Eduardo Ambrosio


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I PERSONAGGI

STORIA > 1799 REPUBBLICA NAPOLETANA

I PERSONAGGI DEL 1799

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in ordine alfabetico -
Caracciolo Francesco, Carafa Ettore, Championnet Jean-Antoine, Cimarosa Domenico, Cirillo Domenico, Cuoco Vincenzo, Ferdinando I di Borbone, Filangieri Gaetano, Fonseca Eleonora Pimentel e le sue opere, Galiano Ferdinando, Genovesi Antonio, Giordano Annibale e sua formazione, Maria Carolina D'Asburgo, Metastasio Pietro, Nelson Horatio approfondimento, Pagano Francesco Mario, Paesiello Giovanni, Pignatelli (Ferdinando e Francesco), Pignatelli Moliterno Girolamo, Pignatelli Moliterno Girolamo, Ruffo Fabrizio di Bagnara e cronaca della conquista, Russo Vincenzo e sua formazione, Sanfelice Luisa, Serra Gennaro e sua formazione, Tanucci Bernardo, Vitaliani (Giovanni Andrea, Vincenzo).

Caracciolo Francesco
Duca, ammiraglio e patriota napoletano (Napoli 1752-1799). Entrato giovanissimo nella marina da guerra, partecipò, a bordo di una nave britannica, alla guerra d'Indipendenza delle colonie nordamericane; al co-mando di uno sciabecco e poi di una fregata si distinse contro i pirati di Algeri e di Tunisi. Nel 1793 comandò i quattro vascelli napoletani che, agli ordini dell'ammiraglio Hood, combattevano contro i Francesi, partecipando alla presa di Tolone e allo sbarco in Corsica. Valoroso ed esperto uomo di mare, e promosso nel frattempo brigadiere (ammiraglio) al comando della divisione navale che scortò la famiglia reale in Sicilia, mal tollerò che i reali avessero scelto il vascello di Nelson per la traversata.
Addolorato per l'autodistruzione della flotta partenopea a Napoli, avvenuta su ordine di Nelson, e costretto a disarmare il proprio vascello ammiraglio, a Messina, chiese al re licenza di recarsi a Napoli per curare il suo patrimonio. Vi giunse poche settimane dopo la proclamazione della repubblica (23 gennaio 1799) e, accolto con entusiasmo e onori, accettò dopo qualche incertezza di porsi a capo della marina repubblicana. Al comando di pochi legni sottili, combatté contro i regi e gli Inglesi, finché, restaurata la monarchia per opera delle forze britanniche e delle bande del cardinale Ruffo, fu condotto, contro i patti della capitolazione, dinanzi a un tribunale che lo condannò a morte.
Caracciolo non si era attenuto all'impegno di condursi, a Napoli, da privato cittadino, e anzi aveva levato le armi contro il suo re; tuttavia il giudizio e la sentenza, in contrasto con i patti, e ancor più l'ignominiosa morte (venne impiccato nel golfo di Napoli a un albero della fregata siciliana Minerva, benché egli avesse chiesto la fucilazione) nobilitarono la sua figura e ne fecero un martire della rivoluzione napoletana, mentre alla sommarietà e crudeltà della sua fine non è estraneo il sospetto di risentimenti personali di Nelson, che sovrintese al giudizio e all'esecuzione.

Carafa (famiglia)
Famiglia napoletana, discendente da un ramo dei Caracciolo. Il suo capostipite fu Gregorio Caracciolo (sec. XVIII), detto Carafa forse perché concessionario della gabella sul vino (detta campione della Carafa).
Assurse a grande importanza nel sec. XIV per l'attiva partecipazione alla vita politica e militare in patria e all'estero e per la potenza feudale accresciuta con matrimoni.
Distintasi in vari rami (Carafa della Spina, della Stadera, di Maddaloni, d' Anaria, di Rocella, ecc.), divenne la famiglia più importante del napoletano, raggiungendo il culmine della potenza con Gian Pietro (m.1559) di-venuto Papa Paolo IV. Annoverò poi tra i suoi membri cardinali, scienziati e uomini politici. Ottenne nel 1954, con Fabrizio I, il titolo principesco.

Carafa Ettore
Nato nel 1767 (vi è incertezza sul giorno e sul mese), discendente di una illustre famiglia napoletana, Conte di Ruvo e Duca d'Andria, frequentò in Napoli la loggia dei "liberi muratori"; fu imprigionato nel 1795 quando rifiutò di fregiarsi dellíOrdine di San Gennaro, già appartenuto per lignaggio al defunto padre. Evaso da Castel Sant'Elmo nel 1798, riparò a Milano, organizzandovi una legione di volontari per seguire le armate di Francia, che invadevano il Regno delle due Sicilie.
Reprime le insorgenze realiste nelle Puglie con la sua legione e, ritiratesi le truppe francesi dal territorio dell'ex regno alla fine di Aprile '99, viene inviato in Abruzzo a presidiare la fortezza di Pescara dove Combatte contro le bande del cardinale Ruffo .
Assediato dal Pronio e dal Barone De Riseis, compie numerose sortite dirette all'approvvigionamento e alla di-struzione delle postazioni dell'artiglieria delle "masse". Dopo trattative con il Pronio, anche a causa del tradimento del comandante del forte di Pescara, le "masse" penetrarono nella fortezza, mettendola a sacco e provocando lo scoppio di una delle polveriere.
Tradotto a Napoli in catene, il Carafa venne ghigliottinato sulla piazza del mercato il quattro Settembre 1799.

Maria Carolina D'Asburgo
Nata a Vienna 1752 dove morì nel 1814, regina di Napoli. Figlia di Francesco I e di Maria Teresa e sorella di Maria Antonietta regina di Francia, nel 1768 andò sposa a Ferdinando IV, re di Napoli. Spregiudicata e am-biziosa, mirò a liberarsi dalla tutela del suocero, Carlo III re di Spagna, e nel 1777 licenziò Bernardo Tanucci affidando il potere al suo favorito J. Acton.
Dopo aver appoggiato la politica riformatrice che caratterizzò i primi anni del regno di Ferdinando IV, allo scoppio della Rivoluzione francese accentuò la dipendenza di Napoli dall'Austria, dando l'avvio a una politica ciecamente repressiva di ogni fermento innovatore (dure condanne per le cospirazioni giacobine del 1794-1797 e duplice guerra contro la Francia nel 1793 e nel 1798). Nel 1799, quando le truppe francesi del generale Championnet invasero il regno, Maria Carolina si rifugiò in Sicilia, da dove animò la spedizione del cardinale F. Ruffo, inducendo poi il re alla durissima repressione che colpì i patrioti meridionali dopo la caduta della Repubblica Partenopea.
Riuscita a salvare il regno dalla minaccia napoleonica dopo Marengo grazie all'appoggio della Russia, nel 1805 collaborò alla formazione della coalizione contro la Francia, ma nel 1806 dovette riparare nuovamente in Sicilia in conseguenza della nuova invasione francese che mise sul trono di Napoli prima Giuseppe Bona-parte e poi (dal 1808) Gioacchino Murat.
Nell'isola, mentre cercava senza grande successo di riaccendere la guerriglia contro i Francesi nel continen-te, si scontrò con il ceto dei baroni, che miravano a ottenere una costituzione, e con lord W. Bentinck, favo-revole alle richieste dei baroni; finì perciò con l'essere allontanata dalla Sicilia (1813). Recatasi a Vienna at-traverso Costantinopoli e Odessa, morì di apoplessia un anno dopo.

Championnet Jean-Antoine-Etienne
Generale francese (Valence 1762 - Antibes 1800). Repubblicano sincero, nel 1794 contribuì alla vittoria di Fleurus e conquistò Juliers, Colonia e Düsseldorf. Nel novembre 1798, comandante del presidio francese a Roma, dovette sgombrare la città sotto la pressione delle truppe borboniche comandate dal generale austri-aco Mack, ma nel dicembre, presa l'offensiva, rioccupò la città e proseguì la marcia vittoriosa fino a Napoli, di cui si impadronì nel gennaio 1799. A Napoli, nonostante le contrarie istruzioni del Direttorio, organizzò la Repubblica Partenopea, riunendo intorno a sé i più ferventi giacobini (febbraio 1799). Per aver espulso da Napoli il commissario del Direttorio, Faipoult, fu sostituito dal Macdonald e venne arrestato sotto l'imputazione di disobbedienza al governo e sequestro arbitrario del tesoro pubblico del regno napoletano. Assolto dal tribunale militare di Grenoble e nominato comandante dell'esercito delle Alpi, fu sconfitto a Genola (Cuneo) dagli Austriaci. Morì vittima dell'epidemia che decimava le sue truppe.

Cimarosa Domenico (1749 - 1801)
Nato da famiglia poverissima emigrata a Napoli in cerca di lavoro, rimase orfano di padre in tenera età e la madre lo affidò ai padri conventuali del Pendino, che gli insegnarono la musica. Nel 1761 egli entrò al con-servatorio di Santa Maria Loretodove ebbe come maestri P. Gallo F. Fenaroli e S. Carajus. Uscitone nel 1772, grazie alla cantante C. Pallante(di cui sposò la figlia Costanza, poi, rimasto vedovo), debutò al teatro dei Fiorentini con due farse, Le stravaganze del conte (1772) e Le magie di Merlina e Zoroastro (1772), che si risolsero in un insuccesso.
L'anno successivo però Cimarosa riuscì a imporsi con La finta parigina. Da allora la sua fama crebbe, e in poco più di un decennio si presentò sulle scene dei principali teatri italiani ed europei con lavori di maturo rilievo come L'Italia in Londra (1779). Intanto con il Caio Mario (1781) si cimentava anche nell'opera seria, un genere coltivò facilmente fino alla morte. Inviato in Russia nel 1787 dall'imperatrice Caterina II per sostituire G. Sarti quale maestro di Cappelladi corte, vi giunse nel 1788, dopo essere stato festeggiatro in tutte le corti visitate lungo il viaggio. Il soggiorno in Russia non fu però facile: Cimarosa non piacque nè all'imperatrice. Perciò nel 1790, già sulla via del ritorno , si fermò a Vienna, dove l'imperatore Leopoldo II gli offrì stipendio e casa e gli commissionò un'opera. Nacquè così Il matrimonio segreto (1792), il cui successo fu tale da essere replicato per intero la sera stessa della prima.
Nel 1793 Cimarosa era di nuovo a Napoli, dove proseguì la sua attività presso i teatri della città e della peni-sola , ottenendo risultati di rilievo con I Traci amanti (1793) , Le astuzie femminili (1794), Gli Oriazo e Curiazi (1796).
Morta la seconda moglie nel 1796, l'autore si compromise politicamente con la Republica Partenopea (1799), tanto che il ritorno dei Borboni fu incriminato e incarcerato. Rimasto in prigione quattro mesi , uscito solo per intervento del cardinale E. Consalvi. Poi stanco, amareggiato e deluso, si trasferì a Venezia per dirigervi uno dei molti ospedali della città. Malato di cancro, morì a palazzo Duodo. Nel 1793 Cimarosa era di nuovo a Napoli, dove proseguì la sua attività presso i teatri della città e della penisola , ottenendo risultati di rilievo con I Traci amanti (1793) , Le astuzie femminili (1794), Gli Oriazo e Curiazi (1796).
Morta la seconda moglie nel 1796, l'autore si compromise politicamente con la Republica Partenopea (1799), tanto che il ritorno dei Borboni fu incriminato e incarcerato. Rimasto in prigione quattro mesi , uscito solo per intervento del cardinale E. Consalvi. Poi stanco, amareggiato e deluso, si trasferì a Venezia per dirigervi uno dei molti ospedali della città. Malato di cancro, morì a palazzo Duodo.

Cirillo Domenico
Nasce a Grumo Nevano (Napoli) l'11 aprile del 1739, da famiglia illustre e facoltosa. Laureatosi giovanissi-mo in medicina ottiene a ventuno anni la cattedra di botanica, dove si distingue per lo spirito di rinnovamento scientifico e di adesione alle idee illuministiche raccogliendo riconoscimenti e fama in tutta l'Europa. Nel 1777 ottiene la cattedra di medicina teorica e successivamente quella di medicina pratica operando presso l'ospedale degli Incurabili. La sua fama si afferma sempre più e diviene medico della famiglia Reale. Tra l'altro cura la pittrice Angelica Kauffman, che gli dedica un ritratto, e Lady Emma Hamilton affetta da una grave polmonite.
Medico di grande rinomanza, pubblica numerose opere scientifiche e la sua fama lo porta anche a corte do-ve diviene medico di Ferdinando e Maria Carolina. Benché iscritto alla Massoneria, non si occupa attivamen-te di politica preferendo la ricerca scientifica e l'attività professionale. Scrive importanti trattati medici e botanici e sperimenta nuove cure per le malattie veneree. Si adopera per assistere specialmente i malati più poveri e bisognosi impegnando anche il suo patrimonio.
Nonostante la sua simpatia per le idee di rinnovamento sociale e politico e le sue amicizie con gli intellettuali francesi, Cirillo non partecipa alle attività pre- rivoluzionarie, e anche quando, proclamata la Repubblica, Championnet lo chiama ad incarichi di Governo, egli rinuncia. Si adopera invece come sempre per i più de-boli e si fa interprete di un progetto di Carità Nazionale.
Quando giunge il commissario Abrial, questi lo chiama a far parte della Commissione Legislativa; Cirillo tenta più volte di sottrarsi, ma è costretto "riluttante" ad accettare. Dirà Lomonaco, nel suo Rapporto al cittadino Carnot "Sempre eguale a sé stesso, sempre semplice giusto ed umano, si sforzava di medicare le ferite e le piaghe dello Stato, nel medesimo tempo che non trascurava di frequentare gli ospedali e gli asili dell'indigenza".
Caduta la Repubblica viene catturato ed imprigionato a bordo del Saint Sebastian. Il Cuoco ci riferisce che Lady Hamilton e lo stesso Nelson volevano risparmiargli la vita, ma che "egli ricusò la grazia che gli sarebbe costata una viltà".Famoso è il suo interrogatorio effettuato dal giudice Vincenzo Speciale della Giunta istituita dai Borboni con l'incarico non di valutare alla luce del diritto i reati commessi dai Giacobini Napoletani ma bensì di emettere una serie di condanne a morte. Di seguito riportiamo il testo tratto dalla biografia di Domenico Cimarosa di P.A. Fiorentini nel momento in cui Cirillo rientra, dopo il giudizio, in cella dove si trovavano gli altri Patrioti.
. . . Il suo viso sprigionava una gioia inesprimibile, una grande fierezza. I suoi occhi lanciavano lampi, e le sue mani erano tese verso Pagano e Pignatelli .
" Ebbene!" Domandò quest'ultimo con voce fremente.\ " Ebbene! Sono stato condannato a morte." \ " E cosa ti ha detto il carnefice? Poiché egli non merita l'appellativo di giudice" \ " Oh! Il mio interrogatorio non è durato molto." \ " Il tuo nome? - Mi ha chiesto Spécial" \ " Domenico Cirillo" \ " La tua età?" \ " Sessant'anni " \ "Il tuo stato?" \ "Medico sotto il dispotismo, rappresentante del popolo durante la repubblica \ "Ma bene - ha ripreso lui con furore - ma davanti a me cosa sei tu?" \ "Davanti a te, miserabile, io sono un eroe." . . .
Muore impiccato, in piazza Mercato, il 29 ottobre 1799 insieme a Mario Pagano, Giorgio Pigliacelli ed Igna-zio Ciaja. Quel giorno Napoli perde parte della sua migliore intelligenza.
Le maggiori opere di Domenico Cirillo: De Lue venerea, 1780. Fundamenta Botanica, 1785-1787.Discorsi accademici, 1789. Regolamento per la casa di carità Nazionale, 1799.

