Eduardo Ambrosio


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KANT

FILOSOFIA > SETTECENTO


IL CRITICISMO: IMMANUEL KANT


Nacque il 22.4.1724 a Konigsberg nella Prussia Orientale, da dove non si allontanò mai, nonostante avesse inserito nel suo magistero anche l'insegnemento dell geografia e amasse intrattenere i commensali a tavola, parlando con vigore e competenza dell'Africa e della lontana Asia. Tutto il mondo sensibile confluiva nelle sua mente, in quella rete di connessioni in cui si elabora la conoscenza, fissata nelle categorie immobili di spazio e tempo. Morì il 15.2.1804.


L'ambiente fortemente pietistico con influenze illuministiche prussiano della prima metà del Settecento condiziona alquanto la formazione di KANT, che studia la filosofia wolfiana, l'empirismo ed il sentimentalismo inglese e formula insieme a Laplace l'ipotesi che il mondo abbia avuto origine da una nebulosa primitiva.
Con la Dissertazione del '70 (De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis) chiude il periodo precritico ed inaugura il periodo critico, che trova la sua più matura espressione nelle tre CRITICHE. Vivacità intellettuale, larghezza di orizzonti, scrupolo critico, austerità morale caratterizzano la personalità di KANT.


Sicuramente sono Cartesio, Spinoza, Kant e Hegel a esplorare la terra incognita più difficile, intricata, misteriosa da scoprire e da portare dall'ombra alla luce; dove nascono e vivono le figure psichiche gli istinti primari, le pulsioni e le passioni, le percezioni e i sentimenti, la volontà e la razionalità, le idee archetipiche, il carattere e il destino in confronto con le maschere dell'apparenza e pretesa autenticità del soggetto.
Il
fondamento dell'esserci nell'Io (la sola vera prova capace di assicurare a ciascuno della propria esistenza qui ed ora, nello spazio e nel tempo, come cosa pensante materializzata in cosa vivente) è nettamente individuato per la prima volta dal cogito cartesiano (il suo esemplare rapporto causa-effetto: se penso esisto in questo istante e in questo luogo, dunque io sono il soggetto dell'esserci), un sicuro paletto nella lunga storia delle idee.
Oggettivando il soggetto cartesiano (si intravedono anche influenze monadistiche -
Leibniz), Kant con l'inespugnabile noumeno o cosa in sé (probabilmente il culmine della filosofia pari solo alle Idee di Platone che abitano nella <<pianura della verità>> dove vero e bello coincidendo diventano categorie di vita - o all'esplosione finale di Nietzsche - o, nel campo scientifico, l' "in sé" inaccessibile dell'atomo) intravide il <<sé>> (degradare a oggetto gli altri soggetti) e cercò di dargli forma di entità filosofica (il limite estremo fino la quale l'intuizione razionale potesse spingersi) attraverso il pensiero trascendentale collocando le oscillazioni nelle categorie di spazio e tempo; anch'esse oscillanti in quanto pensate dalla ragione che non era fuori dal tempo, non trascendeva il tempo ma viveva e viaggiava dentro il tempo.
Egli conclude la grande stagione dei Lumi e apre la strada all'Idealismo, anche se quasi contemporaneamente il Romanticismo -
con l'incontro operato da Goethe, il dantismo (una morte sognata ma non voluta) di Byron, il nuovo modo di amare castigato di Werther e Jacopo Ortis, la musica il cui linguaggio si rivolge direttamente alle sensibilità ineffabili e alla psiche - sconvolge tutti gli schemi precedenti.

La filosofia di K si chiama: CRITICISMO (= alla ricerca dei limiti della conoscenza umana)
K. riconosce il principio illuministico della ragione umana: l'uomo deve avere il coraggio di pensare, non di ripetere semplicemente ciò che gli è stato insegnato. Ma, oltre al "giudizio individuale", K dimostra che il valore della ragione sta nella sua universalità, cioè in una attività profonda uguale per tutti e distinta dalla sensibilità, la quale invece varia da individuo a individuo.

