate, con sprezzo della vita, bersagliavano incessantemente il nemico, poi in certe azioni scacciati dalle loro postazioni, tornavano furiosamente all'assalto; sebbene spossati da circa tre giorni di accanito combattimento e fulminati dalle artiglierie e minacciati dagli incendi provocati dalle torce incendiarie dei Francesi, si ostinavano a resistere e mostravano un'audacia e un tale eroismo da meravigliare lo steso Championnet, il quale, nella sua relazione, da leale soldato, non mancò di riconoscere e lodare il valore dei suoi avversari: " I Lazzaroni - egli infatti, scrisse - questi uomini meravigliosi (etonnants), i reggimenti stranieri e napoletani, rimasugli dell'esercito fuggito dinnanzi noi, sono degli eroi chiusi dentro Napoli. Si battono in tutte le vie, il terreno viene disputato a palmo a palmo; i Lazzaroni sono comandati da capi intrepidi. Il forte S. Elmo li fulmina; la terribile baionetta li squarcia; essi ripiegano in ordine, poi ritornano alla carica, avanzano con audacia e spesso guadagnano terreno". La resistenza dei Lazzaroni sarebbe stata più lunga se Michele il Pazzo, che si batteva come un leone a Porta Susciella, non fosse stato fatto prigioniero. Condotto davanti allo Championnet fu da questo lodato per il suo valore e colmato di promesse. Sapendolo capopopolo, il generale francese cercò di ingraziarselo, gli disse che i Francesi rispettavano la religione ed avevano in gran venerazione S. Gennaro, e seppe così bene convincerlo delle buone intenzioni dell'esercito repubblicano che il popolano, convinto o plagiato, gridò "Viva la Repubblica!" e si offrì di pacifi-care i ribelli della sua città. Il suo consiglio di mandare una guardia d'onore alle reliquie del Santo Patrono fu su-bito accettato, ed egli stesso la accompagnò scortato da una squadra di granatieri; quindi si mise a percorrere le vie della città gridando "Viva i Francesi ! Rispetto a S. Gennaro !" ed esortando i Lazzaroni a deporre le armi. Questi, stanchi dalla lotta, abbandonati dagli elementi peggiori della plebe che non trovò di meglio che darsi al saccheggio del Palazzo Reale e di altri edifici, viste le bandiere francesi sulle fortezze ed esortati dalle parole del loro capo, misero fine alla resistenza e così i Francesi furono i padroni di Napoli. Lo Championnet era un prode soldato, ma era anche dotato di un fine intuito e furbizia politica: sapendo quanto il popolo napoletano fosse religioso, scrisse al Cardinale arcivescovo di fare aprire tutte le chiese, di fare esporre il Santissimo e di far predicare la pace, la tranquillità e il buon ordine; poi al popolo indirizzò un manifesto in cui fra l'altro era detto: " .. Cittadini, .... rientrate nell'ordine, deponete le armi nel Castel Nuovo, e la religione, le proprietà, le persone saranno conservate. Da quella casa da dove partirà un solo colpo di fucile sarà bruciata e gli abitanti fucilati. Ma se la calma sarà ristabilita, io dimenticherò il passato e la felicità ritornerà su queste ridenti contrade".

PROCLAMAZIONE DELLA REPUBBLICA NAPOLETANA.
IL GOVERNO PROVVISORIO.