Cuoco Vincenzo
Uomo politico, storico e letterato italiano (Civitacampomarano, Campobasso, 1770 - Napoli 1823). Di-scepolo di Antonio Genovesi e di Mario Pagano, attese a studi giuridici, filosofici, storici, letterari e lesse assiduamente Machiavelli e Vico. Partecipò all'attività politica della Repubblica Partenopea del 1799, pur non condividendone a pieno gli indirizzi; condannato all'esilio al ritorno dei Borboni (24 aprile 1800) andò esule a Marsiglia e a Parigi, stabilendosi poi a Milano, dove fondò nel 1804 il Giornale Italiano, in cui dibatté i problemi contemporanei con indipendenza di giudizio. Tornato a Napoli nel 1806, dopo la conquista del regno da parte dei Francesi, fu consigliere di Stato sotto Giuseppe Bonaparte e direttore generale (in pratica ministro) del tesoro sotto Gioacchino Murat. Subito dopo la restaurazione dei Borboni una grave malattia mentale troncò la sua attività politica e intellettuale. La sua opera fondamentale è il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801; 2ª ed. accresciuta 1806), nel quale, sia per effetto della lezione vichiana sia per la lucidità con la quale l'autore aveva vissuto la sua esperienza politica, poté esercitare una critica acuta degli errori dei rivoluzionari napoletani. Il Cuoco infatti non solo vide negli eventi storici di Napoli i pericoli ai quali doveva necessariamente portare il programma di intellettuali incapaci di comprendere e di indirizzare i bisogni dei ceti popolari, ma arrivò a condannare anche l'astrattezza dei giacobini francesi, i quali si erano illusi di poter esportare la rivoluzione imponendola agli altri popoli senza valutare le loro caratteristiche nazionali e il loro passato ("rivoluzione passiva"). Altre opere importanti sono il romanzo filosofico Platone in Italia (1804-1806), che illustra le antiche istituzioni e la filosofia della Magna Grecia, e un Rapporto al re Murat per l'organizzazione della pubblica istruzione (1809).

Ferdinando I di Borbóne
Nato a Napoli nel 1751 e ivi morto nel 1825, re delle Due Sicilie (1816-1825), già FERDINANDO IV come re di Napoli (1759-1799, 1799-1806, 1815-1816), e FERDINANDOIII come re di Sicilia (1759-1816).
Terzogenito di Carlo III, re di Spagna, e di Maria Amalia di Sassonia, salì al trono nel 1759 e governò, data la sua giovane età, per mezzo di un consiglio di reggenza, di cui facevano parte Bernardo Tanucci e il principe di San Nicandro. Nel 1768 sposò Maria Carolina d'Absburgo, il cui temperamento autoritario si impose sul debole consorte, che, licenziato il Tanucci (1777), si lasciò guidare dalla moglie e dal suo favorito, il ministro Acton. Tuttavia, nel primo periodo del suo regno, Ferdinando favorì, nel clima dell'assolutismo illuminato, una politica di riforme mirante a ridurre il peso dei residui feudali e a limitare la potenza del clero
(in seguito al terremoto che sconvolse Messina nel 1783, ad esempio, allo scopo di far rinascere la città attrasse operatori in ogni campo con una saggia politica di tolleranza religiosa e promosse, attraverso la formula del "porto franco", efficacemente e rapidamente l'economia della città - con lo stato unitario, per i simili eventi del 1908, cento anni dopo si registrano ancora sacche di indigenza). Le preoccupazioni suscitate dalla Rivoluzione francese nella corte posero però fine a questi tentativi riformistici; Ferdinando aderì così alla prima coalizione contro la Francia (1793), e adottò dure misure contro quanti simpatizzavano per le idee rivoluzionarie. Nel 1798, violando un trattato concluso nel 1796, si lasciò indurre ad attaccare i Francesi che occupavano Roma, i quali però lo sconfissero, entrarono a Napoli e lo costrinsero a rifugiarsi in Sicilia, mentre nella capitale veniva proclamata la Repubblica Partenopea.
Rientrato a Napoli dopo pochi mesi con l'aiuto degli Inglesi, Ferdinando scatenò una dura reazione contro i repubblicani, scavando tra monarchia e ceti colti un solco che non sarebbe più stato colmato. Costretto poi a una pace umiliante da Napoleone (armistizio di Foligno, 1801), riprese le armi mentre l'imperatore era impe-gnato nella campagna del 1805 contro gli Austro-Russi; ma, ancora battuto, perdette di nuovo la parte conti-nentale del regno (data da Bonaparte al fratello Giuseppe, 1806, e poi a Gioacchino Murat), riparando in Si-cilia dove, per le pressioni inglesi, dovette allontanare Maria Carolina e concedere la costituzione del 1812. Rientrato a Napoli dopo il congresso di Vienna, abolì la costituzione e unificò i suoi domini in un solo regno (1816). Fiero nemico delle idee liberali, dovette consentire al ministro Medici di attuare nel quinquennio 1815-1820 la cosiddetta politica dell'"amalgama", vale a dire una politica di compromesso tra il partito "francese" e quello borbonico, e fu costretto nel 1820 a venire a patti con la rivoluzione iniziata dai carbonari e capeggiata poi dal generale Guglielmo Pepe, e a concedere la costituzione. Ma poco dopo, recatosi al con-gresso di Lubiana, provocò l'intervento della Santa alleanza, e fece occupare il suo Stato dagli Austriaci, ristabilendo il regime assoluto (1821). Durante il suo lungo regno venne riordinata tra l'altro l'università di Na-poli (1777) e fondata quella di Palermo (1805), furono incrementati gli scavi di Pompei ed Ercolano e creata la colonia di San Leucio (Caserta), organizzata secondo criteri egualitari di stampo rousseauiano.

Gaetano Filangieri
Principe di Arianello, giurista e pensatore italiano (nato a Napoli nel 1752 - Vico Equense, Napoli, 1788). Nel 1766 divenne alfiere del reggimento Sannio, che lasciò nel 1769 per dedicarsi agli studi storici, giuridici e letterari. Nel 1774 pubblicò le riflessioni politiche, in cui difendeva una disposizione del Re Carlo III che mirava a eliminare gli arbitri del ceto forense. Nel 1777 divenne gentiluomo di camera del Re.
Contemporaneamente andò elaborando la sua grande opera, la scienza della legislazione pubblicata dal 1780 al 1785 in sette volumi, improntata al razionalismo illuministico. La scienza individua con chiarezza molti mali storici del Regno di Napoli (abusi feudali, sperequazioni nella distribuzione della proprietà terriera, eccessiva ricchezza del clero, tristi condizioni dei contadini) e ne vuole indicare le soluzioni (rafforzamento dei poteri del sovrano illuminato, creazione di un vasto ceto di piccoli proprietari, uguaglianze civili, libertà commerciale, imposta unica sul prodotto netto delle terre, educazione pubblica ecc.).
La scienza, tradotta in francese, in tedesco, in spagnolo, fu una delle fonti ispiratrici del pensiero e dell'opera del ceto liberale meridionale, e in primo luogo dei "Giacobini" della Repubblica Partenopea del 1799.
Uomo illuminato, Filangieri fu stimatissimo in Europa lo consultò B. Franklin, lo visitò Goethe, e Napoleone disse di lui che era "maestro di tutti".

Eleonora Pimentel Fonseca
Nasce a Roma il 13 gennaio 1752, in via di Ripetta 22, da genitori portoghesi. A dieci anni la famiglia si tra-sferisce a Napoli e grazie allo zio, l'abate Antonio Lopez, studia greco e latino e scrive poesie giovanili di gusto arcadico. A 18 anni invia a Metastasio i suoi primi componimenti e inizia con lui una corrispondenza durata fino alla morte del poeta. La fanciulla è molto intelligente e precoce, ed intrattiene rapporti e corri-spondenze epistolari con i maggiori letterati europei, da Voltaire a Goethe ed a Filangieri.Frequenta la casa di Gaetano Filangieri ove incontra Domenico Cirillo, Ferdinando Galiani, il massone Antonio Jerocades, Ma-rio Pagano, Francesco Conforti, Melchiorre Delfico, Carlo Lauberg, Gabriele Manthonè e Ignazio Ciaia. Entra nell'Accademia arcadica dei Filaleti col nome di Epolifenora Olcesamante. Per il matrimonio di Ferdinando IV e Maria Carolina scrive Il tempio della gloria e per la nascita del loro primo figlio maschio, La nascita di Orfeo. Per i suoi meriti viene ricevuta a Corte dove le viene concesso un sussidio come bibliotecaria della Regina. Stabilisce rapporti epistolari con Voltaire e si abbona all' Encyclopédie del Diderot.Nel 1778 Eleo-nora sposa il capitano Pasquale Tria de Solis, ma il suo sarà un matrimonio infelice. Nel giugno del 1779 perde il figlio Francesco di appena otto mesi, e poco dopo, perde un altro figlio per aborto procurato dalle percosse del marito dal quale riuscirà a separarsi nel 1786. Nel 1789 scrive Componimenti poetici per le leg-gi date alla nuova popolazione di San Leucio da Ferdinando IV. Poco dopo un sonetto in dialetto per l'abolizione della Chinea. Gli ideali della rivoluzione Francese infiammano lo spirito anche di Eleonora che si getta nell'impegno politico per l'affermazione della libertà e per il progresso delle classi meno fortunate, tan-to da introdurre nascostamente, durante un ricevimento a Corte, alcune copie in italiano del testo della Costituzione approvata dall'Assemblea francese. Nel dicembre del 1792, quando giunge a Napoli la flotta francese per ottenere il riconoscimento della recente Repubblica Francese, la Pimentel è tra gli ospiti del comandante La Touche-Treville e finisce sui registri della polizia borbonica. Il 5 ottobre del 1798 la polizia le perquisisce casa e poiché vengono rinvenute alcune copie dell'Encyclopédie la arrestano e la portano nelle dure carceri della Vicaria. Riacquista la libertà nei primi giorni del 1799 durante il periodo di anarchia popolare succeduto a Napoli dopo la fuga del Re e della Corte a Palermo. Partecipa alla conquista del forte di Castel Sant'Elmo e alla proclamazione, il 21 gennaio 1799, della Repubblica Napoletata "una e indivisibile". Per diffondere gli ideali della rivoluzione e della neonata repubblica, Eleonora accetta, su invito del Governo Provvisorio, l'incarico di dirigere il primo periodico politico di Napoli: Il Monitore Napoletano. Un foglio con atti e comunicati del Governo, ma assolutamente indipendente, come quando si tratta di denunciare le ruberie francesi con appassionati editoriali della stessa Pimentel. Del Monitore Napoletano verranno stampati 35 numeri bisettimanali dal 2 febbraio all'8 giugno.Quando le orde del Cardinale Ruffo giungono alle porte di Napoli e si capisce che la Repubblica sta per morire, si rifugia in S.Elmo e finisce nella lista dei capitolati. Ferdinando, come è noto, non rispetterà la capitolazione ed Eleonora verrà condannata a morte per avere osato parlare e scrivere contro il Re. Sale al patibolo il 20 agosto e prima di morire cita Virgilio: " Forsan et haec olim meminisse juvabit " ( Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo). Recentemente, proprio nei giorni del bicentenario della sua morte, Il professore Giorgio Fulco dell'Università di Napoli ha rinvenuto 18 lettere della Pimentel Donseca indirizzate ad Alberto Fortis. Attendiamo la prossima pubblicazione da parte dell' Università stessa. Gli storici riferiscono che il corpo di Eleonora Pimentel Fonseca fu seppellito in una piccola Chiesa nei pressi di Piazza Mercato dedicata a S. Maria di Costantinopoli. Purtroppo si ritiene che questa Chiesetta sia stata demolita e s'ignora se poi, quando e dove le salme sepolte siano state trasferite. Anche Benedetto Croce, che fu molto amico di un suo nipote, l'avvocato Raffaele Fonseca, morto più che ottantenne, non riporta di più.

