Eduardo Ambrosio


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RIFORME e POLI

STORIA > NOVECENTO > ITALIA, LA REPUBBLICA

Riforme e Poli di Sviluppo

Dal 3 al 5 dicembre 1944 - con la partecipazione dei più eminenti democratici - viene indetto un Convegno a Bari, organizzato dal Partito d'Azione, sui problemi del Mezzogiorno. I lavori portarono al convincimento che era ormai indispensabile programmare in maniera seria e decisa alcune linee di intervento per risollevare i l Sud ed il Paese tutto dai disastri della guerra. I nodi principali da districare nel Mezzogiorno erano, per il Convegno, il decentramento amministrativo, un'ampia riforma agraria, l'inizio del processo di industrializzazione.


CASSA PER IL MEZZOGIORNO
Nel '47 la DC istituiva un Comitato Permanente per il Mezzogiorno con don Sturzo presidente mentre De Gasperi dichiarava che il Sud rappresentava "l'impegno d'onore della Democrazia Cristiana".
Il vicesegretario del partito Dossetti, intanto, aveva un atteggiamento critico verso la posizione di De Gasperi come tentativo di "ricostruire prima e riformare dopo" e, mostrandosi ancor più progressista, proponeva per il partito un nuovo impegno che procedesse alle riforme contem-poraneamente alla ricostruzione. Sotto la pressione di Dossetti, perciò, il Comitato per il Mez-zogiorno proponeva per il Sud "una serie di opere pubbliche nel campo dei trasporti, strade, irrigazione e foreste, elettrificazione e bonifica" che porteranno nel 1950 alla creazione della CASSA per il MEZZOGIORNO.
Dossetti, però, assunse una posizione ancora più critica sul fatto che gli investimenti per il Sud venivano considerati "straordinari" in quanto egli aveva intuito in maniera alquanto precisa che "il problema politico, economico e sociale del Mezzogiorno non richiede la messa in opera di singoli progetti di carattere straordinario, ma necessita, per un periodo indefinito, un'iniziativa sistematica ed un impegno organico della macchina dello Stato".
Il vicesegretario DC, in questo modo, operava una convergenza sulle posizioni dei Comunisti che a loro volta - approfondendo la posizione di Salvemini e di Gramsci - erano giunti alla con-clusione che il problema meridionale doveva essere visto come "problema nazionale" risolvibile solo nel contesto di un processo complessivo di trasformazione della società. Almeno verbal-mente. Quindi, si realizzava una convergenza tra le posizioni meridionalistiche della sinistra cattolica e quella della sinistra operaia.
Ma quando all'interno della DC cominciò a manifestarsi la contraddizione tra il programma progressista del popolarismo interclassista cattolico e la base elettorale squisitamente conser-vatrice, De Gasperi non esitò ad attestarsi su posizione di destra. Un grosso serbatoio di voti era infatti costituito per la DC dai Coltivatori Diretti e dai ceti medi del Sud. La crescita del consenso ottenuto dal PCI obbligava d'altro canto l'ex "partito popolare" a cercare voti a destra contraddicendo da un lato l'iniziale spinta progressista e spingendo dall'altra il partito stesso a servirsi di una larga rete clientelare invece di mirare alla creazione di un moderno partito di massa.
Nel fatto, quindi , che la DC era "un partito di centro inclinato a sinistra che ricavava quasi metà della sua forza elettorale da una massa di destra" risedeva il pericolo che il partito si limitasse a ricreare il vecchio sistema clientelare con una nuova etichetta.
Il paradosso in cui si muove un partito a parole progressista che ha una base elettorale con-servatrice e reazionaria è evidenziato dalla discussione sulla riforma agraria che se era stato uno dei punti fondamentale della politica DC fin dai tempi di don Sturzo non poteva essere av-viata dal partito verso una soluzione radicale pena la perdita dei consensi dei ceti conservatori del Sud. Ecco perché De Gasperi - attestandosi ormai definitivamente su posizioni di destra - diede il la ad una riforma limitata ai fondi semincolti. Riforma che, pur molto parziale, fu o-steggiata apertamente da un gruppo molto influente di democristiani meridionali e fu approvata "solo quando divenne evidente che l'alternativa alla riforma era l'anarchia nelle campagne".
Già nelle amministrative del '51-'52 però la DC si accorse degli effetti della riforma sul proprio elettorato: il suo voto nel Sud cadde dal 49 nel '48 al 32. "L'analisi dei rendiconti elettorali dimostra - come ebbe a scrivere un alto esponente del partito - che la causa politica dello spo-stamento di parte dell'elettorato democristiano nel Sud verso i partiti di destra - fascisti e monarchici - fu il malcontento degli agrari colpiti dalla riforma agraria nei confronti della DC".
La Democrazia Cristiana subiva da un lato la crescente pressione del Partito Comunista che guidava i contadini nell'occupazione delle terre, dall'altro la pressione della destra che basava la propria politica meridionalistica sulla strumentalizzazione della delusione delle classi più abbienti. Dovendo scegliere tra una politica progressista e aperta a sinistra che le avrebbe alienato parte della base elettorale a vantaggio della destra e una politica conservatrice che l'avrebbe confermata alla guida della restaurazione capitalistica, la DC non seppe rinunciare ad una fetta del suo potere e perse l'occasione di caratterizzarsi nella realtà e non solo a parole come "partito di centro che guarda a sinistra".
Le sconfitte elettorali nelle amministrative del '51-'52 e nelle politiche del '53 segnarono la fine di quella che Guido Gonella definì "la stagione delle riforme" e finirono col provocare un preciso e sensibile spostamento a destra del partito che finiva col cedere alla destra economica sia al Nord che al Sud e col fare il gioco dell'apparato clientelare meridionale.