Il giorno stesso della presa di Napoli i patrioti presentarono allo Championnet - un promemoria in cui, rievocata l'opera nefanda del passato governo e ricordato quanto essi avevano fatto per acquistare la libertà, rinnovavano il giuramento, fatto in San l' Elmo "…odio eterno ed implacabile al regio potere ed a qualunque arbitraria autorità..". Lo Championnet rispose con un bando (23 gennaio), in cui, dopo di avere assicurato il rispetto del culto e dei beni, lodata la costanza dei patrioti, stigmatizzata l'aggressione del Re e poi promesso alla libertà napoletana l'aiuto dell' "Esercito Francese", che da quel giorno assumeva il nome significativo di "Armata di Napoli", ammoniva: "Le autorità repubblicane che saranno create, ristabiliscano l'ordine e la tranquillità sulle basi di un'amministrazione paterna, dissipino gli spaventi dell'ignoranza e colmino il furore del fanatismo con uno zelo uguale a quello che è stato impiegato dalla perfidia per inasprirli ed irritarli, e la disciplina che si ristabilisce con tanta facilità nelle truppe di un popolo libero, non tarderà di mettere un termine ai disordini provocati dall'odio, e che il diritto di rappresaglia ha appena permesso di reprimere". Il 24 gennaio il generale promulgava, in nome della Francia, una legge con la quale, in attesa che venisse organizzato un governo costituzionale completo, veniva creato un governo provvisorio di venticinque cittadini, i quali, riuniti insieme costituivano l'assemblea legislativa, divisi in sei comitati (centrale, dell'interno, militare, di finanza, di polizia e giustizia, di legislazione) esercitavano il potere esecutivo. La presidenza del governo fu affidata all'ex-Scolopio Carlo Lauberg, matematico e filosofo, cui fu dato per segretario il francese Iullien; gli altri ventiquattro cittadini della rappresentanza nazionale furono l'Abamonti, d'Albanese, il Baffi, il Bassal, il Bisceglie, il Bruno, il . Cestari, il Ciaja, il De Gennaro, il De Filippis, il De Rensis, il Doria, il Falcigui, il Fasulo, il Forges, il Logoteta, il Manthoné, Mario Pagano, il Paribelli, il principe di Moliterno, il Vaglio, il Riari e il Rotondo. L'illustre medico e patriota Domenico Cirillo, nominato, non volle accettare l'ufficio. Il giorno 25 gennaio fu istituita la municipalità della quale lo Championnet chiamò a far parte venti dei più ardenti repubblicani, a cui per acquistarsi il favore della plebe aggiunse un popolano analfabeta, certo Antonio Ajello detto Pagliuchella. Per lo stesso motivo nominò suo segretario Michele ò pazzo sebbene questi non sapesse né leggere né scrivere. Nello stesso giorno 25, il generale francese, nella Casa del Comune, consegnò le redini del governo ai rappresentanti nazionali e ai membri della municipalità radunati e per l'occasione pronunciò un discorso. Gli risposero, a nome del governo provvisorio, il presidente Lauberg e Mario Pagano e, finita la cerimonia dell'insediamento, lo Championnet invitò al Palazzo Reale i principali ufficiali e magistrati per un grande pranzo conviviale. Mentre fuori il popolo, cambiato d'umore, si dava alla pazza gioia, piantava gli alberi della libertà e intrecciava danze fra applausi e canti. Quel giorno, "quarto delle repubblica napoletana", si chiuse con una cerimonia, religiosa svoltasi in Duomo. Qui, con il solito opportunismo, si recò lo Championnet per venerare le reliquie ed invocare il favore di S. Gennaro, al quale offrì una mitria d'oro tempestata di gemme. Il Cardinale arcivescovo lo ricevette con onori reali e cantò il Te Deum, quindi ebbe luogo il miracolo del Santo Patrono - la liquefazione del sangue di San Gennaro- che, compiutosi in breve tempo, parve ai fedeli un segno tangibile della volontà del Santo e di Dio. Lo stesso Dio e lo stesso Santo infondeva la volontà in quello stesso giorno a Ferdinando IV che firmava il decreto con il quale dava l'ordine al Cardinale Fabrizio Ruffo di armarsi (con le "armate della fede", i cosiddetti "Sanfedisti" al grido di "Viva Maria") e di andare a difendere le province del regno non ancora invase dai Francesi e di liberare dall'anarchia e restituire alla legittima corona le altre dov'era stato istituito il regime repubblicano.

CARATTERE DELLA RIVOLUZIONE NAPOLETANA.

"...La nostra rivoluzione fu una rivoluzione passiva; per con-durla a buon fine, bisognava cominciare con il guadagnare l'opinione del popolo; le idee della rivoluzione non erano popolari, meno ancora che nelle province, a Napoli; anzi in generale dir si poteva che il popolo della capi-tale era più lontano dalla rivoluzione di quello delle province, perché meno oppresso dai tributi é più vezzeggiato da una corte che lo temeva...". Così scriveva Vincenzo Cuoco in un magistrale saggio sulla rivoluzione napoletana, e non possiamo dire che non vedesse e giudicasse giustamente. Se a Napoli e nelle province i patrioti non mancarono, ed alcuni tra loro furono ardenti repubblicani, la gran massa del popolo rimase estranea al mutamento, a quella rivoluzione alla quale esso non era preparato, che non aveva voluto, che non era uscita dal suo seno ma era stata portata dagli stranieri, che, infine, non veniva a porre rimedio ai bisogni reali dei Napoletani e parlava di diritti, di libertà, di fratellanza, d'uguaglianza, - cose cui pochissimi pensavano - e non sanava invece le piaghe, non leniva la miseria, non alleviava le gravezze, non toglieva gli abusi, le ingiustizie, le prepotenze. "…Inoltre i nuovi stati mancavano di forze. La base sociale degli ordinamenti repubblicani era troppo esigua per dar luogo ad un vero rinnovamento; una certa limitata adesione al nuovo regime si ebbe soltanto nella Cisalpina, mentre a Roma, per esempio, madame de Stael osservava che solo le statue erano repubblicane. Ben nota è la fedeltà dei contadini e dei "lazzaroni" del mezzogiorno alla dinastia borbonica, ma neppure altrove i regimi istaurati dai francesi ebbero l'appoggio delle masse, e la mancanza di un consenso popolare spiega la facilità con cui le repubbliche furono rovesciate in questo 1799. A quest'ostilità non era estranea naturalmente la natura ambigua dei rapporti fra questi regimi con la Francia della cui protezione militare essi non potevano fare a meno ma che si serviva di loro per sfruttare economicamente gli italiani. Agli occhi del popolo i nuovi governanti significavano soprattutto tasse pesanti e un calendario incomprensibile e offensivo del sentimento religioso…poi qualche concessione, come gli sgravi fiscali dei padri di oltre 10 figli, o l'introduzione dei brevetti a difesa degli inventori, che non erano certo misure capaci di risolvere i problemi latenti della società italiana. Alle masse rurali analfabete i patrioti non avevano nulla da offrire; la propaganda giacobina non poteva avere sul contadino una presa paragonabile alle prediche del parroco. I veri repubblicani erano una minoranza che in definitiva rappresentava soltanto se stessa. Ancora meno rappresentativa fu la pattuglia di coloro che sotto l'influsso degli ordinamenti repubblicani o dello sfruttamento francese abbracciarono l'ideale unitario. I governanti avevano il nome, ma non la sostanza del potere; nelle questioni importanti essi non erano mai liberi di decidere, controllati com'erano da generali e commissari francesi che intrigavano con altri italiani contro di loro e, se necessario, li rovesciavano con uno dei tanti colpi di stato. Il direttorio parigino talvolta disapprovava la condotta dei suoi rappresentanti ma ne sosteneva senza esitazione la generale funzione di controllori dell'azione dei governi presso i quali erano accreditati. Così condizionati, gli italiani dovevano levare imposte per l'esercito francese e attirarsi l'odio dei contribuenti a esclusivo vantaggio della "grande nation". Nell'impossibilità di porre rimedio alla debolezza economica e finanziaria dei loro stati, essi non potevano fare nulla per guadagnarsi la fiducia dei conquistatori, che facevano e disfacevano a loro arbitrio, fin troppo pronti a scambiare le aspirazioni all'indipendenza e la probità per sentimenti antifrancesi e unitari. Le repubbliche italiane, insomma, avevano il destino segnato fin dalla nascita".