Nella
CRITICA DELLA RAGION PURA K si pone il problema della conoscenza (gnoseologico). La filosofia precedente era stata dogmatica, cioè aveva affermato che la ragione umana può costruire la metafisica, ossia può conoscere l'essenza della realtà. Ma K afferma che, prima di sviluppare una metafisica, bisogna esaminare (= criticare) la ragione stessa per vedere se essa ha la capacità di far ciò.
Bisogna esaminare il potere della ragione, domandandosi se essa sia capace di raggiungere una conoscenza valida, quali siano le condizioni di questa validità e se la conoscenza sia limitata o no. Questo è "il problema critico" (VALIDITA', CONDIZIONI E LIMITI della conoscenza umana).
La conoscenza è valida soltanto se è universale e necessaria. Hume, partendo dal presupposto che tutto proviene dall'esperienza sensibile, aveva concluso che nessuna scienza contiene necessità e universalità; che non possiamo affermare nessuna verità, con la certezza che essa è così e non può essere diversamente e che essa è vera sempre.
K afferma che il ragionamento di Hume (… mi ha svegliato dal sonno dogmatico …) è esatto se si ammette che tutta la conoscenza sia "a posteriori" (cioè che si formi in noi dopo l'impressione dei sensi). Però ci sono due "scienze", la matematica e la fisica, le quali esistono e sono valide; dunque vuol dire che esse non derivano unicamente dai sensi ma anche dalla ragione e che hanno quindi un fondamento "a priori". La necessità e l'universalità per una scienza non possono venire dalla dall'esperienza, ma devono venire dalla ragione, cioè a priori. Il problema è dunque vedere se la matematica e la fisica siano scienze oppure soltanto nostre illusioni.
Nelle scienze si hanno dei giudizi. Come vengono formulati? Vi sono giudizi
"sintetici a posteriori". In questi il predicato è una nuova conoscenza acquistata mediante l'esperienza sensibile, la quale viene aggiunta al soggetto. Essi permettono così di ampliare il nostro sapere; ma derivando tale ampliamento dall'esperienza, questi giudizi mancano di universalità e necessità. (Es.: il corpo è pesante; l'idea di pesante espressa nel predicato si acquista osservando i corpi che abbiamo avuto occasione di vedere, però non possiamo assolutamente dire che tutti gli altri corpi possibili siano anch'essi pesanti e che il corpo non possa non essere pesante). Questi sono giudizi contingenti e particolari.
Vi sono poi i giudizi
"analitici a priori". Questi nel predicato non contengono una nuova conoscenza, ma soltanto una nozione che era già racchiusa nel soggetto e che troviamo analizzando il soggetto stesso (si parla del soggetto del giudizio). Es.: il corpo (soggetto) è esteso (predicato). Poiché nel definire il corpo noi diciamo che esso è qualche cosa che occupa una certa estensione, l'idea di estensione è già racchiusa nell'idea di corpo. Questo giudizio non aggiunge dunque nulla di nuovo alla nostra conoscenza. Esso però è universale e necessario appunto perché si fonda soltanto sulla ragione.
Se le scienze fossero costituite solamente di giudizi sintetici a posteriori, esse progredirebbero, ma non sarebbero vere scienze, perché mancherebbero di necessità e universalità. Se fossero costituite di giudizi analitici a priori avrebbero necessità e universalità, ma non progredirebbero mai.
Perché le scienze siano valide e si sviluppino, bisogna che esse siano costituite di giudizi, che siano sintetici (innovativi) e universali e necessari (fondati sulla ragione).
K dunque cerca se esistano
"giudizi sintetici a priori" come fondamento tanto dalla matematica quanto della fisica (insieme delle scienze naturali).

Nella prima parte della "Critica della ragion pura" ,
l' "ESTETICA trascendentale", K esamina la conoscenza sensibile: riceviamo le sensazioni; però, mentre siamo passivi nel ricevere le impressioni sensibili, al tempo stesso siamo anche attivi, perché colleghiamo queste impressioni nello spazio e nel tempo. Spazio e tempo sono due funzioni spontanee della nostra sensibilità, due manifestazioni dell'attività del soggetto conoscente. Siamo noi che vediamo le cose nello spazio e nel tempo; e K chiama queste "forme pure della sensibilità" (forma = attività, funzione del soggetto). Le forme pure sono universali e necessarie, non si può conoscere nulla fuori di esse, appunto perché esse sono il nostro modo di conoscere (gli occhiali per il miope). La sensazione ordinata nello spazio e nel tempo, grazie a questa attività spontanea del soggetto, costituisce la "intuizione sensibile" (rivoluzione copernicana = spazio e tempo non variabili fuori dal soggetto ma da esso poste / io penso = pescatore fuori dall'acqua, spazio e tempo = acqua ambiente contenitore del pescato).
L'intuizione sensibile è una sintesi di materia (la sensazione) e di forma cioè l'intuizione pura dello spazio (espressione del senso esterno ad es. una foto e del tempo espressione del senso interno ad es. gli umori). Non c'è sensazione senza questa forma, non c'è spazio e tempo senza sensazione. Le forme sono a priori, non vengono dall'esperienza, ma dall'attività del soggetto. La matematica si fonda appunto sopra la formula universale dello spazio e del tempo e perciò è vera scienza. Ciò non sarebbe se, per ipotesi, ogni uomo avesse una diversa nozione dello spazio, oppure se questa nozione dovesse provenire dall'esperienza, perché in tal caso non sarebbe universale e necessaria.