Le opere di Eleonora Pimentel Fonseca:
1768 In occasione delle nozze di Ferdinando IV con Maria Carolina d'Austria, scrive un lungo e complesso epitalamo: Il tempio della Gloria.
In occasione delle nozze di Gherardo Carafa, conte di policastro, con Maddalena Serra di Cassano, scrive un sonetto, inserito in una raccolta miscellanea curata da Luigi Serio, dal titolo: Componimenti per le nozze dell' Eccellentissimo signore D.Gherardo Carafa Conte di Policastro, Duca di Forlì ec. Con l'Eccellentissima Signora D. Maddalena de'Duchi di Cassano, e dell'Eccellentissimo Signore D. Luigi Serra di Cassano, Marchese di Strevi ec. con l'Eccellentissima Signora D. Giulia Carafa de' Principi della Roccella.
1771 Un sonetto di Eleonora de Fonseca Pimentel è pubblicato, in occasione della morte di Monsignor Giovanni Capece, vescovo di Oria, nella raccolta miscellanea curata da Michele Arditi, intitolata: Componimenti per la morte di D. Giovanni Capece De'Baroni di Barbarano, Patrizio del Sedile di Nido, Vescovo di Oria. Scrive due epigrammi latini, Ad auctorem e Ad eundem, pubblicati nella premessa al libro di Fr. Victorio de Santa Maria, intitolato: Docirina Christa e rosario de Nossa Senhora composta en metro.
1773 In occasione della nascita della secondogenita di Maria Carolina d'Austria e Ferdinando IV, la principessa Maria Luisa, Eleonora scrive un sonetto: A Maria Carolina Regina delle due Sicilie per l'Augustissimo parto d'una seconda Bambina. Un altro sonetto è pubblicato nella raccolta curata da Luisa Bergalli, in onore di Caterina Dolfin, intitolata: Rime di donne illustri a Sua Eccellenza Caterina Doffina Cavaliera e Procuratessa Tron nel gloriosissimo in-gresso alla dignità di Procurator per merito di San Marco di Sua Eccellenza Cavaliere Andrea Tron.
1775 Partecipa, con un sonetto, alla redazione dei Componimenti poetici per le Felicissime Nozze di Sua Ec-cellenza, il Signor D. Vincenzo Revertera Duca della Salandra e & C. Coll'Eccellentissima Signora D. Beatrice De Sangro. Per la nascita dell'erede al trono Carlo Tito di Borbone, Eleonora scrive una cantata: La nascita di Orfeo.
1777 Scrive Il Trionfo della virtù, un componimento drammatico dedicato al Marchese di Pombal, primo Ministro portoghese, che era stato vittima di un fallito attentato.
1779 Il 25 giugno le muore il figlio ed Eleonora compone per lui i Sonetti di Altidora Esperetusa in morte del suo unico figlio. Qualche mese più tardi sarà vittima di un pericoloso aborto, in seguito al quale comporrà l'Ode elegiaca per un aborto nel quale fu maestrevolmente assistita da M.r Pean il figlio.
1780 In occasione dell'apertura della Reale Accademia delle Scienze e Belle Lettere, avvenuta il 5 maggio, Eleonora scrive un sonetto, pubblicato in una raccolta dal titolo: Nella solenne apertura della Reale Accademia delle Scienze e Belle Lettere alla Maestà della Regina.
1781 Scrive La Gioia d'Italia. Cantata per l'arrivo in Napoli del Granduca e della Granduchessa delle Russie, in occasione della visita a Napoli dei Granduchi di Russia Paolo Petrowitz e Maria Federowna. In appendice alla cantata pubblica anche un sonetto: Alla Cesarea Imperial Maestà di Caterina II imperatrice autocratrice delle Russie.
1782 Per celebrare il ritorno dalla Sicilia dei sovrani, avvenuto il 7 settembre 1785, Eleonora compone una cantata, Il Vero Omaggio.
1789 Per la fondazione della colonia regia di San Leucio, Domenico Cosmi cura una raccolta di componimenti, dal titolo Componimenti poetici per le Leggi date alla nuova Popolazione di Santo Leucio da Ferdinando IV re delle Sicilie. Eleonora partecipa alla raccolta con un sonetto: Cinto Alessandro la superba fronte. In occasione dell'abolizione della Chinea da parte di Ferdinando IV, scrive un sonetto in napoletano.
1790 Traduce dal latino l'opera di Niccolò Caravita, Niun diritto compete al sommo pontefice sul Regno di Napoli, corredandola di una premessa e di note illustrative.
1791 Dedica a Carlotta di Borbone, principessa del Brasile, un oratorio sacro, La Fuga in Egitto. Nello stesso anno traduce dal portoghese l'opera di Antonio Pereira de Figueredo, Analisi della professione di fede del Santo Padre Pio IV.
1799 Durante la Repubblica Napoletana è direttrice e compilatrice del "Monitore Napoletano" dal 2 febbraio all'8 giugno.
Le poesie
Da mamma disperata: Figlio, tu regni in cielo, io qui men resto \ Misera, afflitta, e di te orba e priva… \ Figlio, mio caro figlio, ahi! l'ora è questa \ ch'io soleva amorosa a te girarmi, \ e dolcemente tu solei mirarmi \ a me chinando la vezzosa testa. \ Del tuo ristoro indi ansiosa e presta \ i' ti cibava; e tu parevi alzarmi \ la tenerella mano, e i primi darmi \ pegni d'amor: memoria al cor funesta!
Al re: E quindi lieto Ferdinando \ Del gran borbonio stelo \ Emula questa \ Al biondo crine e dal ceruleo ciglio, \ Indi Carolina . . . \ All'armonica voce, \ Alla mente sublime \ Al nobil cor che appariralle in volto, \ Di Calliope sarà imitatore \ Quegli d'apollo. \\ Ad esso \ In dolce nodo avvinto \ Il magico trono . . . \ L'alma grande, il grande ingegno \ Su cantiam del nostro Re.\ L'età di Ferdinando \ ogni altra avanzerà che l'alme illustri \ dai regi sguardi accese \ ardite moveranno a nuove imprese \ propagherassi allor \ col verace sapere \ la verace virtude . . .
Contro Maria Carolina: Rediviva Poppea, tribade impura,\ d'imbecille tiranno empia consorte \ stringi pur quanto vuoi nostra ritornata \ l'umanità calpesta e la natura . . . \ Credi il soglio così premer sicura, \ E stringer lieto il ciuffo della sorte? \ Folle! E non sai ch'entro in nube oscura \ quanto compreso è il tuon scoppia più forte \ Al par di te mové guerra e tempesta \ sul franco oppresso la tua infame suora \ finché al suol rotò la indegna testa . . . \ E tu, chissà? Tardare ben può ma l'ora \ segnata in ciel è un sol filo arresta \ la scure appesa sul tuo capo ancora.
LA CHINEA (il testo è riportato nel capitolo canti)
L
Galiano Ferdinando
Economista italiano nato a Chieti nel 1728 e morto a Napoli nel 1787. Si mise subito in evidenza, scrivendo all' età di 23 anni il trattato "DELLA MONETA", in cui esponeva con insolita limpidezza una teoria del valore tenuto conto dell' utilità e quantità dei beni in commercio. Successivamente trascorse un breve periodo a Parigi, scrisse una nuova opera con la quale combattè il liberismo assoluto. Tornato a Napoli ebbe con gli amici francesi una fitta corrispondenza che costituisce il suo capolavoro. Mostrò vivo interesse per il teatro, soprattutto musicale.


Genovesi Antonio ( 1713 Castiglione - 1769 Napoli)
Filosofo ed economista ordinato sacerdote nel 1737, docente di metafisica ed etica nell'università di Napoli, aderì all'illuminismo francese e prese posizione contro la scolastica nella sua Metafisica ( 1743- 47) e nelle opere successive (Discorso sul vero fine delle lettere e delle scienze, 1753; Meditazione filosofica, 1758).
Non avendo potuto ottenere per questa ragione la cattedra di teologia, rischiò anzi di essere arrestato com'eretico, si dedicò agli studi d'economia, seguendo gli orientamenti fisiocratici per quanto concerne la funzione decisiva attribuita all'agricoltura e al libero commercio del grano, e quelli mercantilistici per quanto riguarda la difesa del protezionismo industriale e il principio della bilancia commerciale attiva.
Nel 1754 ricoprì a Napoli la prima cattedra d'economia istituita in Europa. Autore del trattato Delle lezioni di commercio, ossia d'economia civile propose anche la necessità di una scuola elementare gratuita e genera-lizzata e propugnò una riorganizzazione della scuola superiore fondata sulla priorità dell'insegnamento scientifico.

Annibale Giuseppe Nicolo' Giordano - insigne matematico e grande patriota (1769 - 1835)
Annibale Giordano nacque il 20 novembre 1769 ad Astalonga una frazione di S. Giuseppe d'Ottajano oggi Comune di S. Giuseppe Vesuviano da Michele Giordano e da Maria Gaetana Tenore (come si evince dal VI libro dei battezzati della parrocchia di s. Giuseppe Vesuviano a pag 100). Annibale fu il primo di cinque figli; dopo di lui nacquero Caterina, Michele-Girolamo, Saverio e Luigi.
Fin dalla prima età egli mostrò di avere una grande inclinazione allo studio e si racconta che a dieci
anni conosceva già, sufficientemente, la storia latina e greca ed i maestri lo licenziarono non avendo altro da fargli apprendere.
Suo padre Michele, medico di Ferdinando IV di Borbone e di Luigi dei Medici, Principe di Ottaviano, cono-sciuto l'ingegno precoce del figlio, stimò bene di condurlo a Napoli e lo affidò alle cure di un professore di grande fama, Nicolò Fergola,. Dopo non molto tempo Annibale diveniva emulo del maestro e, slanciatosi nelle gare, fulminò il Colecchi, rivale del Fergola.
A 15 anni, nel 1786, presentò alla Reale Accademia delle Scienze di Napoli una sua memoria sopra
un " nuovo metodo da risolvere problemi di sito e di posizione " in continuazione di ricerche del suo
maestro Fergola e intitolato semplicemente: " Continuazione del medesimo argomento ". La mem
ria destò grande ammirazione; l'autore fu profetizzato " NUOVO PASCAL";
il Presidente dell'Accademia gli concesse di partecipare alle sedute; il Re gli assegnò un sussidio mensile sui fondi accademici, perché continuasse gli studi matematici.
L'anno seguente, "mentre il maestro spiegava un argomento di analisi matematica al Marchese Berio, il gio-vane Annibale, si ritirò in disparte e si mise a leggere nel volume del matematico Pappo il lemma "iscrivere in un circolo un triangolo rettilineo, i cui lati distesi passino per i punti dati".Ben presto lo si vide brillare di gioia nell'aver conseguita la rapportata soluzione del problema", alla quale si erano lambiccati il cervello molti Matematici: Mandatala per giudizio al celebre matematico Anton Maria Lorgna, presidente della Società Italiana di Matematica e Fisica, parve a costui di tanto interesse che inserì subito la memoria del Giordano nel quarto volume delle memorie della detta società, avvertendo che il manoscritto gli era pervenuto il 2 ottobre 1787 e che allora l'autore aveva 18 anni. La memoria intestata ad Annibale, è così intitolata: " Considerazioni sintetiche sopra di un celebre problema piano e risoluzione di alquanti altri problemi affini "
Questa memoria dette fama al suo nome anche all'estero; il grande matematico francese Lazare Carnot, a-vuto fra le mani il lavoro del Giordano lo giudicò di somma importanza e asserì che il giovane matematico napoletano era riuscito a fare ciò che nessuno aveva fatto, neppure il famoso matematico ed astronomo russo Anders Johann Lexell (1740-1788).
In uno scritto il predetto Carnot espresse questo giudizio: " Ottajano (era il nome, desunto dal paese di nascita, con cui Annibale era conosciuto all'estero) à l'age de seize ans trova non seulement une solution synthètique extremement élégante de ce probleme, mais il lui donna tout la genénéralité possible en l'appliquant aux polygones inscrits d'un nombre qualquonque de cotés". Nel 1787 (a soli 18 anni) il Giordano fu fatto professore dell'Accademia Militare Napoletana, in seguito fu esaminatore per le Accademie Militare e di Marina e nominato socio residente, autore della Reale Accademia delle Scienze.
Nicolò Fergola ne aveva tale stima che nel 1787 diceva: " Questo giovanetto della cui amicizia sono da quat-tro anni onorato" cosa che non sappiamo se facesse onore all'alunno o al maestro; ed in certi suoi appunti lasciò scritto: "Quando io proposi al Collegio nostro militare D. Annibale Giordano, feci conoscere ai Francesi ed all'alta Italia che il più grande e il più giovane geometra insegnava tra noi". In seguito divenne commissario di esami nell'Accademia Militare e di Marina e in qualità di autore fu annoverato tra i membri della Reale Accademia delle Scienze del Regno di Napoli.
Caduto in sospetto della polizia per le sue idee giacobine, fu privato dell'insegnamento accademico. Egli nel 1790 insieme con Carlo Lauberg, al vicolo Giganti n° 2, in Napoli, aprì una scuola privata di chimica e matematica molto frequentata.
Tale scuola divenne non solo focolaio di cultura scientifica, ma anche un focolaio di idee rivoluzionarie, le quali già pullulavano qua e là in tutto il regno napoletano.
Tra gli studenti della predetta scuola erano Mario Pagano, Emanuele De Deo molti altri giovani, che divenne-ro i capi storici del Giacobismo Napoletano.
Il Giordano in collaborazione con l'amico Lauberg pubblicò un volume: " Principi analitici delle matematiche di Annibale Giordano e Carlo Lauberg ": in Napoli presso Gennaro Giaccio. Il primo volumetto, di pagine ven-ti, comprende l'aritmetica ed il secondo, di pagine novanta, comprende la geometria.
Giunta in Napoli la notizia che in Francia era scoppiata la Rivoluzione, il Giordano vide il momento di attuare i suoi ideali patriottici. Nell'agosto del 1794 fu tra i fondatori della società segreta denominata "Società Pa-triottica". Venne pertanto arrestato insieme con il fratello Girolamo Michele e molti altri: furono tutti rinchiusi nel Castello dell'Ovo. I due Giordano tentarono di evadere, ma mentre Michele riuscì a fuggire, Annibale venne subito acciuffato. Fattosi il processo, fu condannato alla pena di 20 anni di carcere e venne mandato a scontarla nel Castello dell'Aquila negli Abruzzi. Occupata Napoli nel 1799 dalle truppe francesi al comando del generale Championnet, tutti i detenuti politici furono liberati. Si rivide con il fratello Michele, che dalla Francia, dove era scappato, era ritornato a Napoli con i francesi. Annibale il 23 gennaio 1799 partecipò alla proclamazione della Repubblica Napoletana nella quale ebbe importanti mansioni. Il 27 maggio del 1799 cadde l'effimera repubblica e così tutti i patrioti furono arrestati e processati. Tra questi c'era logicamente Annibale Giordano. Il giudizio per lui fu molto duro: fu condannato alla forca; il fratello Michele Girolamo ebbe l'ergastolo. Nel medesimo processo venne condannato anche il padre dei due Giordano per l'appoggio prestato loro: nonostante fosse il medico di fiducia del re, meritò la condanna di 10 anni di esilio coatto.
La regina Maria Carolina intercesse presso il re e così la pena di morte fu permutata in carcere a vita.
Con l'aiuto di amici fedelissimi, i due fratelli riuscirono ad evadere dalle carceri e potettero raggiungere la Francia. I due fratelli in Francia furono molto stimati per la loro coerenza agli ideali politici. Venne dato loro l'incarico di Geometri capo del Dipartimento dell'Aube, nelle vicinanze di Parigi. Meritarono la cittadinanza francese dal re Luigi XVIII: Annibale nel 1815 e l'altro nel 1824.
I due fratelli abitarono nella cittadina di Troyes, nella contea di Champagne dove ancora oggi è conservato un busto marmoreo raffigurante Annibale e dove lo stesso morì il 13 marzo 1835.
Lomonaco Francesco (Montalbano Ionico, 1772 - Pavia, 1810). Patriota.
Si accostò ai circoli giacobini presenti in città e nel 1799 sostenne la Repubblica con un'intensa azione pub-blicistica. Tornati i Borboni, fu esule prima in Francia e poi a Milano. Fu autore di un "Rapporto sulle segrete cause e su' principali avvenimenti della catastrofe napoletana e delle Vite degli eccellenti italiani" (1802). A-vuta una cattedra presso la Scuola militare di Pavia, sostenne la causa dell'indipendenza e dell'unità d'Italia alienandosi, così, la simpatia del Governo Filonapoleonico. Morì suicida.