I PATRIOTI IL POPOLO E LO CHAMPIONNET.

Se il popolo napoletano subì rassegnato la rivoluzione fu solo per merito dello Championnet, il quale, procedendo con tatto, con prudenza e con abilità, non facendo violenza ai costumi, ai sentimenti e ai pregiudizi, carezzando l'amor proprio della plebe e assecondandone il sentimento re-ligioso, seppe acquistarsi il favor popolare. In lui i Napoletani videro un padre buono ed amoroso e lo amarono, ma per lui non amarono né i Francesi né la rivoluzione, di cui non furono mai contenti. Né contenti, in verità, dell'una e degli altri furono gli stessi patrioti. Essi avevano sognato la repubblica e la libertà, ma in sostanza non avevano conseguito né quella né questa. Erano stati piantati gli alberi soliti, era stato imposto al Gigante di Palazzo il berretto frigio, erano stati aboliti gli stemmi, i titoli nobiliari e tutti quei nomi che ricordavano il passato regime, era stata proclamata la libertà di stampa, erano stati aperti circoli o sale d'istruzione: a prima vista poteva sembrare un fatto compiuto l'indipendenza repubblicana, ma, guardando bene, ognuno poteva costatare che di mutato c'era soltanto la forma e che, andato via un tiranno, ne erano venuti degli altri. Veramente, quelli che nella Repubblica Partenopea comandavano erano i Francesi. I membri del governo provvisorio erano stati scelti dallo Championnet sia pure in una lista di nomi presentata dai patrioti. Il Comitato Centrale di detto governo aveva, è vero, "la direzione e l'impiego di tutte le forze di terra e di mare, la negoziazione di tatti gli affari e di tutti gli interessi della repubblica con le potenze straniere, la missione di tutti gli agenti diplomatici, la corrispondenza con il Direttorio Esecutivo della Repubblica francese, con il Generale in capo e con le Repubbliche amiche della Francia, l'esecuzione delle leggi, la giurisdizione su tutte le misure di polizia generale e di pubblica amministrazione, la vigilanza su tutte le spese"; il Comitato Militare aveva facoltá di organizzare le truppe nazionali; quello di Polizia Generale il diritto di accusare i sospetti di complotto contro la Repubblica e l'obbligo di costituire i tribunali; quello dell'Interno doveva organizzare e dirigere tutte le autorità amministrative; quello delle Finanze aveva poteri vastissimi; ma tutte queste attribuzioni erano rese quasi nulle da quegli articoli di legge secondo cui tutti i decreti dell'Assemblea dei Rappresentanti non potevano andare in vigore se prima non ricevevano la sanzione del Generale in capo alla cui approvazione erano anche sottoposte tutte le deliberazioni del Comitato Centrale.

ORDINAMENTO DELLE PROVINCE.