RIFORMA AGRARIA E CASSA PER IL MEZZOGIORNO
Nel 1950 vengono approvate la legge "stralcio" di Riforma Agraria e l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno.
Per anni questi provvedimenti sono stati presentati dalle classi dominanti come "successi" delle classi lavoratrici, al contrario, i partiti della sinistra operaia si sono mostrati fin dall'inizio molto critici sugli stessi (famoso discorso alla Camera di Amendola). Verso la fine degli anni Settanta l'analisi tendeva a rilevare che la contemporaneità dei provvedimenti fu un disegno preciso della borghesia che - scaturito dalla necessità del momento - impostava un'operazione assai complessa e sottile sia sul piano tattico che su quello strategico.
I due provvedimenti rientrano infatti in una concezione organica e precisa dei rapporti Nord/Sud: la istitunazionalizzazione di un Nord industrializzato con funzione propulsiva "contro" un Sud prevalentemente agricolo esportatore di forza lavoro.
L'articolazione delle risposte politiche era dettata, perciò, alla borghesia dalla necessità di "calmare" un movimento contadino che, con le lotte del dopoguerra, mostrava di travalicare lo stesso obiettivo di Riforma del PCI.
Lo "stralcio" di legge del '50 aveva, quindi, lo scopo di frenare la carica eversiva delle lotte contadine dando, nel contempo, slancio al settore agricolo in parte liberato dalle pastoie della rendita fondiaria.
Le principali caratteristiche della Riforma agraria furono:
- espropriazione di 700 mila ettari di terra, ma proprio nel momento in cui, a parole, si attac-cava la rendita fondiaria si dava la possibilità agli agrari colpiti dall'esproprio di iniziare un processo di riconversione capitalistica investendo nelle terre non espropriate (le più produtti-ve) il prezzo dell'indennizzo;
- il meccanismo di controllo affidato agli Enti di Riforma fino al pagamento integrale toglieva all'assegnatario ogni possibilità di considerarsi prima di 30 anni e finiva con l'ottenere un im-portante effetto collaterale: legava alla terra migliaia di contadini che non turbavo così il pre-cario equilibrio del mercato del lavoro;
- attraverso l'istituzione del credito agevolato veniva favorito il controllo ed il consolidamento dell'esercito industriale di riserva allontanando nel tempo il momento in cui sarebbe stato chiaro che per migliaia di contadini non c'era posto né nel settore agricolo né in altri settori produttivi;
- la Riforma produce, poi, un "fisiologico" aumento del prezzo dei terreni, elemento favorevole solo ai ricchi proprietari che, vendendo parte dei terreni, sono in grado di investire nelle aziende realizzando trasformazioni in senso capitalistico
- conseguimento di importanti risultati quali la fine dell'occupazione delle terre dell'immediato dopoguerra; la rottura del vecchio "blocco agrario" e la borghesia del Nord poteva procurarsi una nuova alleanza, questa volta con la borghesia urbana meridionale, instaurando rapporti clientelari che permettessero il ritorno al Nord - sotto forma di aumento di spesa per i beni di consumi - dei capitali investiti al Sud in servizi essenziali e infrastrutture (gli istituti bancari settentrionali colonizzano il Meridione).
La Riforma agraria si inserisce così in maniera assai brillante un quadro più complesso e complessivo: lo sviluppo del capitalismo italiano ormai uscito dalla fase di "ricostruzione" e vo-glioso di espandersi sui mercati internazionali. Comprensibile così la precisa connessione o complementarietà tra Riforma agraria e Cassa per il Mezzogiorno, in funzione di una politica che controlli la mobilità della forza lavoro e limiti l'emigrazione verso il Nord.
La cassa apre, infatti, la strada ad una nuova forma di intervento statale al Sud attraverso il coordinamento intersettoriale, l'intervento straordinario, la pianificazione pluriennale degli in-terventi. Perciò, se essa fu strumento per un nuovo clientelismo aprì anche la strada ad un nuovo tipo di intervento economico di uno stato che comincia ad apparire come imprenditore non tanto della classe dominante quanto di sé stesso. Lo stato così sarà in grado di esercitare il proprio potere attraverso la Cassa in virtù di un preciso e diretto controllo della mobilita della forza lavoro (politica dei LL.PP., gestione dei fondi della Riforma agraria, istituzione dei cantieri di lavoro). Inoltre, lo Stato, dotando il Sud di una notevole rete di infrastrutture, finirà col porlo in una posizione di una moderata preindustrializzazione, non sollecitando una industrializzazione vera e propria ma portando condizioni di vita almeno sopportabili per dissuadere almeno una parte ella popolazione dall'emigrare.
La Cassa, cioè, non ha come obiettivo primario la creazione di fonti autonome di reddito e di occupazione, ma la stabilizzazione dell'economia meridionale su un'agricoltura di sussistenza e su un'industria marginale rispetto al contesto nazionale e internazionale.
Ecco, quindi, che le piccole e medie imprese "incentivate" nel loro sorgere dalla Cassa non so-no in grado - nel contesto di una sempre più estesa politica di integrazione capitalistica - di reggere la concorrenza di imprese più dinamiche e già sviluppate del Nord. Anche il vantag-gio del ridotto costo iniziale viene assorbito dalla scarsa efficienza. Spesso, poi, la politica degli incentivi fu usata con scopi speculativi e da essa scaturirono investimenti effimeri e improduttivi (lo sviluppo anacronistico dei trasporti sui mari con le grandi navi).
La Cassa, perciò, fu il prezzo minore che il Nord fu costretto a pagare per accontentare la borghesia del Sud "desiderosa di avere una sua industria". Infatti, provocando contemporane-amente un allargamento dell'esercito di riserva e un freno alla mobilità di forza lavoro, favoriva in definitiva l'apertura dell'economia italiana verso i mercati internazionali in virtù dei bassi costi di produzione e limitava e stabilizzava notevolmente le rivendicazioni di tipo sociale.