Nella seconda parte, intitolata "
Analitica trascendentale", K esamina la conoscenza dell'intelletto. Funzione dell'intelletto è giudicare, cioè connettere insieme le intuizioni empiriche. Questa attività dell'intelletto si esplica in vari modi: tante sono le specie di giudizi che l'intelletto formula, tante sono le diverse funzioni dell'attività intellettuale. K chiama "categorie o concetti" queste diverse funzioni; le quali, secondo lui, sono 12, distribuite nei quattro gruppi della quantità, qualità, relazione e modalità. Per es.: è una categoria la causalità, della quale si era occupato lo Hume.
K ora dimostra che l'idea di causa non proviene dall'esperienza, ma che è uno dei modi di funzionare dell'attività giudicatrice propria del soggetto.
L'attività giudicatrice è quella che dà unità alla conoscenza, quella che veramente sintetizza, collegandole tutte insieme, le diverse intuizioni empiriche e tale sintesi è possibile in quanto la coscienza del soggetto pensante è una e identica.
L'identità profonda della coscienza, chiamata da K
"io trascendentale" (io penso), è la stessa per tutti e crea la conoscenza, che noi chiamiamo anche esperienza, in modo necessario e universale, per cui anche la fisica, che si fonda sui principi puri dell'intelletto, è vera scienza, poiché questi principi sono a priori.
Però il mondo che conosciamo grazie all'attività del soggetto ( attività che si esplica tanto nelle forme pure della sensibilità - spazio e tempo - quanto nelle forme pure dell'intelletto - categorie -) non è la realtà come è in se stessa, ma soltanto come ci appare.
K distingue il mondo del "
fenomeno" da quello del "noumeno": fenomeno è tutto ciò che conosciamo, la natura con tutte le sue leggi, determinate dalla nostra funzione conoscitiva, ciò che appare non ai singoli ma a tutti.
Questo mondo degli oggetti fenomenici è costruito dalla mente del soggetto conoscitivo.
Al di là di esso c'è la "cosa in sé", il mondo noumenico, che l'uomo non può conoscere perché esso sarebbe intelligibile soltanto per una mente capace di una intuizione intellettuale pura.

Nella terza parte della Critica, intitolata
"Dialettica trascendentale", K esamina la "ragione", qui intesa come una facoltà a sé distinta dall'intelletto. L'intelletto conosce la natura in quanto la costruisce mediante il dato dei sensi, elaborato e collegato dalla propria attività; la ragione tende ad andare al di là della natura. Essa vorrebbe conoscere l'incondizionato, mentre nella natura tutto ciò che si vede è condizionato; vorrebbe conoscere la causa prima, il principio di tutte le cose, in somma la realtà in sé, ma non vi riesce.
Nel suo tentativo, la ragione formula tre
"idee" fondamentali: quella dell'anima (psicologica) come sostanza semplice e immortale, quella del mondo (cosmologica) come totalità e quella di Dio (teologica) come essere necessario. Ma queste sono soltanto "idee della ragione" e la ragione stessa non può dire se gli oggetti di queste idee esistano realmente, o non esistano. Le idee della ragione rimangono perciò "problematiche", nonostante tutti i tentativi come i paralogismi e le antinomie (dimostrazioni elaborate ma sempre in contraddizione) .
La dialettica per K è l'illusione di conoscere la cosa in sé (escludendo così ogni trascendenza, la metafisica dai processi mentale della ragion pura e che l'etica derivasse dalla metafisica).

Nella
CRITICA DELLA RAGION PRATICA" e nei "FONDAMENTI DELLA METAFISICA DEI COSTUMI, K tratta il problema morale e prende in esame la volontà.