Nelle mani del Generalissimo francese erano in realtà tutti i poteri ed egli li usava a suo piacimento. Anziché approvare, pubblicare e mettere in vigore la costituzione, preparata dietro suo incarico dal Comitato di Legislazione, lo Championnet emanava per proprio contro decreti che poi mandava al Comitato Centrale perché questi li facesse eseguire.
Tredici ne mandò il 9 febbraio. Con questi decreti era istituita una Tesoreria Nazionale e si fissavano le norme per l'organizzazione delle province fino allora trascurate. Tutto il territorio della repubblica fu diviso in undici di-partimenti (Monte Vesuvio, Pescara, Garigliano, Volturno, Sangro, Ofanto, Sete, Sagra, Frati, Idro e Bradano); ogni dipartimento fu suddiviso in cantoni; a capo di ciascun dipartimento fu messa un'Amministrazione tanti membri quanti erano i comuni che lo costituivano, a capo di ogni comune una municipalità. Fu questa una "or-ganizzazione che, se in teoria poteva esser buona, in pratica riuscì pessima, specialmente per l'ignoranza del francese BESSAL che a capriccio aveva stabilito la circoscrizione territoriale dei vari dipartimenti, provocando lagnanze da parte degli abitanti e creando immense difficoltà, alle autorità preposte alle amministrazioni".
(Furono ignorate tradizioni, costumi, abitudini di vita, le economie in certi casi gelosamente chiuse, con certi rapporti economici tra latifondisti che risalivano a medievali o addirittura a delle arcaiche consuetudini, che, di fatto, erano taciti contratti; cioè i confini dove ognuno operava). Ora questa non era la libertà che avevano sognato i patrioti e che i Francesi si vantavano invece di aver data ai Napoletani. Lo stesso Championnet mentre da una parte dichiarava che la Francia ristabiliva il popolo napoletano "nel pieno esercizio di tutti i suoi diritti" e che un solo prezzo "si proponeva ritrarre dalla sua conquista, la gloria di aver dato la libertà al popolo napoletano e consolidata la sua felicità", dall'altra faceva disarmare la popolazione e imponeva una contribuzione di due milioni e mezzo di ducati alla città di Napoli da pagarsi entro otto giorni e una di quindici milioni di ducati alle province.
Questa "taglia" imposta dai generosi "liberatori" fu dannosissima al prestigio e alla vita stessa della repubblica perché mise il governo provvisorio nella necessità, per riuscire a mettere insieme le somme di riversare la con-tribuzione sulle popolazioni e non gli permise di togliere quegli aggravi fiscali pubblici che un regime non tiranni-co avrebbe per lo meno dovuto alleviare.
Il permanere dei pesi e la condotta del governo provvisorio, che trascurò di fare le leggi economiche che mag-giormente si imponevano, non furono le ultime cause del malcontento che ben presto cominciò a serpeggiare nelle province e che fu provocato inoltre dalle violenze e dalle rapine dei soldati francesi e dalle odiose e rapaci spogliazioni dei commissari,i primi a danno dei cittadini commettevano continue prepotenze, li minacciavano, li offendevano, li rapinavano e sovente pagavano, in risse o agguati, con la vita il fio delle loro violenze; i secondi dissanguavano il paese con sequestri, contribuzioni, requisizioni, taglie che resero odioso il nome francese in tutte le regioni d'Italia.

CONTRIBUZIONE MILITARE E IL COMMISSARIO FAYPOULT.

Al seguito dell'esercito dello Championnet, con l'in-carico di commissario civile, si trovava il Faypult, da noi più volte ricordato, uomo ribaldo, orgoglioso e duro. Questi, il 3 febbraio del 1799, fece affiggere a Napoli una notificazione, con la quale, valendosi (dei poteri conferitigli dai decreti direttoriali, dichiarava nulli tutti gli atti che nel campo a lui riservato fossero stati fino allora compiuti "…da qualunque persona di qualsivoglia Nazione e qualunque sia l'Autorità che gli avesse concesso facoltà di compierle.."; ordinava che soltanto a lui si pagassero le contribuzioni e dichiarava che in nome della Repubblica Francese avrebbe preso possesso di tutti i beni privati del Re, dei beni allodiali, dei diritti feudali del Sovrano, delle proprietà di tutti gli ordini cavallereschi, dei ministri e di tutti coloro che avevano seguito la Corte, dei domini ecclesiastici messi in vendita dal Re, della Tesoreria, Zecca, dei porti, degli arsenali, dei magazzini del Lotto, dei Monti di Pietà, dei Banchi, dei Musei, delle Biblioteche, delle fabbriche e dei beni appartenenti ai sudditi di potenze in guerra con la Francia. Quella notificazione non solo era un atto impolitico e per più versi ingiusto, ma offendeva apertamente lo Championnet. Il quale, con un proclama del 6 febbraio, qualificò la notificazione del commissario civile come "…un atto sedizioso, funesto negli effetti, assurdo nei principi suoi e tanto rivoltante per la sconvenienza e l'indecenza della forma, l'audacia ingiuriosa ed insolente delle espressioni e la perfidia delle insinuazioni che conteneva, quanto più contrario ai principii della Costituzione francese ed agli atti del Direttorio esecutivo…"; dichiarò nulla la notificazione medesima ed ordinò al Faypoult di lasciare Napoli entro ventiquattro ore e il territorio delle repubbliche partenopea e romana entro dieci giorni.

MALCONTENTO VERSO I FRANCESI E IL GOVERNO PROVVISORIO.

Il Faypoult dovette ubbidire e per il suo atto di fermezza lo Championnet si guadagnò maggiormente le simpatie del popolo e dei patrioti, ma a Napoli e nelle province il malcontento verso i Francesi e il governo provvisorio repubblicano continuò. In quei giorni ecco come scriveva il De Nicola nel suo "Diario": "….La verità poi è che non si può essere contenti del Governo attuale. È cattiva la condotta dei generali francesi e di quelli che si sono posti alla testa degli affari. Tante belle promesse di felicità e libertà ed intanto siamo più infelici e schiavi di prima. I dazi e le imposizioni sono le stesse. Il numerario manca come prima. I viveri sono rari oltremodo; la tassa angustia tutti coloro che avevano qualche comodo; e ciò si rifonde anche a danno del restante della popolazione, perché chi meno ha meno spende: la gente non è impiegata, quelli che erano in corte non trovano padroni, gli artieri non hanno da poter fatigare, in conseguenza i malcontenti crescono e quelli che desiderarono la mutazione di governo ora hanno cangiato linguaggio. I francesi ufficiali per le case dei, particolari finiscono a disgustare con le loro impertinenze e se non altro col peso che recano a chi deve darli quanto li bisogna per alloggio e mangiare, e non si contentano di poco. I soldati non smettono di commettere impertinenze, e questo la Nazione non lo soffre. La Religione che si promise di non toccarsi, il popolo crede che sia vilipesa, perché i soldati francesi non hanno rispetto né per le chiese, né pel Santissimo, quando lo incontrano per Napoli ... I preti sono arruolati nella milizia, si sente pubblicamente insegnare lo scioglimento dei voti, il matrimonio dei preti, il ripudio e il divorzio .... ". Il De Nicola si scagliava contro Francesco Conforti, che pur non era intemperante e, nominato ministro dell'Interno, tracciava un sobrio e illuminato programma in cui, per quel che riguardava la religione, scriveva: "… Lungi da noi lo spirito d'intolleranza, la quale urtando i pregiudizi già stabiliti, attaccando quanto vi è di più sacro, imprudente combatte fino le opinioni religiose con la filosofia e la ragione; non conviene allo stato di libertà che l'uomo sia disturbato fino ne' suoi più segreti pensieri, ma deve piuttosto con una saggia amministrazione dirigerli in modo che si rendano utili…"; quel Conforti, il quale - "come scrive il Cuoco" - credeva che la religione cristiana fosse quella che meglio di ogni altra si adattasse ad una forma di governo moderato e liberale; che il 12 febbraio istituiva una "commissione ecclesiastica" perché vigilasse sulla condotta del clero e dirigesse la predicazione ed istruzione del clero secolare e regolare; che, pur volendo un clero patriottico ed ossequiante al governo democratico, tanto consenso trovava nelle gerarchie ecclesiastiche della nuova repubblica…".