Una volta attuata la "stabilizzazione", si tentava di incentivare la domanda interna, condizione necessaria dello sviluppo dei settori più avanzati; i livelli tecnologici si innalzarono sempre più nel solo settore dinamico per mantenere un posto concorrenziale sui mercati internazionali. Questo comporta, per tutto il periodo successivo alla ricostruzione, un incremento dei livelli di occupazione attraverso l'uso di forza lavoro meridionale fornita dall'emigrazione: "il Mezzo-giorno - cioè - è utilizzato ai fini di uno sviluppo capitalistico tutto esterno ad esso, gli investi-menti sono riusciti ad assolvere al compito di alleggerire le tensioni".
In tempi successivi appare chiaramente il limite insito in questo tipo i politica: le tensioni sociali si riproducono in maniera più violenta; lo sviluppo del capitalismo agricolo e la crisi della piccola proprietà provoca un esito, questa volta, massiccio; la concentrazione nelle grandi città di un tasso altissimo i popolazione; la crescita "patologica" del terziario.
Gli squilibri anziché diminuire si acuiscono.
La politica governativa del "contenimento", quindi, riesce solo in un primo momento a frenare l'esodo e a limitare lo smistamento nelle grandi città del proletariato meridionale; non a caso intorno agli anni Sessanta, proprio in contemporanea con il massimo sviluppo economico, il tasso di emigrazione cresce in modo inarrestabile. La concentrazione della popolazione nelle grandi città, però, se favorisce il controllo sociale dall'alto, rappresenta l'anello più debole della catena nel processo di sviluppo e integrazione capitalistica: la città si trasforma, infatti, in un focolaio di tensioni sociali dove appare sempre più difficile il recupero e l'organizzazione del consenso.
La concorrenza internazionale e il MEC, poi, esigono una sempre più crescente centralizzazione del capitale, una riduzione dei costi di produzione, un aumento del tasso di sfruttamento della forza lavoro, salari relativamente bassi. Questo tipo di strategia finisce - come abbiamo visto - con l'emarginazione e col porre in crisi la piccola e media azienda ad alta intensità di lavoro ma scarsamente competitiva, la conseguenza aumentano disoccupazione ed emigrazione.
L'unico settore attivo - anche se solo sul piano dell'occupazione - è il terziario; gli emigrati, infatti, che tornano al Sud non trovano lavoro né in quelle imprese che richiedono manodopera altamente qualificata né nelle piccole imprese in crisi economica e che non riescono più ormai a produrre domanda di forza lavoro, investono perciò i loro risparmi nel terziario (Rapporto CNEL, 1970).
Sottosviluppo ed emigrazione formano così un circolo chiuso: il sottosviluppo provoca l'emi-grazione che genera, a sua volta, un flusso di ritorno di forza lavoro che - non trovando altro - rifluisce nel settore terziario e parassitario. I risparmi e la forza lavoro dell'emigrato favori-ranno così la nascita di imprese antieconomiche e, quindi, aggraveranno la già critica situazione di sottosviluppo.
Per concludere ora in termini non strettamente politici ma storici si può rilevare che il costo della Riforma agraria fu troppo elevato (i proprietari delle terre espropriate furono compensati con Titoli di stato al 5%) e i vantaggi - in rapporto alla gravità dei problemi in prospettiva - risultarono in definitiva irrilevanti. Migliorò per alcuni il tenore di vita, aumentò leggermente nelle zone di riforma il rendimento dei terreni, ma nel complesso - come scrive il Clough - "la parte della popolazione assistita dalla Riforma fu soltanto un po' più numerosa dell'aumento della popolazione in ciascuno degli anni dell'immediato dopoguerra, e ciò che i contadini otten-nero fu generalmente un miglioramento delle condizioni di lavoro piuttosto che un allargamen-to della possibilità d'impiego". In realtà i contadini ottennero appezzamenti piccolissimi e frammentati e il loro tenore di vita non subì miglioramenti decisivi. Non bisogna dimenticare, infine, che il costo della Riforma fu enorme e che dovettero passare molti anni prima che po-tesse essere ammortizzato.
La Cassa per il Mezzogiorno aveva come scopo ufficiale quello di superare ed integrare meri-dionalizzandolo il vecchio sistema di intervento statale. Essa si imbatté subito in notevoli diffi-coltà determinate da una mancanza di coordinamento tra gli interventi della Cassa e quelli dei vari ministeri che - unite alle pastoie camorristiche e clientelari - finisce per bloccarne a volte gli interventi e a creare spesso terreno di pascolo per qualsiasi tipo di speculazione.
Inoltre l'industrializzazione delle aree depresse e la politica dei "poli di sviluppo" (vedi cap. 13.1b) oltre a ricreare anche all'interno del Mezzogiorno la dialettica sviluppo/sottosviluppo porterà ad una nuova colonizzazione del Mezzogiorno da parte del capitalismo in cerca di nuovi sbocchi che priverà tali aree di un autonomo sviluppo economico.
Sarebbe stato necessario, invece, invertire questa tenenza e porre le popolazioni nella condi-zione di agire esse stesse per il rinnovamento sociale e il progresso economico attraverso la rimozione cause economiche e politiche del sottosviluppo meridionale.
In regime di oligopolio e di integrazione capitalistica la Riforma agraria e la Cassa per il Mez-zogiorno non avrebbero potuto svolgere azione diversa che in realtà hanno svolto.

LA POLITICA DELLO SVILUPPO PER POLI
Manlio Rossi Doria fu il primo a distinguere - limitatamente al settore agricolo - due diverse realtà socioeconomiche nel Mezzogiorno italiano: l'osso e la polpa.