Metastasio Pietro
Pietro Antonio Domenico Ventura Trapassi, detto poi alla greca Metastasio nacque a Roma da famiglia borghese di condizione modesta il 3 gennaio 1698. Adottato da Gravina nel 1708, fu affidato da questi dal filosofo cartesiano Abate Gregorio Caloprese, presso il quale compì studi filosofici. Alla morte del Gravina, che lo lasciò erede di gran parte dei suoi averi ,venne accolto nell'Accademia dell'Arcadia (col nome pastorale di Artino Corasio) e quindi a Napoli, in un studio d'avvocato, fece pratica legale. Già autore di una tragedia, Giustino (composta nel 1712 e pubblicata con altri versi nel 1717 col titolo Poesie di Pietro Metastasio), di alcune canzonette, della cantata Gli orti Esperidi (1721: con musica di Nicola Porpora) e di diversi epitalami, Metastasio rappresentò al teatro San Bartolomeo di Napoli, nel 1725, il melodramma Didone abbandonata, interpretato dalla celebre cantante Marianna Bulgarelli (detta <La Romanina >) che gli rimase fedele protettrice, amica e interprete.
Al seguito della Bulgarelli fu a Venezia e a Roma. Collaboratrice di numerosi noti musicisti del tempo, rice-vette nel 1729 l'invito di recarsi alla corte degli Asburgo a Vienna in qualità di poeta cesareo succedendo ad Apostolo Zeno. A Vienna, dove si recò nel 1730, compose numerosi melodrammi feste teatrali, drammi di argomento vario, versi e testi di gusto vario per occasioni di corte. Nella corte degli Asburgo il Metastasio rimane fino alla morte, avvenuta il 12 aprile 1782, poco dopo la morte dell'imperatrice Maria Teresa (1780) da cui come prima dall'imperatrice Carlo VI aveva avuto ricevuto numerosi benefici e onori.
Protetto dalla contessa Marianna D'Althann, che fu l'artefice della sua chiamata a Vienna e che morì nel 1755, il Metastasio lavorò assai attivamente in tutto il corso della sua vita, anche nell'età avanzata, ospite dei fratelli Martinez, Marianna (che fu sua allieva) e Giuseppe (che si dedicò anche alla raccolta dell'epistolario della scrittore). Il Metastasio affermò, invece che il melodramma era un genere regolare in quanto anche le tragedie degli antichi erano un insieme di recitazione e canto.

Nelson Horatio
Burnham Thorpe, Norfolk, 1758 al largo di capo Trafalgar 1805 militare Inglese. Figlio di un parroco anglica-no, entrò in marina a soli dodici anni e partecipò a spedizioni nelle Indie Occidentali e nell'Artico (1773). Nel 1777 fu nominato luogotenente di vascello e nel 1779, poco più che ventenne ebbe il grado di capitano di fregata. Nelle ultime fasi della guerra di indipendenza americana prese parte alle operazioni della flotta in-glese nelle Indie Occidentali e in Canada (1780-83), ma senza segnalarsi particolarmente. Nel decennio se-guente, dapprima militò nella flotta delle Antille, poi rimase inattivo in patria, finché allo scoppio delle ostilità con la Francia rivoluzionaria (1793) fu invitato al comando della fregata Agamemnon nel mediterraneo, agli ordini dell'ammiraglio S. Hood, e prese parte all'assedio di Tolone. L'anno seguente, nelle operazioni per la conquista della Corsica, durante l'assedio di Calvi riportò una grave ferita che gli costò la perdita dell'occhio destro. Intanto il distacco della Spagna dalla prima coalizione induceva W. Pitt a rallentare le operazioni na-vali nel Mediterraneo, e Nelson fu incaricato di rimpatriare la guarigione inglese dell'Elba e di ricongiungersi con la flotta che ora era agli ordini dell'ammiraglio J. Jervis. Prima di ritirarsi dal Mediterraneo, tuttavia, gli inglesi attaccarono la flotta spagnola a Cabo San Vicente (febbraio 1797) e a Santa Cruz del Tenerife (luglio 1797). In ambedue queste battaglie Nelson giocò una parte di primo piano imponendo la lotta a distanza ravvicinata, applicando cioè quella tattica di attacco a cui sono legati i suoi maggiori successi. A Santa Cruz fu nuovamente ferito e dovette subire l'amputazione del braccio destro. Dopo un breve periodo di riposo trascorso in Inghilterra, l'anno seguente riprese a navigare, col grado di contrammiraglio, sempre agli ordini di Jervis nella flotta che aveva base a Cadice. Ebbe allora l'incarico di sorvegliare la flotta francese che da Tolone si apprestava all'impresa d'Egitto. La mancanza di vascelli per l'esplorazione lo introdusse a sperimentare la tattica del "blocco aperto" o a distanza dai porti, che gli permetteva di controllare gran parte della costa. Questo sistema permise tuttavia alla flotta nemica di sfuggirgli e di raggiungere Malta e poi l'Egitto. Nelson allora, privo di indicazioni precise, inseguì la flotta di Bonaparte, la raggiunse nella rada di Abukir (1° agosto 1798), l'attaccò e la distrusse, bloccando i Francesi in Egitto. Questa vittoria, che comprometteva la fama di imbattibilità di Bonaparte, gli valse la considerazione degli alleati: giunto a Napoli poco dopo, fu accolto con onori trionfali, anche grazie all'influenza di Emma Lyons (la moglie dell'ambasciatore inglese W. Hamilton, alla quale era legato da anni). Ebbe quindi un ruolo importante nell'organizzare le operazioni di Ferdinando IV contro la Repubblica Romana, che, secondo i suoi piani, avrebbe dovuto essere assalita dalle truppe napoletane mentre la flotta inglese, occupava Livorno, avrebbe impedito la ritirata dell'esercito francese. Ma la sconfitta del generale Mack fece fallire il piano e provocò l'invasione del Regno di Napoli da parte del generale J.-E. Championnet. La città insorgeva e a Nelson non restò che il compito di organizzare la fuga della corte a Palermo, mentre a Napoli veniva proclamata la Repubblica ne gennaio 1799 (Napoletana, Repubblica). Alla caduta della Repubblica Napoletana (giugno 1799) Nelson, su pressione di lady Hamilton, intima amica della reazionaria Maria Carolina, non rispettò le clausole della capitolazione firmata dal cardinale F. Ruffo con i capi giacobini e pretese la loro resa senza condizioni, per poi consegnarli al Borbone che a decine li fece condannare a morte. Inoltre Nelson si as-sunse la responsabilità di far impiccare l'ammiraglio F. Caracciolo, che aveva cercato asilo sulla sua nave. Questo comportamento, mentre gli valse la nomina a duca di Bronte da parte di Ferdinando IV, lo rese impopolare anche in patria, tanto che fu richiamato con gli Hamilton. Ai primi del 1801 ebbe da Emma una figlia, cui pose il nome di Horatia. Ritornato poco dopo in servizio, fu nominato viceammiraglio agli ordini di Hynato Parker e destinato alla flotta che operava nel mare del Nord contro la lega dei neutri. Condusse allora l'attacco al porto di Copenaghen dove distrusse la flotta danese (2 aprile 1801). Tornato in patria fu nominato visconte e comandante in capo della flotta del Mediterraneo e poté godere di un breve periodo di riposo grazie alla pace di Amiens con la Francia (1802). Al riaprirsi delle ostilità (1803) fu di nuovo nel Mediterraneo, dove per circa due anni pose il blocco alla flotta francese concentrata a Tolone. Tuttavia l'ammiraglio Villeneuve riuscì a sfuggire con la flotta alla sua guardia e a raggiungere le Antille (1805) con l'intento di assalire l'Inghilterra. Nelson lo inseguì in un'epica crociera e lo costrinse a ritornare verso l'Europa, dove fu bloccato a Cadice dalla seconda flotta inglese al comando di C. Collingwood. Il 21 ottobre 1805 Nelson raggiunse Collingwood e attaccò la flotta francese nei pressi di Trafalgar, distruggendola quasi totalmente (solo dieci delle 33 navi tornarono, gravemente danneggiate, in porto). Tramontarono così definitivamente le speranze di Napoleone di invadere l'Inghilterra. Ferito alla schiena dalla fucileria francese, il comandante morì poco dopo l'annuncio della vittoria sul ponte della sua nave, e fu sepolto nella cattedrale di San Paolo. Il suo spirito indipendente, l'arte del comando, l'efficacia della sua tattica (straordinaria fu la sua capacità di impostare e condurre le manovre in modo da sfruttare fulmineamente gli errori del nemico e concentrare le forze nel punto più debole del suo schieramento), l'energia e lo sprezzo del pericolo, hanno fatto di lui uno dei più popolari eroi inglesi. In Italia, il giudizio durissimo degli storici della rivoluzione napoletana , V. Cuoco e soprattutto P. Coletta ("L'uomo sino allora onoratissimo, chiaro in guerra, non vergognò di farsi vile ministro di voglie spergiure e tirannie"), ripreso da Croce, pesa tuttora in modo negativo sulla sua figura.
LORD D'AZZARDO: L'INGANNO E IL TERRORE Nelson ha sempre detestato Napoli. La città che in quegli anni offriva al mondo i tesori d'Ercolano e Pompei, le eruzioni del Vesuvio, la musica migliore d'Europa, era semplicemente per lui <<un paese di poeti e perditempo, di prostitute ed imbroglioni>>. Per un fenomeno strano i napoletani - e in particolare quella parte di essi che un tempo s'usava definire<<la plebe>> - invece adoravano Nelson. Già nel settembre del 1793, quando comandava l'H.M.S. Agamannon, aveva ricevuto a Napoli accoglienze trionfali. La notizia dell'occupazione di Tolone - e ancor più quella dell'incredibile cattura della flotta francese - avevano fatto esplodere di gioia la capitale. Ferdinando IV, invitò Nelson a cena alla Reggia di Portici, e volle che quel semplice Capitano di vascello sedesse alla propria destra, un fatto senza precedenti secondo l'etichetta di corte. Ma questo non è niente rispetto alle accoglienze che Nelson ricevette il 22 settembre 1798, quando con la sua flotta arrivò a Napoli dopo la strepitosa vittoria di Aboukir. Miss Cornelia Knight, nella sua Autobiografia, così descrisse la scena: <<Sarebbe impossibile immaginare uno spettacolo più bello e più animato di quello offerto dalla baia di Napoli in quel momento. La folla di barche, e quella degli spettatori che attendevano sulla riva, era immensa. Il Re di Napoli aspettava in mezzo al mare, a bordo del lancione reale. Bande musicali napoletane suonavano gli inni nazionali inglesi: "Dio salvi il Re" e "Britannia domina le onde". Ferdinando IV salì a bordo della Vanguard, e venne ricevuto da Sir Horatio>>con rispetto, ma senza imbarazzo>>. Il povero ammiraglio era ridotto in condizioni miserande. Distrutto dalla stanchezza, privo d'un braccio, cieco d'un occhio, aveva il capo fasciato da una benda che gli copriva la ferita riportata ad Aboukir. Il sovrano volle visitare la nave, e incontrare i feriti nell'infermeria. Miss Knight (che faceva parte della comitiva) ricorda come, tra i tanti venuti a bordo della Vanguard per congratularsi della vittoria con Sir Horatio, avesse fatto una breve apparizione anche il brigadiere Francesco Caracciolo. L'ufficio napoletano pronunziò alcune parole di compiacimento, espresse <<con sincerità genuina>>. La cosa creò alquanto stupore, dato che Caracciolo <<aveva in passato avuto motivi di rancore, o piuttosto di gelosia, nei confronti dell'eroe del Nilo>>. Miss Knight conosceva Caracciolo abbastanza bene e dalla sua viva voce aveva, tra l'altro, appreso com'erano andate le cose durante la battaglia navale di Capo Noil (12-14 marzo 1795). Allo scontro aveva partecipato (sotto il comando dell'ammiraglio inglese Hotham) anche una flottiglia napoletana formata dal vascello Tancredi (comandato da Caracciolo) e dalle fregate Pallade e Minerva. In quell'occasione Nelson, al comando dell'Agamennon, aveva come al solito agito di testa propria, correndo avanti a tutti, smanioso com'era di attaccare i francesi. Così aveva distrutto il potente ça Ira, una nave molto più grande della sua: Caracciolo aveva raccontato a Miss Cornelia che se l'Agamennon avesse rispettato le regole, il ça Ira sarebbe toccato al Tancredi. Invece Nelson, infischiandosene degli ordini, era andato all'attacco <<passandogli avanti>>. Un comport amento <<molto sleale>>, dato che <<agli ufficiali (di marina) inglesi non mancavano opportunità per dimostrare il proprio valore, mentre gli ufficiali napoletani non avevano le stesse possibilità>>. La terza, e ultima, visita di Nelson a Napoli ebbe luogo nel 1799. Le ventiquattro navi della sua flotta spuntarono inaspettatamente all'orizzonte all'alba del 24 giugno. Stavolta l'entusiasmo non fu generale. Tra i meno entusiasti vi fu probabilmente anche il Cardinale Ruffo, il quale generose, in ogni caso contrarie agli ordini del Re. Nelson dichiarò subito di non riconoscere il trattato firmato da Ruffo. La prima cosa che fece, fu di chiedere al Cardinale d'ordinare ai ribelli di uscire dai forti e rimettersi <<alla clemenza del loro Sovrano>>. Altrimenti avrebbero fatto una brutta fine. Ruffo si rifiutò, dicendo che il trattato era stato firmato, e che bisognava rispettare gli impegni. In pratica, tra l'Ammiraglio e il Cardinale s'ebbero ventiquattro ore di battaglia epistolare, a colpi di concitati messaggi. Lo scambio culminò con un incontro tempestoso, al termine del quale ciascuno s'imputò sulle proprie posizioni. Finché a mezzogiorno del 25 si verificò una straordinaria novità. Ruffo ricevette dall'ambasciatore Sir William Hamilton (che insieme alla moglie si trovava a bordo della nave ammiraglia, l'H.M.S. Foudroyant) un sorprendente biglietto: <<Lord Nelson mi prega di assicurare Vostra Eminenza che egli è risoluto a non fare niente che possa rompere l'armistizio accordato da Vostra Eminenza ai Castelli di Napoli>>. Il foglio era stato recapitato a mano da due ufficiali inglesi. Ruffo, sorpreso dall'improvviso voltafaccia, domandò maggiori chiarimenti. Allora i due rilasciarono una dichiarazione, che però si rifiutarono di firmare. In sintesi il senso era questo: <<Lord Nelson non si opporrà all'imbarco dei ribelli e della gente che compone la guarnigione dei Castelli Nuovo e dell'Ovo>>. Insomma i ribelli potevano salire a bordo delle quattordici <<polacche>> che li aspettavano in rada, e andarsene a Tolone, come stabilito da una delle clausole della capitola-zione firmata da Ruffo. Poche ore dopo però Nelson chiarì meglio quel che aveva in mente. Spiegò d'essersi impegnato a lasciar <<imbarcare>> i ribelli, ma non a consentire la loro partenza, almeno finchè non avesse conosciuto il pensiero del Re. Gli ultimi dubbi svanirono il mattino del 28 giugno, appena Hamilton ricevette una lettera di Acton. Da quel momento le quattordici <<polacche>> si trasformarono in altrettante prigioni, e a Napoli ebbero inizio i processi della Giunta di Stato, le torture, le carcerazioni, gli esili, ed oltre cento condanne a morte.