RICHIAMO DELLO CHAMPIONNET.

Intanto il Faypoult brigava per vendicarsi dello sfratto, presso il Direttorio francese, accusando lo Championnet di ribellione agli ordini dati da Parigi; e il 27 febbraio giungeva al generale l'ordine di consegnare entro diciannove ore al MacDonald il comando dell'esercito di Roma e Napoli e di tornare in Francia. Lo Championnet ubbidiva senza recriminazione e la sera di quello stesso giorno usciva silenziosa-mente da Napoli, lasciando per la cittadinanza un nobile proclama, degno del soldato leale e del candido sognatore ch'egli era: "… Io parto, o cittadini, per Parigi, dove gli ordini del mio governo mi chiamano, e nel partire porto con me la dolce soddisfazione di lasciare alla Repubblica Napoletana, la quale mi sarà sempre cara, degli uomini virtuosi e repubblicani che non hanno altra ambizione che la sicurezza della libertà del loro paese. Porto con me un solo dispiacere, partendo, quello di non aver potuto regolare la contribuzione militare che vi era stata imposta. Essa, lo vedo, è al disopra delle forze delle repubblica, e se io non avessi dato parte di questo oggetto al Governo francese, l'avrei regolata in una maniera più confacente alla vostra situazione ed alle circostanze dispiacevoli nelle quali vi siete trovati. L'idea del mio successore non è sicuramente diversa dalla mia, ed io non mancherò dal canto mio di usare i mezzi più efficaci presso il Governo francese per ottenere le giuste moderazioni che voi avete domandate, e farvi subito pervenire le dilucidazioni cha voi impazientemente aspettate su quel tanto che riguarda i beni personali dell'ex-re. Salute e fraternità…"

IL MACDONALD.