Sono presenti cioè nel Meridione aree le cui possibilità di sviluppo appaiono assai diverse. In alcune - l'osso - solo interventi esterni (industrializzazione, turismo) possono dare il via a un progresso legato, però, alla diminuzione della popolazione conseguenza della emigrazione. In altre - la polpa - esiste la possibilità di un vero e proprio sviluppo interno che riposa su un ra-zionale sfruttamento delle risorse e su una legislazione incentivante presso l'imprenditoria lo-cale volta all'affrancamento da un tipo di gestione ormai superato.
Tale impostazione - una volta esteso dal settore agricolo all'economia in generale - anticipava le linee del futuro intervento programmatico nel Mezzogiorno istituzionalizzando la divisione tra le due realtà meridionali e consigliando una distribuzione eterogenea degli investimenti sul territorio.
Si sceglieva, cioè, la via di concentrare gli sforzi sulla "polpa" lasciando all' "osso" la esclusiva risorsa dell'emigrazione per i più qualificati, un livello minimo di occupazione e di sussistenza per gli emigrati potenziali, qualche miglioramento per i servizi e le infrastrutture nella lunga e difficile attesa di convincere qualche imprenditore ad investire capitali in quelle zone in cambio di particolari agevolazioni.
Anche se fra disordini ed incertezze clientelari ed elettoralistiche lo sviluppo capitalistico co-mincia sempre più a localizzarsi e circoscriversi in "isole" o "POLI" fino a quando - intorno agli anni Sessanta - il modello di sviluppo per poli diventerà la "chiave" dell'intervento pubblico nel Mezzogiorno.
Nel 1964, l'allora Ministro per il Mezzogiorno, il sindacalista democristiano G. Pastore, poteva così riassumere le direttrici della politica di sviluppo nel Mezzogiorno per gli anni '64-'69: "in-tervento di rilevanti proporzioni concentrato nei punti di crescita, i cui effetti si estendano gra-datamente a porzioni sempre più ampie del territorio meridionale; politica di sostegno e di si-stemazione nelle aree poste e i margini del processo di sviluppo del Mezzogiorno, nelle quali esistono urgenti problemi di riequilibrio sociale".
Un'impostazione siffatta si basava sulle rinnovate esigenze di una "dinamicizzazione" del sot-tosviluppo economico meridionale non solo a livello produttivo ma anche di ridistribuzione del reddito e di espansione dei consumi in connessione sia con un notevole avanzamento del pro-cesso di integrazione europea sia, soprattutto, con le esigenze di espansione del mercato in-terno voluta dai gruppi capitalistici del Nord per fronteggiare la poco favorevole congiuntura.
L'intervento pubblico subiva così una netta differeziazione a seconda della sua incidenza su zone suscettibili o meno di sviluppo al di là della creazione di "autonomi meccanismi di svilup-po" o degli incentivi per favorire interventi privati, lo Stato interveniva direttamente - e in maniera massiccia - come imprenditore nei settori propulsivi e nelle industrie di base.
Già alla fine degli anni Cinquanta, quindi, mentre cominciava ad affermarsi la politica di sviluppo per poli, si assiste all'accelerazione del processo di degradazione delle zone non individuate come poli: le zone interne vengono in maniera esplicita e definitiva condannate alla completa morte sociale ed economica.
Alle aree escluse dal progetto di sviluppo industriale (che il Comitato della Programmazione definisce pure di scarsa importanza agricola) vengono proposte soluzioni ingannevoli o illusorie: "agroturismo", sviluppo della cooperazione, piccole industrie a basso tasso di investimento, part-time agricolo/industriale; in realtà esse assumono importanza rilevante in riferimento alla funzione che viene loro affidata nell'ambito del mercato capitalistico del lavoro: la forza lavoro più valida e competitiva va a colmare i vuoti nelle tradizionali aree di immigrazione. Le zone non suscettibili di sviluppo, cioè, non solo forniscono manodopera, ma forniscono quasi esclusivamente la manodopera migliore dal punto di vista produttivo.
Una volta istituzionalizzata la presenza di un serbatoio di manodopera gli imprenditori sono in grado - nel momento in cui lo sviluppo tecnologico determina una limitata richiesta di mano-dopera - sia di selezionare la forza lavoro da inserire nel processo produttivo sia di poter eser-citare un continuo "ricambio": si assiste, in definitiva, ad una vera e propria impostazione se-lezionata di disoccupazione (M. Paci). La forza lavoro giovane e competitiva importata dal Sud finisce per rimpiazzare nelle industrie del Nord donne e anziani emarginati dal circolo produttivo in seguito ai processi di ristrutturazione industriale.
La popolazione "non attiva" subisce così un costante incremento parallelo a quello della popo-lazione scolastica: questi però, altro che essere segni di un accresciuto benessere economico, appaiono come conseguenza di un certo tipo di sviluppo (non progresso!).
Anche nelle aree scelte come isole" di sviluppo non sono assenti forti contraddizioni come i fenomeni di sottosviluppo capitalistico funzionali anch'essi alla "ristrutturazione" che travolge le strutture produttive arretrate provocando una crisi delle attività tradizionali ancor prima del consolidarsi delle nuove, scarsità e precarietà dell'occupazione nei settori in via di ristruttura-zione, riduzione "patologica" nei settori tradizionali.
L'Alfa Sud, ad esempio, l'intervento forse più massiccio operato in funzione della politica di sviluppo per poli, ha avuto incidenze trascurabili sul contesto socio-economico. Ha favorito l'il-lusione disattesa di occupazione industriale mentre ha dato il colpo di grazia - accelerandone la crisi - alle strutture produttive tradizionali. La attività indotte, sbandierate in sede di pro-grammazione come fonti di occupazione nel settore industriale, sono rimaste a livello di pro-grammi. In realtà l'intervento di un'industria irizzata (IRI) come l'Alfa fu stimolata anche dall'abbondanza di manodopera a basso costo, dalla facilità di ricattarla e dal potenziale pro-pagandistico (e quindi clientelare e propagandistico) dell'operazione.