Pagano Francesco Mario
Nasce a Brienza, in Basilicata, l'8 dicembre del 1748, Nel 1762 parte per Napoli e inizia gli studi umanistici. Diventa allievo del Genovesi ed ha, come insegnanti, il filosofo Giovanni Spena per il latino e il greco, Niccolò de Martino per la matematica, Padre Gerardo degli Angioli per la filosofia e Pasquale Cirillo per le materie di diritto. Si interessa, con l'amico Gaetano Filangieri, di criminologia.
Si laurea, giovanissimo, in giurisprudenza; lettore straordinario di etica nell'università di Napoli dal 1770, a ventisette anni prese a esercitare l'avvocatura ed ottiene la cattedra di morale, poco dopo quella di diritto criminale. Aperto alle idee dell'Illuminismo francese, e a quelle di Rousseau, ma sensibile anche all'influsso della tradizione speculativa meridionale culminata in Vico e a quello del Filangieri, pubblicò nel 1783-1785 i suoi Saggi politici dei principi, progressi e decadenza delle società, in cui si teorizzava l'adeguamento dell'uomo e della società umana alle leggi di natura come via per realizzare la libertà e l'uguaglianza, un'u-guaglianza che doveva incidere anche sul piano dei concreti rapporti sociali.
Nel 1785 pubblica i "Saggi politici", con le sua concezione del ruolo dello Stato e la sua organizzazione.
Le sue opere, "Considerazioni sul processo criminale", "Principi del codice penale", "Logica dei probabili o teoria delle prove", sono tradotte in molte lingue, e insieme alle opere del Filangieri e del Beccaria rappre-sentano il rinnovamento del pensiero giuridico illuministico del settecento. Si impegna per l' abolizione della tortura: "la confessione, estorta tra i tormenti, è l'espressione del dolore, non già l'indizio della verità".
Pubblica tre tragedie: "Il Corradino", "Il Gerbino" e "Gli esuli tebani". Scrive un monodramma lirico "L'Aga-mennone", la commedia "L'Emilia", il "Saggio del gusto e delle belle arti" ed il "Discorso sull'origine e natura della poesia".
Nel 1794 è difensore dei congiurati della "Società Patriottica" nella "Gran causa dei rei di Stato". Ma, nono-stante il suo impegno a dimostrare l'infondatezza giuridica della delazione, il processo si conclude con la condanna a morte di tre giovanissimi, l'ergastolo e l'esilio per altri 48, e due sole assoluzioni. La bravura del Pagano è tale che la stessa corte lo nomina giudice del Tribunale dell'Ammiragliato. Quando fa arrestare un avvocato corrotto, questi lo accusa - Pagano mi perseguita perché sono fedele al Re.
Con questa accusa, nel febbraio del 1796 Mario Pagano finisce in galera, dove viene trattenuto per oltre due anni senza alcun processo. Uscito dal carcere abbandona Napoli rifugiandosi prima a Roma poi a Milano. Proclamata la Repubblica, torna a Napoli il 1° febbraio del 1799, e si segnala come il principale artefice della neonata Repubblica. Due sono gli atti fondamentali che lo vedono protagonista: la legge feudale, dove probabilmente per opportunità politica, tiene un atteggiamento moderato, e il Progetto di costituzione, ispirato dalla "dichiarazione dei diritti dell'uomo e dei cittadini", e che non si riuscirà ad approvare per la breve durata della Repubblica. Arrestato e condannato a morte muore impiccato, in piazza Mercato, il 29 ottobre 1799 insieme a Domenico Cirillo, Giorgio Pigliacelli ed Ignazio Ciaja. Quel giorno Napoli perde parte della sua migliore intelligenza

Giovanni Paisiello
Figlio del maniscalco di una casa patrizia, ebbe i primi insegnamenti musicali dal tenore C. Resta; per le sue notevoli doti fu inviato a Napoli a spese di due nobili tarantini e venne inscitto al conservatorio Sant'Onofrio a Capuana a Napoli. Studiò sotto la guida di F. Durante, C. Catumacci e nel 1759 era mastricello, cioè emerito che si occupava dell'educazione dei più giovani. Nel 1763, non ancora terminati gli studi, incominciò a comporre musica sacra e un intermezzo buffo (Dama girandola).
La sua attività operistica si applicò in un primo tempo a Bologna, Parma e Venezia tra il 1764 (Il Ciarlone) e il 1766 (Le nozze disturbate).
Tornato a Napoli nello stesso anno La vedova di bel genio, nel 1767 venne rappresentato L'idole cinese, il cui successo favorì l'ammissione dell'opera buffa a corte. Assai intensa fu l'attività napoleonica: L'osteria di Marechiaro (1768), caratterizzata dall'introduzione di elementi fantastici; Don Chisciotte della mancia (1769), dove nel personaggio di Sancho vengono riversati umori comici popolari; Il duello (1774).
Dopo otto anni alla corte di Caterina II, per contrasti nell'abiente, tornò a Napoli, non senza una sosta a Vienna per scrivere Il re Teodoro in Venezia (1784), opera in cui la comicità si unisce a espressionimalinco-niche che preludono alla fortuna Nina o La pazza per amore, in scena con enorme successo nel giardino della reggia di Caserta. Paisiello non trascurò il genere serio fino dal 1765(Demetrio), accostandovisi nella maturità, con sempre maggiore frequenza. Ritornato a Napoli, fu nominato maestro di cappella e composotore di corte Ferdinando IV, ma le vicende politiche amareggiarono l'ultima parte della sua vita. Con le sue 200 produzioni teatrali Paisiello è il musicista che conclude con D. Cimarosa la stagione dell'opera settecentesca.

Pignatelli Ferdinando (Napoli 1769 - ivi 1799)
Principe di Strongoli, proveniente da una delle più prestigiose famiglie aristocratiche del regno, fu animato da ideali giacobini e rivoluzionari. Coinvolto con il fratello Mario nei processi nel 1794 - 1795, riuscì a fuggire nella Repubblica Cisalpina (1797). Tornò a Napoli con l'esercito francese(1798). Combatté valorosamente in difesa della Repubblica napoletana e fu tra i patrioti asserragliati a Castel Nuovo. Nonostante gli accordi presi per la capitolazione, fu catturato e decapitato il 30 settembre 1799, insieme al fratello Mario ed a Nicola De Meo.

Pignatelli Francesco(1734 - 1812) Principe di Strongoli.
Nobile napoletano. Nel dicembre 1798 Ferdinando IV lo nominò vicario generale del regno, con il compito di fronteggiare l'avanzata francese, mentre egli, con il resto della corte, fuggiva verso Palermo. Pignatelli, preso atto dell'impossibilità di fronteggiare militarmente i francesi, l'11 gennaio 1799 firmò un armistizio a Sparanise in base al quale i francesi avrebbero occupato circa la metà del regno ed avrebbero incassato dal Governo napoletano una contribuzione di guerra. Tuttavia, i lazzari napoletani, alla notizia della tregua, insorsero e si impadronirono dei castelli.Il vecchio principe riuscì a fuggire e raggiungere Palermo, ma qui fu fatto imprigionare dal re.

Pignatelli Mario (Napoli, 1773 - ivi, 1799)
Principe di Strongoli, nobile napoletano. Coinvolto insieme al fratello maggiore nei processi del 1794 - 1795 per attività giacobine, fuggì nella Repubblica Cisalpina. Tornò a napoli con l'esercito francese(1798) e difese valorosamente la Repubblica. Anch'egli fu vittima della reazione borbonica: decapitato.
Pignatelli Moliterno Girolamo
Principe di Napoli (Napoli 1774 -ivi 1848).Generale napoletano.Arruolò a sue spese due reggimenti di ca-valleria e contrastò valorosamente l'avanzata dei francesi a Gaeta comandati dal generale Champion-net.Quando anche il Vicario del Regno ,principe Francesco Pignatelli di Strongoli fuggì a Palermo, Girolamo Pignatelli fu acclamato "generale del popolo" dai lazzari in rivolta. Giunti i francesi alle porte di Napoli, il Moliterno, che era un aristocratico moderato, decise di favorire i patrioti giacobini e li aiutò nella conquista di Castel Sant'Elmo.Fece anche parte del Governo provvisorio della Repubblica partenopea, ma dopo l'arrivo a Napoli del cardinale Ruffo, si riaccostò alla parte monarchica. Quando i Francesi tornarono nel Regno, resistette valorosamente in Calabria. Vinto nel 1814, restò in esilio fino al 1820, quando potè ritornare in patria e ritirarsi in vita privata.