Lo Championnet si recò a piccole tappe a Torino, dove fu arrestato e tradotto a Grenoble da-vanti a un Consiglio di guerra, che, riconosciutolo innocente, lo rimise in libertà; il MacDonald, nemico personale del suo predecessore, entrò a Napoli la sera del 28 febbraio e fu subito raggiunto dal Faypoult, che riprese il suo posto di commissario civile. I Napoletani, che erano rimasti addolorati per la partenza dello Championnet, vivevano in grande ansia temendo che il nuovo generalissimo inaugurasse una politica opposta a quella tenuta dal primo. Ben presto i loro timori furono una certezza. Difatti il Macdonald, subito dopo il suo arrivo, si mostrò animato da spirito giacobino. Dopo avere, per mezzo del Comitato Centrale, minacciato di arresto tutti coloro che entro ventiquattro ore non pagavano la contribuzione militare, pubblicò il 4 marzo un terribile manifesto, in cui ordinava: "…Ogni città o terra la quale si ribelli sia tassata militarmente e militarmente punita; tutti i ministri del culto, non esclusi i cardinali, gli arcivescovi, siano tenuti colpevoli della ribellione dei luoghi ove dimorano, se non denunciano prima i fatti, siano puniti con la morte; ogni persona presa con le armi in mano - anche se per andare a caccia - sia considerata come ribelle; ogni complice, secolare o chierico, sia trattato come ribelle ed esiliato; lo spargitore di novelle (di notizie Ndr.) contrarie ai Francesi o alla Repubblica napoletana sia condannato a morte: il Governo è autorizzato ad arrestare qualsiasi cittadino sospetto; al suono della generale tutti, eccetto la guardia civica, si ritirino nelle loro case; in caso d'allarme si vieta il suono delle campane, sotto pena di morte; larghi compensi sono promessi a coloro che denuncino congiure e si dà loro la sicurezza che il loro nome non sarà svelato; si dichiara congiunta sempre alla pena di morte quella della confisca …".Con altri proclami, pubblicati nei primi giorni del suo governo il Macdonald proibiva l'uso delle livree, chiudeva la via delle cariche pubbliche ai noli iscritti alla milizia urbana e istituiva due commissioni che dovevano l'una togliere dai monumenti le insegne monarchiche, l'altra raccogliere i documenti delle dilapidazioni della Corte. A questi provvedimenti di carattere generale altri il Macdonald ne aggiunse diretti contro gli amici dello Championnet: il Bonnav e i generali Duhesme e Rey furono, dietro richiesta del Direttorio, mandati in Francia; molti Francesi venuti al tempo dell'occupazione e favoriti dal passato generalissimo, furono espulsi; il Julienne, segretario generale del Governo provvisorio, fu arrestato e sostituito con Vincenzo De Filippis, il Bassal, fuggito, fu rimpiazzato, come ministro delle Finanze, da Domenico De Gennaro. Notando questi nomi italiani, significa che la condotta del Macdonald non dispiacque a parecchi repubblicani e allo stesso Governo provvisorio, che, il 6 marzo, scriveva ai suoi deputati presso il Direttorio francese: "… Il carattere del Macdonald è più austero e più fermo di quello dello Championnet. Le sue intuizioni non sono forse meno favorevoli alla Repubblica; ma pare che voglia giungere allo stesso scopo per una diversa via, ottenendo ciò con la severità che l'altro sperava dalla dolcezza…". Ma ben presto tutti coloro che approvavano l'energia del Macdonald dovettero accorgersi che essa era rivolta, più che a fortificare la democrazia napoletana, ad assecondare l'opera del Faypoult nello sfruttare la nuova repubblica tutto a vantaggio della Francia. "…Il Faypoult, - scriveva più tardi il cittadino Cesare Paribelli, tornato a Napoli "sitibondo (=avido Ndr) d'oro e di vendetta" stese la sua mano rapace sopra tutte le proprietà pubbliche e private: non vi era cosa di qualche valore, nella Centrale e in tutta la Repubblica che non fosse munita di un suggello della Commissione civile. Le casse pubbliche, la Zecca, i Banchi, 1e Fabbriche ex-Regie, le Ville, le Cacce, le Delizie, l'Azienda Gesuitica, quella di Educazione, la Dogana, le saline di Barletta, le case degli assenti di Napoli e dei seguaci della corte, qualificati come emigrati, tutto insomma, non esclusi i beni maltesi e costantiniani e altre abbazie di Regia collezione, erano muniti del fatale suggello. Faypoult, dando una interpretazione larghissima ed arbitraria all'articolo 7°del Decreto Championnet, circa le riserve a favore della Francia dei beni personali dell'ex-Re e famiglia, voleva divorarsi tutta la Repubblica…"
. Lo Championnet, nel decreto del 27 gennaio, in cui fissava la contribuzione militare alla Repubblica, aveva di-chiarato che questa null'altro avrebbe dato alla Francia se non "una certa qualità di oggetti d'ornamento, vesti-mento e fornimento, le proprietà personali del Re e della famiglia sua, gli oggetti delle arti racchiuse nei Musei e Case Reali e lo scavamento dei luoghi riservati alla Corona.."

DEPUTAZIONE NAPOLETANA IN FRANCIA.

Per definire quali fossero i beni personali del Re e quali quelli da con-siderarsi, dopo la caduta della monarchia, appartenenti alla Repubblica, ed anche per ottenere una riduzione della pesante contribuzione militare e un esplicito riconoscimento dell'indipendenza, fin dai primi di febbraio, d'accordo con lo Championnet, il Governo provvisorio aveva mandato al Direttorio francese una deputazione composta da Girolamo Pignatelli di Moliterno, da Marcantonio Daria ex principe di Angri, dal letterato Leonardo Panzini e da Francescantonio Ciaja; ma i deputati non erano stati neppure ricevuti, che già il Direttorio, prima della loro partenza da Napoli, aveva decretato il richiamo dello Championnet.
Ora il Faypoult, con nota del 18 marzo, stabiliva per conto suo quali dei beni regi spettassero alla Francia, riconfermando la famosa notificazione del 3 febbraio che aveva provocato il suo allontanamento ed invocando a sostegno del suo giudizio la legge stessa emanata il 27 gennaio dallo Championnet, quasi volesse al medesimo, che con tanto affetto era ricordato dai Napoletani, attribuire la decisione che egli prendeva.

CONTRASTI FRA IL MACDONALD E IL GOVERNO PROVVISORIO.

"…Il Governo provvisorio - scrive ancora il Pari-belli, che ne era membro - si oppose vigorosamente a tante ingiuste pretese, e questo indispose molto il Gene-rale e tutte le autorità francesi contro di lui; ma egli sicuro delle rettitudine delle sue intenzioni e della giustizia della sua condotta, senza tralasciare alcun mezzo di riconciliasi mantenne nella sua fermezza…". Intervenne al-lora il Macdonald che, con il decreto del 27 marzo, - in cui, fra l'altre cose, aboliva la circoscrizione del Bassal e dava una nuova organizzazione alle province - "avvalorava tutte le ingiuste e stravaganti pretese di Faypoult. II Governo si oppose contro tale decreto e rifiutò di prestarvi la sua mano e dare il suo consenso per l'e-secuzione. Il Generale rispose con una lettera fiera e laconica confermando il suo decreto ed omettendo perfino il saluto. Allora il Governo che aveva respinto ogni mezzo di conciliazione risolvette di dimettersi tutto piuttosto e di prestar mano allo spoglio della Nazione.." Degna di esser tramandata ai posteri è la fiera risposta data da Gabriele Manthonè membro del Governo provvisorio, al MacDonald. Si era recato con altri dal generale per pro-testare contro il decreto del 27 marzo e per ottenere che i diritti e le proprietà della Repubblica fossero rispettati; ma il MacDonald, con arroganza, aveva dichiarato che "...Napoli era terra di conquista e come tale doveva esser trattata..". Sdegnato da quella affermazione ingiusta e brutale, il Manthonè, che era amante della patria e nemico accanito degli stranieri, rispose che i Francesi avevano potuto mettere piede dentro Napoli solo perché i patrioti avevano loro consegnato i castelli, e che vi erano rimasti solo per l'appoggio e la volontà dei patrioti medesimi. " Uscite dalle porte di Napoli - esclamò - restituite i castelli a chi ve li ha dati, e poi provate venire a conquistar Napoli se vi fidate…".