Intanto, proprio in un periodo di intensificazione degli investimenti industriali, cala il tasso d'occupazione in quanto - come abbiamo visto - il tessuto produttivo preesistente va in crisi fin quasi a scomparire o a sopravvivere stancamente e artificiosamente alla morte "clinica": è il prezzo del processo di ristrutturazione capitalistica che ha come protagonista, questa volta, il capitale pubblico e, mentre provoca un aumento delle dimensioni medie delle aziende, finisce con il liquidare la strutture produttive arretrate concentrando investimenti, agevolazioni, in-centivi, crediti, verso industrie ad alto livello di produttività a basso tasso di impiego di forza lavoro.
Le industrie tradizionali (tessili ed alimentari) a bassi livelli tecnologici cadono in un terribile stato di crisi che procura un notevole calo si occupazione non compensato dal parallelo (limi-tato) incremento dell'occupazione nelle industrie tecnologicamente avanzate.
Anche la politica di sviluppo per poli finisce, poi, con l'impedire l'affermarsi al Sud di quella borghesia industriale (gli imprenditori che procurano l'autonoma mentalità d'impresa) che, nel moderno sistema capitalistico, è l'elemento dirigente essenziale nello sviluppo economico. La grande industria meridionale o è di Stato o è affiliata ai grandi oligopoli del Nord: ciò non fa che favorire ancora una volta lo stato di subordinazione dell'economia meridionale.
La dialettica sviluppo/sottosviluppo si ripercuote anche all'interno del Mezzogiorno creando - come abbiamo visto - un crescente gap tra "isole" di industrializzazione e zone circostanti. In Campania, ad esempio, allo sviluppo di parte della province di Napoli, Caserta e Salerno corri-sponde il sottosviluppo di Avellino e Benevento e di larghe zone nelle stesse province relati-vamente più avanzate; lo stesso fenomeno si nota in Puglia, Calabria, Basilicata e Sicilia.
La politica di sviluppo per poli, quindi, non solo non ha risolto il problema del sottosviluppo meridionale ma ha creato nuovi squilibri in funzione del rinnovato contrasto tra zone agricole (povere e in via di spopolamento) e zone industrializzate (relativamente più ricche e sovrap-popolate). Anche le industrie meridionali, poi, hanno dirottato commesse verso le imprese più competitive del Nord e non certo verso imprese locali arretrate e incapaci di produrre servizi a costi e prezzi economici: le attività di occupazione indotte finiscono col sorgere realmente ma in zone altre dai poli di sviluppo in quanto anche le imprese pubbliche - in regime di oligopolio - non sono in grado di prescindere dalla legge del profitto.
La politica dei poli urbani di sviluppo, perciò, altro che risolvere i problemi più gravi del Mezzo-giorno ha acuito i contrasti città/campagna, ha dato il colpo di grazia all'agricoltura, ha creato nuovi squilibri nello squilibrio facendo sì che il processo dialettico sviluppo/sottosviluppo si e-stendesse e perpetuasse anche all'interno del Mezzogiorno medesimo.
La politica di sviluppo per poli ha, quindi, fallito miseramente il suo compito ufficiale" in quanto essa non ha fatto altro che riproporre un nuovo modello di sviluppo, "più integrato e dinamico", ineliminabile nel contesto del sistema oligo-capitalistico vigente.
Questo tipo di politica di sviluppo, poi, ha fatto maturare la convinzione che ogni possibilità di riscatto per il Mezzogiorno appare legata solo alle lotte operaie del proletariato italiano in fun-zione anticapitalistica.

Il sindacato e lo sviluppo per poli
I risultati della politica dei poli di sviluppo confermano ed avvalorano le critiche del Sindacato che la ritenevano una scelta inadeguata ai fini di una effettiva industrializzazione.
Il fallimento è evidenziato dal fatto che essa non è riuscita a introdurre nel processo un ele-mento di cosciente direzione politica, di pianificazione del processo, di ordine nello sviluppo che pure erano nelle intenzioni ufficiali dei promotori. Il tipo di processo, infatti, è stato dettato esclusivamente dagli interessi delle aziende e dei grandi gruppi finanziari ed ha determinato un solo rozzo ed incontrollato effetto globale: un maggiore afflusso di capitali privati e pubblici verso l'area meridionale. Per il resto, questo tipo di intervento non ha fatto altro che adeguarsi a posteriori ad un tipo di sviluppo che sfugge ad ogni controllo politico sanzionando scelte private decise con criteri quasi tutto affatto privatistici.
E ciò non poteva non avvenire in assenza di una generale pianificazione economica sia a livello centrale che locale che ha favorito l'accentuarsi degli squilibri all'interno del territorio meridio-nale.

Alle aree di sviluppo industriale (10% della superficie, 33% della popolazione!) fanno riscontro zone ampie in cui è assente ogni indizio di industrializzazione: alle "isole" di sviluppo agricolo-industriale dove si assiste a fenomeni di concentrazione economica e sociale e di trasformazio-ne agraria fanno riscontro territori caratterizzati da una "economia imperniata su un'agri-coltura intrinsecamente povera, redditi bassi e instabili, livelli minimi di istruzione generale e di preparazione professionale, sottoccupazione, capitali insufficienti, scarsità di capacità d'im-presa".
Questi territori destinati ad "uno sviluppo industriale minore" costituiscono il grande serbatoio che alimenta il flusso migratorio verso "il triangolo" e verso l'estero: quasi il 75% degli emigrati meridionali proviene da queste zone.