CONCETTO DI LIBERTA' - K afferma che la libertà morale esiste, ma non se ne può dare una vera e propria dimostrazione. Essa non è un concetto ma un POSTULATO, come i postulati della geometria che si affermano e di cui si comprende la necessità, ma che non si possono dimostrare. La verità è precisamente un postulato della ragion pratica, ossia della ragione nel suo uso morale. Poiché l'uomo ha conoscenza della legge morale, la quale gli comanda di agire indipendentemente dalle inclinazioni sensibili, bisogna ammettere che egli libero (= capace di determinare le proprie azioni prescindendo dagli impulsi dei sensi) altrimenti la legge morale sarebbe una chimera. K trasforma il concetto di libertà morale in quello di "autonomia"; essere liberi non significa non obbedire a nessuna legge; al contrario, significa obbedire a quella legge morale che l'uomo stesso si pone con la propria ragione. La spiegazione kantiana della libertà si può riassumere nella formula: "devi , dunque puoi" (imperativi ipotetico - finalizzato ad uno scopo - e categorico - devi perché devi - ad es. si a "è giusto non è giusto" e no a "mi piace non mi piace" per operare).

IDEA DI DIO - La morale non si fonda sulla teologia, sull'idea di Dio perché, se così fosse, non sarebbe pura, in quanto l'uomo agirebbe per obbedienza ad un comando estraneo e solo in virtù del premio o del castigo. Al contrario, per K è la religione che si fonda sulla moralità. La virtù deve essere perseguita per se stessa; ma l'uomo vede anche che la virtù è degna di felicità. Deve esservi dunque una connessione fra virtù e felicità, non nel senso che l'uomo sia virtuoso per meritare la felicità, ma nel senso che, considerando le cose disinteressatamente, dobbiamo ammettere che la virtù merita la felicità. Ma in questa vita la connessione tra virtù e felicità non avviene, anzi spesso è il contrario; essa dunque deve avvenire in un'altra vita. Dunque l' "anima deve essere immortale". Inoltre, perché ciò avvenga, bisogna ammettere l'esistenza di un essere superiore il quale dia alla virtù la felicità che essa merita.

L'IMMORTALITA' DELL'ANIMA E L'ESISTENZA DI DIO sono altri due postulati della ragione pratica.
Questi problemi, che dal punto di vista della conoscenza (ragione teoretica) non si possono risolvere, vengono così risolti dalla ragione pratica con l'affermazione dei postulati
(… il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me …).

Questa spendida immagine presuppone l'autonomia della coscienza, non nega la trascendenza né il suo intervento volitivo e creativo, ma la relega in un sfera diversa. <<Il cielo stellato sopra di me>>. L'etica , la legge morale, sono invece cosa mia, della mia coscienza, intime, dell'<<in sé>>, che presuppone un ragionamento ontologico però di tipo laico, che sacaturisce dalla coscienza individuale e detta a se stessa la propria ragion pratica.

Nella
CRITICA DEL GIUDIZIO, K esamina due specie particolari di giudizi:
- Il
giudizio ESTETICO riguarda il bello e il brutto e contiene un fondamento universale, il sentimento estetico che a differenza di tutti gli altri sentimenti non dipende dai sensi, ma dalle facoltà conoscitive.
E' bello ciò che provoca il "libero giuoco e l'equilibrio armonico" delle facoltà conoscitive, cioè la sensibilità e l'intelletto.
Oltre al bello c'è il "sublime" che si divide in sublime matematico e sublime dinamico. Sublime matematico è ciò che in natura è immensamente grande (il mare, il cielo, ecc.), dinamico ciò che in natura è una dimostrazione di immensa forza (una tempesta, un terremoto, ecc.). Il sublime, essendo una dimostrazione dell'immensità della natura, ci fa sentire la nostra piccolezza come esseri sensibili, ma al tempo stesso, siccome noi col pensiero possiamo abbracciare anche le cose più immense, ci fa sentire la grandezza della ragione;
- I
l giudizio FINALISTICO è quello che si pronuncia quando si considera la natura non come meccanismo di cause e di effetti, ma come organismo indirizzato ad un fine. Intellettivamente questi giudizi non sono possibili perché con l'intelletto non possiamo stabilire nessun fine della natura; ma l'organizzazione finalistica non possiamo fare a meno di supporla per spiegarci la perfezione della natura, anche se non la possiamo dimostrare. I giudizi finalistici non sono veri e propri giudizi di conoscenza; tuttavia indirettamente giovano anche alla conoscenza, perché stimolano l'uomo ad approfondire sempre più lo studio della natura.


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