MISSIONE SEGRETA DI CESARE PARIBELLI - ANDREA ABRIAL.

Le dimissioni in massa del Governo provvisorio non ebbero luogo perché il 30 marzo giunse in qualità di commissario politico e munito di pieni poteri per orga-nizzare la nuova repubblica, Andrea Abrial, il quale esaminata la pericolosa situazione, persuase il MacDonald e il Faypoult (quest'ultimo fu poi sostituito dal Bodard) a recedere dalla loro intransigenza e i membri del Governo a non dimettersi. Si dimisero però Diego Pignatelli del Vaglio, Raffaele Doria, Vincenzo Bruno, Vincenzo Porta, Raimondo di Gennaro e Cesare Paribelli. Quest'ultimo motivò le sue dimissioni con il desiderio di ritornare a Sondrio, sua città natale; ma il vero motivo era un altro: egli era stato incaricato segretamente di raggiungere a Parigi la deputazione mandata nel febbraio e di esporre insieme con la stessa al Direttorio le reali condizioni della repubblica. Il Paribelli, infatti, partì il 15 aprile, ma a Roma seppe dal Panzini, uno dei componenti la deputazione, che questa non solo non era stata ricevuta, ma aveva avuto l'ordine di ritornare a Napoli e che a Parigi erano soltanto rimasti, da privati cittadini, il Ciaia e il Moliterno. Il Paribelli però proseguì lo stesso il viaggio; sorpreso dai rovesci francesi nell'alta Italia, riparò a Genova, dove si mise in rapporti epistolari con il Ciaia. L'Abrial arrivava giusto in tempo a Napoli, dove già la lotta fra i vari partiti metteva in pericolo l'esistenza della repubblica. Nel Governo provvisorio si erano formate due fazioni: una era capeggiata da Mario Pagano, Ignazio Ciaia e Foges Davanzati, l'altra dal Laubert, dal Cestari, dal Riario, dal Fasulo e dal Bisceglie; si stava formando un partito di aristocratici che aveva come esponenti il cav. Luigi Medici, ex-capo della polizia borbonica, il principe Francesco Carafadi Colobrano e il principe di Santo Angelo Imperiale.

LE UNIONI REALISTE - LA COSPIRAZIONE DEL BACCHER.

Ma il pericolo maggiore era rappresentato dal partito realista, che aveva carattere di organizzazione segreta ed era costituito dai "Lazzaroni" del Mercato e di Vicaria, dai marinai del Molo Piccolo, dai popolani dei vari quartieri, dai "Camiciotti" (i soldati di Linea dell'ex-esercito regio), da nobili, preti, borghesi, negozianti e parecchi ufficiali borbonici passati al servizio della Repubblica e da questa minacciati di licenziamento. Il partito reazionario era sovvenzionato largamente dalla corte borbonica di Palermo ed era in contatto con essa e con gli insorti delle province. Esso era diviso in gruppi, detti "unioni realiste"; ciascuna unione operava in un quartiere; ogni affiliato, nell'atto di entrare nel gruppo, giurava sul Crocifisso di mantenere il segreto e di dar la vita per la Religione, per il Sovrano e per la famiglia reale e ri-ceveva un segno di riconoscimento chiamato "biglietto di distinzione"; le "unioni" facevano raccolta di armi e di danaro e preparavano ed eseguivano attentati contro i Francesi ed una di esse, detta la "Compagnia dei Bollet-tini", capeggiata da due preti, Giovanni D'Aquino e Francesco Oliveto, aveva l'incarico di spargere notizie contrarie alla repubblica e ai Francesi e di preparare e diffondere proclami, manifesti, versi rivolti a fomentare fra i cittadini l'odio contro gli stranieri e i democratici.
L'"unione" che, a quanto pare, aveva la direzione del movimento reazionario era quella del duca Vincenzo Tut-tavilla di Calabritto, la quale operava alla Pignasecca; altre unioni erano quella del duca di Salandra, quella di Francesco Maria Villani, quella del cav. Gaetano Ferrante, quella di Domenico Sansone, quelle di Francesco An-tonio Monti, di Flavio Galluzzo, di Andrea Angiorgio, di Domenico Monti, di Andrea Carlucci, e parecchie ancora, fra le quali degne di menzione quella dei fratelli Criscuolo; che operava nel Molo Piccolo, e quella dei Baccher, capeggiata dal ricco negoziante Baccher Vincenzo e dai figli Gennaro, ufficiale della Tesoreria di Marina, Gerardo tenente di cavalleria e mastro del Reggimento Moliterno, Giovanni e Camillo, capitano il primo e tenente il secondo del Corpo dei Cacciatori Reali. Si deve all'imprudenza di Gerardo Baccher se la cospirazione realista, fino allora segreta, fu scoperta e mise i Francesi e il Governo provvisorio sull'avviso. In un convegno di capi di diverse "unioni", tenutosi il 31 marzo, si era concertato un colpo di mano, che doveva aver luogo il 1° di aprile. Si trattava di occupare con uno stratagemma, simile a quello dei patrioti, il forte di Sant' Elmo, liberare i carcerati e chiamare il popolo alle armi; il 1° aprile però, non essendo forse l'impresa ancora del tutto organizzata, il colpo fu rimandato al giorno 8. Il 2 aprile comparve nel Golfo di Napoli una squadra inglese del Nelson comandata dal Troubridge, che con la sua presenza diede animo ai cospiratori e preoccupò non poco i repubblicani e i Francesi. I realisti erano così sicuri della riuscita della sollevazione che Gerardo Baccher, volendo proteggere dai pericoli della sommossa la bella Luisa De Molino, moglie del cavaliere Andrea Sanfelice dei Duchi di Lauriano, di cui era innamorato; le consegnò un "biglietto d'assicurazione". Fu questo biglietto che rivelò la congiura. La Sanfelice infatti, volendo a sua volta salvare dalle rappresaglie realiste l'ufficiale della milizia civica Ferdinando Ferri, ardente repubblicano, che amava, gli consegnò il biglietto. In possesso di quel documento, il Ferri decise di rivelare la cosa al Governo provvisorio e poiché non voleva render di ragion pubblica il suo amore per la Sanfelice, si confidò con il procuratore del marito di lei, Vincenzo Cuoco, il quale scrisse di suo pugno la denuncia. Il Governo provvisorio nella notte del 5 aprile ordinò l'arresto di tutti i membri della famiglia Baccher, dei fratelli Ferdinando e Giovanni La Rossa e di Natale d'Angelo appartenenti all' "unione" del Molo Piccolo, e nei giorni successivi mise in prigione molte altre persone, sospette di cospirazione, fra cui il duca di Calabritto. Così l'impresa fallì e Luisa Sanfelice fu gridata come una salvatrice della repubblica; ma la maggior parte dei cospiratori non fu scoperta.