La situazione meridionale ha finito col vedere incrementarsi i contrasti nel suo seno accentuati da questo tipo di sviluppo: in Sicilia, ad esempio, è presente un grave contrasto - inesistente un tempo - tra le province orientali in via di sviluppo e quelle occidentali. Questo tipo di politica, pur incapace di trasformare e industrializzare sufficientemente il territorio meridionale, è stata, però, in grado di mettere in crisi il vecchio assetto anche nelle aree non interessate da fenomeni di sviluppo che risentono, però, delle trasformazioni in atto nel paese e vedono rom-persi l'antico equilibrio contemporaneamente al manifestarsi di fenomeni di disgregazione, di crisi, di abbandono. Allo sviluppo del Nord e di alcune zone del Mezzogiorno corrispondono contraccolpi sul resto del territorio che creano una situazione insostenibile per le masse agricole dei territori non trasformati.
Il fenomeno dell'emigrazione si accentua, quindi, in impressionante parallelismo con l'accen-tuarsi dei fenomeni di sviluppo e gli emigranti si dirigono soprattutto nel Nord e in Europa; altro aspetto questo del fallimento della politica dei poli: le aree di sviluppo meridionali non sono in grado di trasformarsi esse stesse in una valida alternativa per l'emigrazione, la conseguenza è un grave fenomeno di concentrazione in aree già congestionate.
L'industrializzazione del Mezzogiorno, così come lo sviluppo agricolo, non appare, quindi, come uno specifico obiettivo della politica governativa che avrebbe richiesto una scelta ben diversa nella direzione degli investimenti, nell'utilizzazione delle risorse e nella distribuzione del reddi-to, ma come proiezione dell'indirizzo imposto allo sviluppo del paese dai gruppi monopolistici basato sulla domanda estera e sull'espansione della domanda interna di beni di consumi indu-striali (il basso di Napoli pieno di ogni sorta di elettrodomestico).
Gli interventi pubblici nel Mezzogiorno appaiono, perciò, come riflesso dello sviluppo capitalistico in atto e come necessario supporto ad esso, effetto e condizione delle scelte di sviluppo imposte dai gruppi monopolistici. L'insediamento industriale nel Mezzogiorno, infatti, appariva conveniente in funzione dello sfruttamento delle risorse agricole e minerarie, dalla domanda dei beni per lo sviluppo dell'industria delle costruzioni, della domanda creata dagli effetti redi-stributivi della spesa pubblica , nell'ambito del reddito, della disponibilità di manodopera a buon mercato.
La critica del Sindacato alla politica dei poli di sviluppo è indirizzata, quindi, verso "questo" tipo di sviluppo, ovvero contro il criterio che ha presieduto alla sua nascita funzionale alla immediata integrazione dello stesso Mezzogiorno nel quadro di una linea di sviluppo imposta non da scelte governative ma dai gruppi monopolistici.
Una strategia a lungo termine per lo sviluppo del Mezzogiorno avrebbe, invece, richiesto una visione molto più completa e complessiva del problema: l'integrazione dello sviluppo nei settori dell'industria, dell'agricoltura, e nei diversi settori industriali fra loro, creando così il presupposto per un reale ed autonomo inserimento complessivo del Mezzogiorno nel quadro dello sviluppo nazionale ed internazionale.
Viene, perciò, a poco a poco maturandosi nei vertici e nella base sindacale la coscienza che la soluzione dei problemi del Mezzogiorno è condizione essenziale per avviare a soluzione la crisi strutturale che affligge l'intero paese. Di qui deriva l'esplicito collegamento, operato dalle forze sindacali, fra le battaglie contrattuali e la lotta per le riforme, l'occupazione e lo sviluppo. Non è più attuale cioè un modello di sviluppo basato sulla crescita economica al Nord con l'esodo drammatico di milioni di lavoratori conseguente alla disgregazione del tessuto sociale meri-dionale, un modello di sviluppo oggi chiaramente incapace di sostenere lo stesso sviluppo eco-nomico del Nord.
I lavoratori sia del Nord che del Sud sono ormai consapevoli del fatto che le lotte per ottenere migliori condizioni di lavoro, per difendere occupazione e salari, con conquistare ed incremen-tare il potere nelle fabbriche e nelle campagne non possono affatto essere scisse dal contenute delle lotte generali per il Mezzogiorno che si presenta oggi come nodo centrale dello sviluppo economico del paese e obiettivo principale della lotta sociale.
E' indispensabile, perciò, creare occupazione per sottrarre le nuove generazioni meridionale all'amaro ed annoso destino dell'emigrazione e della disoccupazione. "Ciò è possibile soltanto attraverso una nuova politica di sviluppo economico integrato agricoltura, industria e infra-strutture civili che si traduca anche in veri strumenti di potere e di gestione associata e di de-mocrazia nel Mezzogiorno".
Il tipo di politica seguito fino ad oggi non collegato ad una vera riforma agraria e ad una quali-ficazione dell'industria di trasformazione dei prodotti agricoli, ha provocato solo fallimenti, cre-scita degli squilibri, disgregazione sociale, disoccupazione.
Un nuovo tipo di politica che tenga conto, invece, delle effettive necessità del Mezzogiorno (come i beni primari: la casa e no n il basso) e del paese tutto non può non essere connesso con l'assunzione dei seguenti impegni tra loro strettamente collegati:
1 - la trasformazione industriale dell'agricoltura e la promozione dell'associazionismo fondati sul potere effettivo delle masse bracciantili, contadine e degli operai;
2 - rivendicare in un confronto diretto con le Partecipazioni Statali una nuova politica di sviluppo indu-striale con precisi impegni settoriali e territoriali, relativi alla quantità e alla qualità degli investimenti e della occupazione. Queste rivendicazioni saranno sostenute dall'impegno unitario di lotta di tutti i lavora-tori del Nord e del Sud, contestualmente alle lotte contrattuali in modo realizzare concretamente, su o-biettivi specifici e comuni, l'unità della classe operaia e di suoi alleati;
3 - la contestazione dei programmi di ristrutturazione dei grandi gruppi industriali privati, sottoponendoli a controllo per una politica di sviluppo agricolo e industriale nel Mezzogiorno;
4 - la salvaguardi della riqualificazione delle piccole e medie imprese;
5 - l'attuazione di una rete di servizi indispensabili ad un nuovo tipo di sviluppo economico ed una pro-fonda trasformazione delle condizioni civili (irrigazione, edilizia abitativa, servizi, scuole, ospedali, rete viaria).