Ruffo di Bagnara Fabrizio
Nato a Castello di San Lucido (Calabria) nel 1744 muore a Napoli nel 1827.Fabrizio Ruffo, protetto dallo zio cardinale, rivestì il ruolo di tesoriere generale della Camera Apostolica.I grandi appaltatori e i feudatari gli fu-rono avversi a causa dei provvedimenti che emanò contro il vincolismo economico e la bonifica delle Paludi Pontine.In base a questo il Papa Pio VI decise di non sostenerlo deferendolo dal precedente incarico e no-minandolo cardinale nel 1791. Ritornato a Napoli, ebbe l'intendeza di San Leucio ( nei pressi di Caserta), dove Ferdinando IV aveva insediato una colonia di lavoratori di seta ed agricoltori. Nel dicembre 1798, a causa dell'invasione da parte dell'esercito francese, fuggì insieme al re a Palermo dove, dopo due mesi, eb-be l'incarico della riconquista del Regno di Napoli. Sbarcò in Calabria con sette uomini privo di denaro ed armi, fece quindi leva sui sentimenti giacobini estremamente vivi nelle masse contadine del luogo. Di fatto questi ultimi erano succubi del loro stesso fanatismo religioso e monarchico che si intrecciava con l'opposi-zione sociale ed economica verso la nuova clesse dirigente, ovvero, i proprietari borghesi. Ruffo organizzò al meglio le "bande della Santa Fede" e, dopo numerosi successi, conquistò Napoli il 13 Giugno del 1799 superando l'estrema resistenza dei patrioti republicani. Furono offerte ai perdenti onorevoli condizioni di resa, ma i patti furono violati dall'ammiraglio Nelson e dai sovrani di Napoli che fecero largo uso della repressione. Dopo questa sconfitta di carattere politico e morale Fabrizio Ruffo si ritirò deluso dalla vita politica dedicandosi a viaggi, studi di carattere militare, economica e agricola.
LA LEGGENDA NERA: RAGION DI STATO E RELIGIONE - da "IL MATTINO" - Debbo a Leonardo l'amore per i frammenti. Uno è su Fabrizio Ruffo, il cardinale che abbatté la Repubblica Napoletana del '99. Era fanciullo, non più di sei anni quando, trasferito a Roma per gli studi in casa dello zio Tommaso, diede uno schiaffo al precettore che gli imponeva attenzione: aveva la manina forte e gli lasciò il segno rosso sul viso. Ma Giovanni Angelo Braschi, che era prelato bello a vedersi con i suoi capelli biondi e inanellati, pazientò, anzi quando divenne papa con il nome di Pio VI, lo promosse prima ministro del Tesoro e delle Finanze, poi cardinale. Avrebbe potuto essere papa, dato l'alro concetto che se n'aveva in Vaticano e nelle grandi cancellerie politiche, specie in Francia dove Napoleone lo esaltava colmandolo d'onorificenze, ma non sentiva la vocazione al sacerdozio. Tuttavia, per ragion di Stato, fece correre in Calabria la voce che fosse papa, allo scopo di attirare i contadini nell'esercito della Santa Fede, ma venne scomunicato dall'arcivescovo di Napoli, il vecchissimo cardinale Zurlo, uno scimunito, secondo la regina Carolina, un giacobino coatto, secondo la critica storica. Il divario di giudizi nelle fonti sul Ruffo porta il ricercatore quasi all'isteria. Così, appare crudele nelle Cronache di Altamura, che descrivono la caduta della loro repubblica, presente Ruffo, e magnanimo nei Diari del Micheraux o del MacDonald, protagonisti degli eventi rivoluzionari. Così, se interroghiamo le due donne cardini della stessa vicenda: per Maria Carolina egli è <<savio e prudente>>, per Eleonora de Fonseca Pimentel è un <<cardinale mostro>>.Ma la storiografia, a cominciare dal Saggio di Vincenzo Cuoco, tende verso la leggenda nera, anche perché Eleonora è ritenuta, giustamente, più credibile di Carolina. Non sarebbe il caso, alle origini della stessa leggenda, di prendere in considerazione Pietro Colletta, tanto egli appare lontano da ogni barlume di filologia e di responsabilità metodologica. Ma lo cito per evidenziare un tema, che non convinse Mazzini, ovvero la necessità anticlericale verso le azioni di un uomo di Chiesa che, rovesciando i pensieri cristiani di Vico e di Genovesi, a cui invece si richiamavano Mario Pagano e gli altri repubblicani, aveva affossato il più grande sogno mai fatto nel Regno di Napoli, la giustizia nella libertà e l'uguaglianza nel diritto. Ma Ruffo, assumendo l'ufficio di restauratore della monarchia era nel ruolo dei cardinali governanti - di Cisneros, di Richelieu, di Mazzarino, di Alberoni - o in quello dell'ecclesiastico feudale, che nella istituzione reggia ritrova la divina legittimità, qualunque sia la persona che la rivesta, fosse pure Ferdinando di Borbone, la cui immagine miserevole si coglie, per erudizione ecclesiastica di Gaetano Morone, il barbiere del Papa che, autodidatta, si dedicò alla coscienziosa ricerca storica, attingendo anche all'esperienza: infatti aveva conosciuto il Ruffo e lo ammirava. Al par di lui ho sentito il bisogno di liberarmi dalla polemica ma, a differenza ho posto dubbi sull'immagine costituita: ho imitato Francis Bacon, che per capire, ridusse a frammenti urlanti il ritratto di Innocenzo X eseguito da Velàzquez. Ho dunque tre dubbi essenziali. Primo: sul cuore del Ruffo. Era chiuso, ipocrita e nocivo, come è descritto nella leggenda nera? Perché mai obliare la storia della sua pietà verso i poveri, anzi verso le classi oppresse? Era la sua una pietà motivata, anche se non priva di emotività. Quando mai nella storia dei governi si era visto un ministro di Stato che nei mesi di studio per il risanamento delle Paludi Pontine - che tanto entusiasmava Vincenzo Monti - in una delle ispezioni, scorge fra gli acquitrini un lavoratore abbattuto dalla malaria, se lo carica sulle spalle, lo porta nella sua carrozza, gli tiene la testa appoggiata sulla spalla lungo tutto il percorso e lo salva? Più tardi gli condussero in catena Vincenzo Petroli, capo della Deputazione repubblicana di Catanzaro, che aveva posto la taglia sulla sua testa e lo graziò , anzi gli affidò un incarico amministrativo. La stessa cosa al prete che aveva attentato alla sua vita. Soprattutto, come dimostrò da ministro, la sua pietà era razionalmente operosa: soccorreva, ma anche teorizzava la riforma delle istituzioni ingiuste. Sia a Roma sia in Calabria il popolo, anzi la cosiddetta <<ima plebe>>, lo amava per i suoi atti generosi, per l'abitudine a contrastare il baronaggio nei privilegi delle esenzioni e nel dispotismo feudale. Perciò i baroni lo odiavano al punto che Pio VI dove ricorrere a crudele ironia dicendo loro <<Ve lo toglieremo, creandolo cardinale>>. Quando al cuore, credo che vi attengano altri fatti. Non accumulò ricchezze, anzi restò sempre essenzialmente povero, anche dopo aver riconquistato un regno. E perché? Per l'abitudine a sovvenire. Il suo essere era eticamente leggero, perché rispondeva con ironia alla gratitudine e all'elogio. Il suo cuore fu sottoposto a prove smisurate sia nella guerra, quando doveva fronteggiare l'inclemenza dei Sovrani contro i prigionieri e la loro slealtà verso i patti stipulati nella Capitolazione repubblicana del 21 giugno. Ricorderò sempre il disgustato dolore del mio maestro Ernesto Pontieri nel descrivere il <<disonore>> di Nelson e la tragedia del Ruffo. Quando agli orrori della guerra, non ho trovato nessun conforto di prove sulle voci della sua partecipazione, anzi neppure sulla sua passività. So invece che operò per mitigarli, dalla presa di Monteleone alla resa di Napoli. Poi li denunciò, attirandosi la malevolenza della regina e lasciò la corte quando non poté disciplinare nel diritto le atroci Giunte di Stato. Mi sono fatto il convincimento che Ruffo più che bonario, come pure è descritto, fosse buono. Secondo dubbio: sulla mente. Era vacua, confusa, tirannica? Occorre prima d'ogni altro verificare i suoi studi, specie quelli superiori nell'esclusivo Collegio Clementino, dove poté accedere grazie allo zio cardinale: prese una progressiva passione delle scienze fisico-matematiche e per la finanza, ed ebbe idee proprie, ossia antifeudali, come rivela nelle sue Memorie economi-che, pubblicate a Cesena nel 1789: sulla proprietà individuale, sulla libertà nel commercio dei grani (certo non all'altezza di Genovesi e di Galiano), sul protezionismo industriale che gli occorrerà specialmente quando dovrà dirigere la gloriosa Colonia di San Leucio. Ruffo era una testa <<di pensier carca>>, se ben leggo nelle fonti, che lo portava alle riforme e al compromesso politico davanti agli ostacoli, si vide, per esempio, nel governo pontificio, nelle riflessioni sulla Cassa sacra calabrese, negli Schiarimenti e aiuti chiesti alla corte quando lo incaricarono della Ri-conquista. So quando fascino comunicava da ambasciatore, per esempio a Parigi, però mi ha giovato anzitutto riflettere su una ipotesi: se la sua mente non fosse stata lungimirante, sarebbe mai bastata la magnanimità del suo cuore a dargli l'attrazione sulle persone, da quelle rudi a quelle colte? Goethe scrisse a Napoli che attrazione è parola intraducibile e inesprimibile, e infatti il Ruffo era di misterioso carisma. Terzo dubbio: sulla controrivoluzione. Era il 10 febbraio 1799 quando sulla spiaggia <<alla Catona>>, dov'era da poco sbarcato con cinque compagni, vide passeggiare un uomo chiuso nei pensieri: lo salutò e seppe che era l'ammiraglio Caracciolo in ispezione delle coste. Lo invitò a pranzo, ma Caracciolo non poté. Il cardinale insistette inutilmente, poi disse <<Peccato, perché il pesce è freschissimo>> e si augurarono felicità: fra pochi mesi sarà disperato a causa della regina e di Nelson che impiccheranno Caracciolo a tradimento. Ruffo era perspicace: papi e principi si avvalevano dei suoi consigli. Ma cadde il consiglio suo più accurato, dato ai Borbone di Napoli: che non fuggissero davanti all'armata francese. Tentò di convincerli con due argomenti: che il loro esercito era sufficiente e che un re, senza perdere il consenso popolare, non può abbandonare lo Stato nel pericolo. Aveva intravisto l'imminente morte morale della monarchia? D'altra parte non aveva mai condiviso il giudizio della regina sulla Repubblica, Perversione <<vesuviana>>; e neppure concorderà con Johannes Gottfried Pahl, che nel 1803 la ritenne un gioco da <<partenopei>> certo non fu un gioco a batterla. Priva di mezzi, dopo che il re si era appropriato dei risparmi privati nei banchi e i francesi del ricavo fiscale, nonostante gli errori strategici della milizia volontaria e l'inesperienza politica dei governanti, la Repubblica spiegò una resistenza imprevedibile, inferendo a Ruffo anche scacchi umilianti. Ma egli, che aveva amato la scienza della guerra sui libri, via via che avanzava verso Napoli, nelle piccole e incessanti battaglie, fra scene di viltà e di coraggio, analizzando la vita chiusa nei feudi, metteva in atto alcune sue convinzioni. Le popolazioni abituate solo a esattori di dazi, di decime e di imposte, si videro alleggerire aggravi fiscali secolari e ripristinare diritti comuni. Fu così, e anche alimentando il sentimento di patria, che rese popolare il reclutamento e plausibile il morire nell'Armata della Santa Fede. Dava così argomento a Mazzini perché nei sanfedisti riconoscesse un popolo che si desta, al pari degli insorti della opposta parte. Ma con il sanfedismo Ruffo anche rivelò l'abisso che spaccava in due il popolo: in plebe e in tutto il resto. Il sarcasmo che si andrà facendo su Sant'Antonio che spodesta San Gennaro o sulle stragi, peraltro di misura più contenuta di quella supposta nelle scritture, oppure sull'immaturità politica dei giacobini, non appartiene alla ricerca di verità. Quando al cardinale Fabrizio Ruffo ho cercato di cogliere alcune evidenze; altre evidenze sono state imposte dai giornali di parte - come il Decade, Il pubbliciste, Il moniteur - o dal romanzo teatro retorico, ma non dalle regole della critica storica.