LA RIFORMA DELL'ABRIAL.

Erano a questo punto le cose quando, il 15 aprile, l'Abrial dichiarò sciolto il Governo provvisorio e lo sostituì con un altro - provvisorio anch'esso fino all'approvazione della costituzione - ma e-scluse quei membri del vecchio che a torto o a ragione erano stati colpiti da accuse. Nel nuovo governo i poteri furono nettamente separati e affidati a due corpi che presero il nome di "commissioni": la Commissione Legisla-tiva fu composta di venticinque membri, la Esecutiva ne ebbe cinque; quest'ultima ebbe alle proprie dipendenze i ministri preposti ai quattro dipartimenti in cui era divisa la repubblica. Anche la Municipalità fu sciolta e fu sostituita con un dicastero Centrale di tre membri. I membri delle commissioni e i ministri furono scelti dall'Abrial fra i nomi suggeritigli dai migliori cittadini. A presiedere la Commissione Esecutiva fu chiamato Ercole Agnese, marito di una nipote dell'Abrial; gli altri quattro membri furono Ignazio Ciaia, Giuseppe Albanesi, Giuseppe Abbamonti e Melchiorre Deifico. Ministro della polizia e giustizia fu Giorgio Pigliacelli, degli Interni Vincenzo De Filippi, della Guerra e Marina Gabriele Manthoné, delle Finanze Luigi Macedonio. Fra i membri che composero la Commissione Legislativa bisogna ricordare Mario Pagano e Domenico Cirillo, che si avvicendarono alla presidenza, e il filosofo Luigi Russo, il sognatore di una "Società Universale".

PROVVEDIMENTI CIVILI E MILITARI DEL GOVERNO PROVVISORIO.

I patrioti napoletani gioirono quando il Ma-cDonald richiamato dal Direttorio nell'Italia settentrionale, si allontanò da Napoli. Rimasti finalmente liberi si die-dero con impazienza a fare leggi e a provvedere alla difesa della Repubblica. Si cominciò a discutere, in seno alla Commissione legislativa, il Progetto di costituzione presentato da Mario Pagano; furono approvate le leggi che regolavano l'estinzione del debito dei Banchi; si aboliva la gabella sulla farina; si deliberò di punire i com-missari dipartimentali che abbandonavano il loro posto; di confiscare i beni degli emigrati e di condannare a morte come nemici della patria tutti coloro che avevano prima appoggiato la Corte e tentavano di ritornare; si promisero premi a chi denunciava cospirazioni; fu costituita una Commissione rivoluzionaria di cinque membri con facoltà di giudicare per direttissima tutti i reati contro lo Stato; si decise la costruzione di un Pantheon in cui dovevano trovare sepoltura i martiri della libertà; fu istituita una cassa di soccorso per i poveri; si procedette ad arresti di persone sospette; si ordinò la coscrizione marittima, l'organizzazione della guardia nazionale e, poiché erano insufficienti a difendere le province le sole due legioni di Ettore Carafa e dello Schipani, si procedette a formarne altre, fra cui meritano di essere ricordate quelle poste sotto il comando del capitano Spanò e del colonnello Wirtz.



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