IL PIANO MANSHOLT INTEGRAZIONE AGRICOLTURA/CAPITALISMO
Il processo di integrazione capitalistica in corso nell'Europa prevede per il Mezzogiorno italiano un'espansione del "tessuto produttivo capitalistico" con una conseguente ulteriore crisi ed e-marginazione dei settori produttivi tradizionali. Ne risulta un aggravamento del bilancio com-plessivo del mercato del lavoro ed un peggioramento delle condizioni di vita di quegli strati sociali (proletariato agricolo) che non possono inserirsi nel settore capitalistico dinamico. Il diffondersi - assai lento e limitato - dei settori produttivi moderni provoca, perciò, la crisi sempre più grave e veloce delle attività produttive tradizionali.

Ciò non fa che confermare la tesi tanto discussa di Capocelatro: il sottosviluppo del Mezzogior-no non è dovuto alla assenza dello sviluppo capitalistico ma proprio a certe scelte assai preci-se del capitalismo che agisce all'interno dello stesso Mezzogiorno e la cui azione diviene sem-pre più deleteria man mano che procede "il processo d'integrazione capitalistico".
L'analisi gramsciana che individuava in un rapporto di classe (blocco industriali/agrari) le radici storiche del sottosviluppo meridionale era esatta. Ma la situazione, poi, è profondamente mutata in funzione di certe scelte che i più forti gruppi capitalistici - in sistema di oligopolio - hanno compiuto nel dopoguerra.
La Riforma Agraria e la Cassa per il Mezzogiorno hanno messo in crisi il blocco storico e la bor-ghesia terriero- agraria, segnando l'inizio di profonde trasformazioni nell'assetto socioecono-mico del Mezzogiorno.
Il capitalismo quindi - intervenendo nell'economia meridionale - ha messo tra parentesi il ruolo primario detenuto dalla rendita fondiaria e ha dato l'avvio - specialmente nel settore agricolo - alla creazione di strutture atte ad incrementare le possibilità produttive.
Si ponevano così le basi dell'integrazione capitalistica degli anni Sessanta attraverso la politica dei Poli di Sviluppo e la "differenziazione dell'intervento nel Mezzogiorno".
In alcune zone - quelle interne non destinate ad alcun sviluppo - l'intervento ha avuto un e-sclusivo carattere assistenziale ed ha favorito i processi di integrazione.
Nelle zone destinate allo sviluppo capitalistico - sia agricolo che industriale - sono state create strutture moderne volte alla razionale ed efficiente utilizzazione delle risorse (come la mano-dopera a basso prezzo) che favorisce l'inserimento di dette zone nel mercato nazionale ed in-ternazionale.
In questo modo, però, si è rinunciato a creare un effettivo "meccanismo autopropulsivo di svi-luppo" atto ad eliminare il fenomeno del sottosviluppo o almeno a superare alcuni effetti più gravi.
L'economia italiana, infatti, si basa fondamentalmente - come abbiamo visto - su un settore moderno industriale che produce beni per il mercato interno ed internazionale: i tassi di pro-duttività sono altissimi, modesto l'impiego di manodopera, alti i ritmi e i carichi di lavoro, i salari relativamente bassi, notevole il "ricambio" di manodopera. Queste caratteristiche, tipiche di un settore industriale moderno, contrastano con quelle degli altri settori dai quali proviene gran parte della manodopera. All'incremento del tasso di produzione non può corrispondere, infatti, un parallelo incremento dell'impiego di forza- lavoro: la produzione è organizzata come nei paesi in cui esiste un fenomeno inverso a quello italiano, ovvero una scarsità di manodopera. Il circolo però è chiuso: le industrie moderne, infatti, per mantenersi competitive sul mercato internazionale non possono assolutamente rinunciare all'uso del tecnologico sempre più avanzato che riducono il tasso di impiego di forza- lavoro.
Il processo di integrazione capitalistica quindi, incrementandosi, non fa altro che allargare contemporaneamente il gap fra il settore industriale moderno che produce la maggior parte del reddito e il resto dell'economia.
Il fatto che il settore agricolo, poi, sia la sede più tipica dell'esercito industriale di riserva pro-voca necessariamente un abbassamento del tasso di produttività nel settore, considerato nel complesso.
Contemporaneamente il terziario si gonfia di forza- lavoro sottooccupata e inserita in attività poco redditizie.
Il "dualismo", quindi, tende ad aumentare e, di conseguenza, peggiorano le condizioni e le possibilità dei proletari relegati nei settori stagnanti.
Nel Mezzogiorno, così, finiscono col localizzarsi i settori più poveri mentre la progressiva diffu-sione di attività industriali moderne che impiegano scarsa manodopera a reddito relativamente basso non compensa affatto la progressiva crisi delle attività economiche tradizionali che è provocata dello sviluppo e dall'integrazione capitalistica.
La politica agraria, perciò, regolando il flusso di manodopera verso l'industria, ha permesso da un lato lo sviluppo capitalistico dall'agricoltura, dall'altro ha tenuto in vita - più apparente che reale - un settore contadino cui sottrarre la forza- lavoro più efficiente.