Russo Vincenzo (Palma Campana, 1770 - Napoli, 1799)
Uomo politico e scrittore napoletano.Compiuti a Napoli gli studi giuridici, aderi' alle idee rivoluzionarie e fu coinvolto negli arresti seguiti alla << congiura giacobina >> del 1794. Nuovamente denunciato nel 1797, riu-scì a espatriare in Svizzera. Nella primavera del 1798 si reco' a Roma, dove stampo' i suoi pensieri politici , collaboro' al << Monitore Romano >> e pronuncio' accessi discorsi nel circolo costituzionale. Ai primi del 1799 rientro' a Napoli al seguito delle armate francesi, e svolse un'intensa azione di propaganda rivoluziona-ria nei club e nelle adunanze popolari. In aprile fu anche membro della commissione legislativa della repub-blica Napoletana, ma dovette dimettersi per il carattere troppo avanzato delle sue proposte. difese fino all'ultimo la repubblica con le armi in pugno e venne impiccato, vittima della reazione barbonica, il 19 novembre 1799.I suoi pensieri politici rappresentano, nell'arco del pensiero democratico italiano del triennio 1796-1799, una delle posizioni più radicali. spingendo alle estreme conseguenze l'egualitarismo di Rousseau e dei giacobini francesi.,Russo delinea una società di agricoltori,usufruttuari ma non proprietari dei loro poderi, raggruppati in piccole comunità e conducenti una virtuosa e aliena da ogni lusso superfluo. più che un precursore del socialismo moderno , Russo appare un epigono dell'utopismo settecentesco, sullo sfondo delle condizioni di miseria e di arretratezza economico-sociale del mezzogiorno d'Italia.
Il pensiero politico di Vincenzo Russo ha un carattere solitario e occasionale nel quadro dell'Italia e della Napoli dei suoi tempi. Se da un lato le ricerche storiche di Delio Cantimori avevano messo in evidenza un filone di utopisti e riformatori italiani che, tra Settecento e Ottocento, respiravano la stessa atmosfera morale e facevano riferimento alla stessa cultura rivoluzionaria e giacobina di Russo, da un altro lato uno specifico studio di Ruggero Romano ha sottolineato, nell'ambito della Repubblica napoletana, la necessità di esaminare il pensiero di Russo in connessione col movimento giacobino, con gli uomini, cioè, che intorno a Russo agirono per l'affermazione di un programma simile al suo.
A questi aspetti ha fatto riferimento anche Giuseppe Galasso, rilevando, a proposito di Vincenzo Russo, che "è la volontà rivoluzionaria ad agire come istanza determinante e come principale motivo ispiratore nella rielaborazione che il Russo porta avanti dell'atteggiamento illuministico rispetto ai problemi della vita culturale individuale e sociale". Galasso metteva così in evidenza sia il rapporto del pensiero di Russo con l'illuminismo sia la volontà di agire e di intervenire radicalmente sulla realtà.
D'Ayala vedeva nelle pagine di Russo niente di meno che i germi e le idee della civiltà dell'avvenire, scritte mentre l'Italia muoveva i primi faticosi, ma decisivi passi verso quella civiltà industriale e capitalistica dalla quale Russo, senza neppure averne il sentore, si distanziava profondamente.
Di Vincenzo Russo scrisse anche Benedetto Croce, che attribuiva al giacobino napoletano la qualifica di "socialista moralista", che come tale, chiudeva un'età della storia del socialismo, ma non ne precorreva una nuova. Anche qui vi era un non piccolo progresso della critica, affinché per tale via si giungesse non solo a collocare, come era necessario, Russo e le sue idee in un momento preciso della storia del pensiero politico europeo, ma anche a formulare per la prima volta un'analisi del pensiero di Russo condotta dall'interno e dialetticamente risolta nell'individuazione di un principio ispiratore.
D'altra parte, la non ancora avvenuta maturazione, negli studi e nella letteratura sull'argomento, della fon-damentale distinzione della storia del giacobinismo e della tradizione democratico-radicale da quelle del mo-vimento e delle idee socialiste nel mondo contemporaneo precluse a Croce il raggiungimento di più valide istanze critiche e fece anzi sì che dalla sua ricostruzione l'equivoca etichetta socialista attribuita a Russo si conservasse fino al più recente studioso di lui, ossia a Romano. Rispetto al giudizio di Croce aveva perciò un carattere involutivo il giudizio di Felice Battaglia nel momento in cui l'eccezione costituita da Russo veniva riportata a un'Italia che nel secolo XVIII avrebbe dato a se stessa un pacifico rinnovamento, se la Rivoluzione francese non avesse travolto nel suo turbine il paese, provocando in Italia, una catena di moti passivi, che da quello francese trassero la loro iniziativa, snaturando in una servile imitazione uno sviluppo naturale ed autonomo. Parallela alla etichetta socialista Croce aveva, infatti, trasmesso agli studiosi posteriori l'altra e più antica etichetta, derivata da Vincenzo Cuoco di razionalisti astratti e alieni dalla realtà nazionale nel cui quadro si trovavano a operare non solo Russo, ma anche tutti gli altri uomini d'azione e di pensiero che nel 1799 avevano dato mano a tenere in vita la Repubblica napoletana; e secondo questa etichetta, certo non più esatta dell'altra, ma di maggior rilievo nella storia del pensiero politico napoletano, poteva facilmente essere tratta a significare cosa assai differente da ciò che essa nelle pagine di Cuoco e di Croce effettivamente significava. Comunque, per nessuna di queste strade progressi reali nella in-telligenza e nella valutazione del pensiero politico di Russo potevano essere conseguiti, e il fatto stesso che i giudizi di Croce sulla natura del pensiero di Russo fossero stati sostanzialmente ripetuti, con poche variazioni, fino a Romano ne era certo la più convincente riprova. Solo quando con Delio Cantimoriera iniziata una vera e propria riesumazione dei giacobini italiani e solo quando fuori dall'Italia l'elaborazione del significato autonomo del giacobinismo non solo nella storia della Rivoluzione francese, ma anche in quella del pensiero politico europeo era progredita in misura sufficiente, solo allora una revisione dei giudizi correnti sulla figura di Vincenzo Russo e sul mondo nel quale egli agì era diventata attuale e desiderabile.
Vincenzo Russo, con Mario Pagano (1748-1799), autore dei Saggi politici (1783) e della Relazione al progetto di Costituzione del 1799ed Eleonora de Fonseca Pimentel, nel contesto della fragile e breve Repubblica napoletana dei primi sei mesi del 1799, appartenne in pieno allo scenario aurorale del pensiero politico con-temporaneo. Dalla lettura dei Pensieri politici è possibile riassumere le seguenti tappe: la riflessione politica di Russo aveva la sua matrice non in una vicenda di ordine culturale, ma in una volontà rivoluzionaria di rin-novamento morale e sociale. Il momento filosofico di questa speculazione non ne costituiva, anche per que-sto, il punto culminante, ma solamente una premessa teorica che veniva elaborata, per esigenze di chiarezza sistematica e di giustificazione teoretica, alla fine di un lungo travaglio interiore di ordine, appunto, morale e politico.
In questo travaglio, lo sbocco finale verso un orientamento utopistico e il distacco da una analisi immediata della realtà politica e sociale erano il prezzo coscientemente pagato affinché il punto di partenza rivoluziona-rio fosse sublimato da moto generoso di un animo ribelle a forza politica avente significato universale ed efficacia duratura, il valore, insomma, di un mito; la passione etico-politica di Russo non perdeva mai il suo carattere rigorosamente laico, e se ne poteva inferire un significato religioso solo nella misura in cui una siffatta laica passione rivoluzionaria, veniva ad espellere o sostituire ogni precedente o concorrente atteggiamento religioso.
L'intima logica rivoluzionaria di tutto il processo spirituale vissuto da Russo assumeva finalmente un caratte-re riflesso e si risolveva in una teoria della rivoluzione come indispensabile momento e strumento del rinno-vamento etico e politico. E per quanto, infine, più strettamente riguardava il pensiero politico e sociale di Russo, è stato altresì affermato che il suo interesse non era attratto in prima istanza né dal problema della proprietà privata in sé e per sé, né da quello della povertà e della sua diffusione, ma piuttosto dai problemi dell'eguaglianza e della libertà. La sua maggiore originalità non stava, da questo punto di vista, nell'atteggiamento da lui assunto verso la proprietà, la ricchezza, la vita economica, ma, di gran lunga di più, nella sua dottrina dell'azione politica rivoluzionaria, teorizzata come unica possibile matrice di un ordine nuo-vo. Sicché anche in ciò si è vista una conferma del carattere "giacobino" ossia democratico-radicale della sua figura di pensatore che il complesso di queste dottrine chiaramente delineava.
Il giacobinismo di Russo non si restringeva, peraltro, a una caratterizzazione sul piano meramente storico. In perfetta coerenza col momento teoretico esso si traduceva nella pratica in un parteggiare deciso per la cor-rente rivoluzionaria che aveva trovato a suo tempo nell'Incorruttibile il leader più naturale e rappresentativo. La calata degli eserciti rivoluzionari al di qua delle Alpi dischiuse ai fattori italiani del nuovo regime la possibilità di una azione politica alla luce del sole e li portò al governo dei vecchi e nuovi Stati organizzati alla francese. Alcune osservazioni di Delio Cantimori ricordano come le autorità militari e politiche francesi distinguessero costantemente, tra il 1796 e il 1799, i patrioti moderati da quelli estremisti.
Per quanto riguardava in particolare la Repubblica napoletana vi era già stato un tentativo, sia pure rapido e schematico, di individuare, nel Novantanove, i tentativi di dare una soluzione radicale, in senso societario, ai problemi che il riordinamento dello Stato, da tutti avvertito necessario, comportava. Questo era il punto es-senziale.
Per Maria Carolina d'Asburgo (1752-1814) erano, certo, tutti egualmente insignificanti giacobini o infami ri-belli: Vincenzo Russo come Mario Pagano, l'abate Francesco Salfi come Domenico Cirillo (1739-1799) e co-sì via. E invero il giudizio della regina poteva avere un minimo di giustificazione storica nel senso che la si-tuazione del Regno dopo la proclamazione della repubblica napoletana era un insieme di ispirazioni, orien-tamenti, programmi che potenzialmente dividevano all'interno ciascuno dei due campi in lotta, e specialmen-te quello repubblicano; e tanto meno consentiva di fare leva su tali differenze.
Ma le differenze tuttavia sussistevano; e non erano lievi. Compresse dalla estrema tensione della lotta, esse sarebbero riemerse al momento opportuno nell'uno e nell'altro campo e avrebbero allora condizionato, nelle nuove forme consentite dal mutare dei tempi, le sorti della lotta tra la monarchia borbonica e gli innovatori. Rivelarle nel momento stesso della lotta era importante non solo al fine di una più articolata conoscenza del movimento storico reale, ma ancor più ai fini di una più retta conoscenza della storia napoletana nel quadro di quella cultura e politica dell'Europa del tempo.
Se la democrazia era governo del popolo, come far sentire la sovranità reale del popolo? Vincenzo Russo rispondeva nei Pensieri politici: non poteva esservi altra forma di repubblica se non la popolare. In questa forma di governo l'uomo non doveva sacrificare parte dei suoi diritti, poiché la volontà generale non aveva né poteva avere altro scopo se non quello che aveva la volontà individuale. Le stesse cariche, secondo Russo, lungi dall'essere un peso in democrazia, erano il più alto punto al quale potesse innalzarsi la dignità umana. In democrazia bisognava avere le idee chiare sulla eguaglianza. Russo scrive: "Finché un cittadino non ha la possibilità di esercitare qualunque impiego politico non vi è uguaglianza: non vi è diritto, dove vi è esclusa una classe: non vi è di fatto, dove una classe non ha la capacità di esercitare certi impieghi politici".
La disuguaglianza dipendeva dalla dignità dei metodi di vita e dalla disparità dell'istruzione, in democrazia conveniva pareggiare al più che si può le circostanze della vita; allora si sarebbe ottenuta eguaglianza, pace e fratellanza. Poiché la causa della disuguaglianza per Vincenzo Russo era da ricercare nel possesso dei beni, in democrazia il diritto della proprietà non si poteva trasmettere altrui. "L'eguaglianza politica non di-strugge la preferenza del maggior merito. E' questa nella suprema ragione del maggior bene possibile della umana società.
Un elogio della democrazia venne fatto da Russo sul Monitore di Roma parlando al popolo delle nuove re-pubbliche giacobine: appena una nazione si dichiarava democratica non aveva subito luogo la democrazia. La democrazia non consisteva nelle formule della costituzione democratica, ma secondo Russo, conveniva piantarla negli animi e stabilirla nel riordinamento dei fatti sociali, nella riforma dei pubblici desideri, nel rad-drizzamento dei costumi, nella onnipotenza di una legislazione repubblicana e dell'opinione; infine la demo-crazia proponeva ed esigeva uguaglianza. La democrazia prometteva una grande opera, essa non poteva essere realizzata in pochi mesi, ma avrebbe mantenuto le sue promesse, ossia uguaglianza, libertà e agia-tezza comune.
La radice profondamente napoletana degli atteggiamenti di Russo va ricercata nella obiettiva congiuntura culturale e politica attraversata dal suo paese negli anni in cui egli maturò. Infatti egli partì esule da Napoli con orientamenti e convinzioni già ben fermi e fu perciò che scelse la Svizzera anziché la Francia per luogo d'esilio: la Svizzera, che alle sue vedute democratiche e libertarie appariva più congeniale di una Francia non solo meno virtuosa, ma nella quale, per di più, alla grande spinta rivoluzionaria degli anni precedenti ap-pariva essere succeduta l'ambigua atmosfera del Direttorio, alla quale nei Pensieri politici erano riservate non poche coperte, ma preoccupate allusioni. Ciò spiegava poi più pienamente e dava maggiore significato a quel silenzio di Russo verso gli scrittori riformatori napoletani del Settecento, in cui sarebbe stato estre-mamente semplicistico vedere un rifiuto; e dava la chiave di lettura per intendere nel suo significato storico ed obiettivo quella volontà rivoluzionaria scaturita dagli atteggiamenti culturali e politici di Russo.
L'astrattezza imputata al pensiero politico di Russo, come derivata in linea diretta dalla sua impostazione u-topistica, risaliva assai lontano: oltre che al Cuoco, essa risaliva alle polemiche dei giorni stessi della Repubblica napoletana. Bisogna evitare di trasferire nella valutazione e nella collocazione storica del pensiero politico di Russo le polemiche cui egli partecipò ai suoi giorni; mentre non sarebbe questo certamente l'unico caso in cui un teorico della politica si riveli inferiore nell'azione, a quanto ci si aspetterebbe da lui in base alle sue stesse dottrine. La consapevole e misurata componente utopistica del pensiero di Russo era essa stessa la forma di azione in cui Russo dispiegava le sue doti migliori, suscitan-do miti e suggestioni che non solo ebbero concreta efficacia in quel drammatico 1799, ma contribuirono alla lunga a fondare la tradizione democratica italiana.

Sanfelice Luisa
Nobildonna napoletana (Napoli 1764- 1800). Figlia di Pietro de Molino, un ufficiale dell'esercito borbonico, sposò nel 1781 Andrea Sanfelice, appartenente a un ramo dell'omonima nobile famiglia. Estranei alla vita politica, i Sanfelice si distinsero per una condotta irregolare e dissipata, che richiamò più volte l'attenzione della corte: nel 1788, in seguito al dissesto finanziario e agli elevati debiti, il re ordinò ai Sanfelice di ritirarsi in campagna, mentre i loro beni venivano affidati a un amministratore; nel 1791 i coniugi furono separati d'autorità e rinchiusi in convento. Tornata a Napoli prima dello scoppio della rivoluzione del 1799, Luisa San-felice fu coinvolta negli avvenimenti della Repubblica Partenopea casualmente, in seguito alle sue vicende amorose che la portarono a contatto nello stesso tempo con ambienti repubblicani e monarchici. Venuta a conoscenza di una congiura monarchica da un suo ammiratore, il banchiere Gerardo Baccher, che le aveva dato un salvacondotto con cui proteggersi durante e dopo il colpo di Stato, ne fece partecipe il suo amante, il repubblicano Ferdinando Ferri (o secondo alcuni il futuro storico della rivoluzione partenopea Vincenzo Cuoco). La congiura fu così scoperta, i cospiratori arrestati e fucilati e la Sanfelice fu suo malgrado esaltata come "madre e salvatrice della patria". Dopo la caduta della Repubblica e la restaurazione borbonica, la Sanfelice fu a sua volta processata e condannata a morte. Per evitare la pena, simulò una gravidanza che rimandò l'esecuzione di circa un anno. Quando fu scoperta, nonostante l'intercessione della principessa Maria Clementina, fu giustiziata sulla piazza del mercato di Napoli (ripristinando una consuetudine ormai caduta in disuso) mediante decapitazione.

Gennaro Serra di Cassano (Portici, 1772 - Napoli, 1799)
Figlio di Michele Serra ,duca di Cassano. Fu patriota giacobino,decapitato in piazza Mercato il 20 agosto 1799 per aver difeso la Repubblica partenopea da quel giorno, per volere del padre ,il portone principale del palazzo dei Serra di Cassano è rimasto chiuso in segno di rottura tanto verso la monarchia quanto verso la plebe, entrambi incapaci di comprendere le esigenze di rinnovamento della società poste dal giovane. Quel portone è stato riaperto simbolicamente nella primavera del 1995, come segno della rinascita della città e della ideale ripresa del cammino sulla via del progresso della società civile, interrotto dalla brutale repressio-ne del 1799.
IL GIOVANE DUCE CHE SI FECE GIACOBINO Rampollo di una famiglia aristocratica tra le più antiche della città, aderì subito alle nuove idee. Il rapporto speciale con la Fonseca Pimentel e la polemica sulla Guardia Nazionale. La morte a 26 anni, ghigliottinato come prevedeva il suo rango.
Arrivano fin sul Monte di Dio le urla del popolaccio ammassato in piazza del Mercato per assistere all'esecuzione di otto patrioti. Quel giorno, il venti agosto 1799, il primo a salire sul patibolo fu Gennaro Serra di Cassano, l'ultima Eleonora Fonseca Pimentel. Nel palazzo disegnato che l'eco della brutalità sfumasse. Quando tornò dal Sanfelice, il padre di Gennaro il duca Luigi attese silenzio, attraversò i saloni, passò sotto lo stemma di famiglia. Venturi aevi non immemor, scese la scalinata e andò a chiudere il portone, proprio di fronte alla Reggia del Borbone. Il suono fu di disprezzo. Improvvisamente cadde la pioggia: nella piazza del massacro il sangue dei decapitati, il vomito degli impiccati si dispersero in rivoli sempre più scoloriti. Ma le macchie restarono, gioverà ricordarlo. Nel palazzo del Monte di Dio adesso ha sede l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, fondato dall'avvocato Gerardo Marotta. L'antico portone sta lì, ancora chiuso. È stato riaperto, in due secoli,. pochissime volte, giusto il tempo di far entrare uno spiffero di speranza. Riaprirà definitivamente quando Napoli dimostrerà di aver assimilato le lezioni della sua storia, quando gli uomini come Gennaro, le donne come Eleonora, otterranno una sorta di definitiva giustizia. Quel tempo sembra lontano se perfino le celebrazioni della Repubblica Napoletana sono diventate il pretesto di spaccature e di volgarità pubbliche, presagio di un pericoloso revisionismo. Ad esempio, alla prima del San Carlo, inaugurato con l'Eleonora di Roberto De Simone, una pattuglia di neoborbonici in un articolo sbagliando li ho definiti neomarchici chiedo scusa ai neomarchici ha gridato <<puttana>> alla Pimentel e <<assassino>> a Marotta. Per aver definito <<stupida>>, ed era un eufemismo, la gazzarra davanti al teatro, chi scrive ha ricevuto una serie di telefonate e di fax da parte dei neoborbonici. Evidentemente non erano complimenti, ma lo stile era abbastanza educato. Sarebbe bastato mantenerlo, quella sera, e tutto avrebbe avuto un diverso, più accettabile sapore. Ma al di là dell'episodio, che resta minimo, ciò che continua a preoccupare è l'atteggiamento complessivo della città di fronte all'anniversario del 1799: circospetto, come equidistante, anche in certi ambulacri di intellettuali. Il sindaco Bassolino che una volta entrò da quel portone riaperto appositamente ha sentito l'esigenza di avvertire che le celebrazioni non saranno "di parte". Ma che cosa significa? Va da sé: una rilettura critica degli avvenimenti che precedettero, accompagnarono e seguirono il 1799 e più che legittima, anzi è addirittura opportuna. Che pure i patrioti commisero i loro errori, che non tutta la dinastia dei Borbone fu tiranna sono verità appartenenti al mondo dell'ovvio. Ed è giusto interrogarsi ancora sul ruolo del popolo in quel tentativo di stabilire la democrazia: visceralmente contrario? Passivo? O forse tiepido? Nello svolgere l'aggrovigliata memoria della nostra città, il 1799 doveva servire appunto a unire, in uno sforzo di studio e di ricerca, e non a lacerare. Doveva servire a condannare ogni violenza, ogni pena di morte, da chiunque ordinata. Doveva servire a individuare e seguire tutti i fili che dal Novantanove portano a oggi, alle condizioni attuali del Mezzogiorno, alle sue potenzialità e ai suoi limiti. I 144 giorni della Repubblica Napoleonica furono uno spartiacque, nel bene e nel male segnarono il futuro della città, enfatizzarono le sue contraddizioni, pesarono e negativamente sul de-stino della borghesia e dei diseredati. In qualche modo la storia è continuata spingendo a nuovi motivi di impegno assoluto. I fondaci di allora sono le periferie spelacchiate. I nuovi senza niente sono i giovani disoccupati, i ragazzi del lavoro nero, gli uomini venuti da lontano a cercare il diritto di vivere. L'antico privilegio del sangue e del censo è stato sostituito dall'incrollabile potere del denaro, dalle lusinghe del benessere a tutti i costi. D'altro lato, non mancano le differenze confortanti. Napoli sta riemergendo, in Europa ci guardano con rispetto, lo stesso confronto tra governo e opposizione ha toni civili, molte energie intellettuali sono impegnate sul campo. Anche sulla base di opposte visioni storiche, dunque, l'anniversario rappresentava l'occasione di verificare quanto fosse possibile costruire in nome degli ideali, che non hanno colore. Non sta andando così purtroppo. Sembra una condanna: si rivedono lazzaroni contro giacobini, sia pure stile Duemila, con codazzo di telecamere e computer. In questi giorni di insulti ho sentito alcune definizioni del popolo napoletano in nome di una presunta, eterna tradizione neppure Umberto Bossi nei suoi giorni più ruggenti ha osato attribuirci. Parliamo di euro e intanto c'è chi, senza trovare repliche adeguate, addirittura impreca contro l'unità d'Italia. Eppure gli elementi unificanti, in quella remota avventura, sono tanto evidenti da apparire scontati. La Repubblica Napoletana non fu soltanto cultura contro igno-ranza, lumi contro privilegi secolari: fu soprattutto un tentativo di provare che trasformare Napoli, il Sud, è possibile. L'ha scritto bene Vincenzo Caianiello: i patrioti del Novantanove furono dei guastafeste perché <<in un popolo sempre in speranzosa attesa che tutto debba venirgli dall'altro, riuscirono a dimostrare che anche a Napoli, dove tutto è stato sempre difficile, ma niente impossibile, si può agire se si hanno forte spinte ideali>>. Quegli uomini misero <<di fronte alla propria coscienza chi, per giustificare la propria indolenza, avrebbe preferito che ciò non fosse mai dimostrato>>.
Gennaro Serra di Cassano, Eleonora, Pagano, Cirillo continuarono a provarci anche quando rimasero del tutto soli, dopo la diserzione dei francesi. Al di là delle presunte astrattezze o del mancato consenso di massa, la vera causa della caduta fu appunto il tradimento francese. Mentre la Santa Fede avanzava, tornavano a Parigi in catene il comandante Jean - Etienne Championnet e il suo consigliere Marc - Antoine Jullien, i soli francesi veramente amici di Napoli. Invece per i neoborbonici i traditori restano Gennaro, Eleonora: erano nobili, dunque condannati <<a stare dalla parte del re, di Dio - Patria - Famiglia>>. Invece loro come tanti intellettuali onorati dal sovrano e da Maria Carolina, come molti sacerdoti dalla parte del vero Vangelo se ne staccano quando risultò chiaro che il <<sovrano illuminato>> da loro vagheggiato era diventato un despota in balia degli inglesi e degli austriaci, e le riforme erano diventate impossibili. Gennaro aveva avuto modo di studiare nel collegio di Sorèze, proprio negli anni della Rivoluzione Francese. Con il fratello Giuseppe, con la madre Giulia e la zia Maria Antonia, aderì subito alle nuove idee. Giuseppe fu arrestato. Nella Repubblica, Gennaro aveva ventisei anni. Fu ufficiale e comandante in seconda della Guardia Nazionale. Eleonora, sua amica, lo rimproverò sul Monitore quand'egli tentò di organizzare una guardia a cavallo, troppo aristocratica a giudizio della giornalista. L'educata replica di Gennaro all'amica fu lungimirante: invitò a <<principiar dall'essere pria che dal benessere>>, non nascose la forza dei nemici, il malcontento crescente del popolo, i contrasti fra i dirigenti repubblicani.
L'armata del cardinale Ruffo era ormai alla giunta alle porte della capitale, composta soprattutto da calabresi, rafforzata da russi e turchi, sostenuta dal mare dalle cannoniere inglesi: i neoborbonici sono tuttora convinti che furono i napoletani a scacciare i giacobini. Mamma Giulia Serra di Cassano e zia Maria Antonia raccolsero fondi e abiti per i poveri, trascinarono calce e mattoni per rafforzare le difese del porto. Il tredici di giugno, giorno finale, Gennaro comandò una delle tre colonne che opposero l'ultima vana resistenza ai sanfedisti. Fu tra i capitolati; in base all'accordo con Ruffo avrebbe dovuto partire per l'esilio, invece fu condannato a morte come gli altri. Quel patto stracciato, la legge retroattiva per punire i rei di lesa maestà restano marchi di vergogna. L'unico privilegio concesso a Gennaro a riprova che certi assurdi favori tornavano esattamente come prima fu la fine rapida per ghigliottina riservata ai nobili. Tutti gli altri di famiglia furono perseguitati, le donne denudate nella strada. Si salvò soltanto Giuseppe, perché inviato presso la Repubblica Ligure. Dal palco, guardando il mare di facce, Gennaro disse al confessore: <<Ho sempre lottato per il loro bene e ora li vedo far festa per la mia morte>>. Ma è davvero possibile che, oggi, qualcuno abbia voglia di festeggiare quella carneficina
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Bernardo Tanucci
Bernardo Tanucci nacque a Stia ( Arezzo ) nel 1698, uomo politico e giurista napoletano, compiuti gli studi presso l' Università di Pisa, vi insegno diritto civile per circa dieci anni ( 1726, 1736 ) , sostenendovi vivaci polemiche di storia del diritto e di politica in generale, tra le più importanti dibattiti troviamo quella con il ca-maldolese G. Grandi.
Entrato al servizio di Carlo di Borbone, duca di Parma, lo seguì quando nel 1734 occupò il regno di Napoli, dove Tanucci fu nominato ministro di giustizia e più tardi nel 1755 ministro degli esteri. Dal 1759 fu il più a-scoltato ispiratore del consiglio di reggenza di Ferdinando IV, e nel 1767 quando il nuovo re divenne maggiorenne, Tanucci ebbe la carica di primo segretario dello stato.
Dopo il matrimonio di Ferdinando con Maria Carolina avvenuto nel 1768, la politica filospagnolo entro in contrasto con la politica austricante della regina, che nel 1777 ne ottenne l' allontanamento. Le direttive d'azione del governo di Tanica, ispirate più a criteri giurisdizionalistici che a ideologie illuministiche, furono la lotta contro la feudalità e l' affermazione dei diritti dello Stato contro la Chiesa.
Mentre nel primo campo i risultati furono scarsi e precari, il suo coerente anticurialismo colse una serie di significativi successi, tra cui l' espulsione dei gesuiti dal regno nel 1767, la riduzione del numero di monasteri, la riforma delle decime e la sottrazione dell' istruzione pubblica agli ecclesiastici. Importante fu anche la sua opera di riorganizzazione della giustizia. Mori a Napoli ne 1783.

Vitaliani Giovanni Andrea
Vitaliani Giovanni Andrea nacque a Porto Logone in Toscana nel 1761. La sua professione era quella di orologiaio ma era anche un tenace patriota. Le sue idee giacobine di libertà e di uguaglianza lo portarono nel 1794 a fondare a Napoli, dove si era trasferito, un' organizzazione rivoluzionaria dal nome "Repubblica o Morte". Già dal nome del suo organismo rivoluzionario possiamo capire quanto in lui fossero radicate le idee repubblicane e sovversive ri-prese dalla rivoluzione francese. Ma il suo pensiero era troppo diverso da quello dalle masse popolari che giace-vano sotto un monarca assoluto che continuava a considerarle ancora come sudditi, ed è per questo che a questa organizzazione parteciparono quasi esclusivamente gli uomini più colti della società napoletana tra cui
Emanuele De Deo e Vincenzo Galiani. Nonostante l' indifferenza popolare Vitaliani organizzo marzo nel 1794 una congiura volta a rovesciare la monarchia borbonica, ma per colpa di una delazione l'organizzazione fu scoperta ed alcuni membri, tra cui il fratello dello stesso Vitaliani, Vincenzo, furono arrestati e impiccati. Il sogno di libertà di Vitaliani sembro realizzarsi nel gennaio del 1799 quando nacque la repubblica partenopea, ma quando il potere regio ripre-se il controllo di Napoli egli fu accusato di aver partecipato alla repubblica e quindi fu impiccato il 20 luglio 1799.


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