Anche all'interno dell'agricoltura si realizzava, così, un profondo dualismo tra un settore capi-talistico che utilizzando tecnologie moderne e scarsa manodopera realizza un alto tasso di pro-duttività e un settore contadino scarsamente produttivo ma che impiega molta forza- lavoro, tra un'agricoltura capitalistica moderna e dinamica e un'agricoltura di assistenza mantenuta in vita "politicamente" per limitare il crescere patologico della pressione sul mercato del lavoro. Questo tipo di politica, però, basato sulla necessità di avere a disposizione un esercito industriale di riserva e sul lento ma progressivo ricambio di forza- lavoro nel settore dinamico e portante dell'economia, è stato possibile fino a quanto la politica agraria è stata decisa a livello nazionale.
La politica agraria della comunità europea, però, nel 1963 ha subito una forte scossa che ha provocato una svolta.
La presa di coscienza delle contraddizioni insite nella politica agraria e l'esigenza di una ristrut-turazione in termini di efficienza capitalistica hanno provocato all'interno della Comunità Europea la nascita di un nuovo corso per una rapida trasformazione ed omogeizzazione delle strutture agricole dei paesi comunitari: IL PIANO MANSHOLT che, inserito nel contesto della integrazione capitalistica europea, tende da un lato a rendere più profondo ancora il gap tra aree sviluppate e aree di sottosviluppo, dall'altro a "modificare i termini del rapporto di sottosviluppo interni al sistema economico comunitario e i rapporti di classe ad esso corrispondenti".
La preoccupazione della proposta mansholtiana è, quindi, quella di impedire che restino in vita aziende al di sotto di certi livelli di razionalità e di certe dimensioni economiche la cui creazione e persistenza era favorita dal tentativo di mantenere in agricoltura una quota notevole dell'esercito industriale di riserva,
secondo il PIANO MANSHOLT, all'origine dei mali dell'agricoltura europea vi è una scarsa capacità contrattuale, l'inadeguatezza delle strutture, l'eccessivo impiego di manodopera. La soluzione proposta è la generalizzazione di strutture agricole di tipo capitalistico, l'allargamento delle dimensioni aziendali, l'intensificazione dell'investimento di capitali a basso regime di impiego di manodopera, una notevole concentrazione delle imprese e territoriale nella produzione e nella offerta dei prodotti.
"Nel formulare il suo progetto però - afferma E. Pugliese - Mansholt assume l'esistenza di in-teressi comuni agli agricoltori al i sopra dei contrasti di classe, prescinde completamente da considerazioni relative alla situazione economica generale della Comunità e al rapporto tra a-gricoltura ed altri settori produttivi e, soprattutto, sottovaluta i vincoli posti dal sistema alla realizzazione del progetto così concepito e al raggiungimento dei suoi obiettivi dichiarati".
La totale realizzazione del PIANO in realtà comporta l'espulsione di 5 milioni di addetti dall'a-gricoltura europea, una contrazione della produzione agricola e della superficie coltivata at-traverso un razionale processo di disincentivazione (quote di produzione, contributi per ogni albero del tal prodotto e per ogni animale abbattuti, ecc.).
In definitiva per i 3/4 del Mezzogiorno italiano il PIANO si traduce in un aumento dell'arretra-tezza economica e la definitiva emarginazione dal processo produttivo con la produzione, come vera risorsa, di forza- lavoro per l'emigrazione.

PROSPETTIVE DI INVESTIMENTI PER GLI ANNI SETTANTA
Il rapporto preliminare al programma economico nazionale 1971-75, reso pubblico nell'aprile del '69 dal Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, può essere considerato un vero e proprio MANIFESTO della pianificazione neo- capitalistica per quanto concerne il futuro dell'organizzazione territoriale in Italia, ovvero il programma di eliminare gli squilibri del sistema italiano attraverso una larga ristrutturazione del suo assetto produttivo connessa alla formazione di una rete equilibrata di sistemi metropolitani (con dimensioni minime di un milione di abitanti) strettamente legati tra loro pur nelle differenti strutture e nei diversi tipi di funzioni.
A questa trentina di nuovi sistemi urbani toccherebbe l'arduo compito di far lievitare la società italiana fino a raggiungere "le soglie di una nuova civiltà urbana" attraverso l'eliminazione dei più vistosi fattori negativi dell'economia del nostro paese nel contesto di una riorganizzazione dell'assetto territoriale, oggi troppo congestionato in alcune aree e disarticolato in altre, non corrispondente alle esigenze funzionali di una società a capitalismo avanzato.
Si assisterebbe, quindi, alla concentrazione, in una trentina di aree di investimenti, di produzioni moderne e qualificate e di servizi; al contrario, le aree escluse finirebbero con l'assumere un ruolo del tutto marginale nel contesto di interventi di mera stabilizzazione economica dove, per evitare i rischi di un impoverimento che vada al di là dei livelli sopportabili, si baderebbe alla riorganizzazione dell'agricoltura, al potenziamento delle infrastrutture, al miglioramento relativo dei minimi indispensabili livelli residenziali.
Si finirebbe così col realizzare tre tipi di sistemi urbani:
- il primo corrispondente all'incirca alle già esistenti grandi aree metropolitane (Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto occidentale, Firenze, Roma, Napoli) avrà interventi tendenti al decongestionamento e al decentramento delle attività;
- un altro (Adige- Garda, Salernitano, Basso Lazio) con il compito di riequilibrare "l'assetto di aree fortemente polarizzate attorno agli insediamenti maggiori", riceverà interventi tendenti al rafforzamento dei sistemi urbani minori attraverso processi di coesione interna per rendere tali aree capaci di contrastare la forza di attrazione di altri sistemi;
- un terzo (localizzato quasi esclusivamente nel Mezzogiorno), infine, come vera e propria alternativa all'attuale sistema col compito di modificare l'organizzazione nelle zone più arretrate dal punto di vista dell'industrializzazione e delle infrastrutture, subirà un intervento volto a "intensificare gli investimenti produttivi e a orientare gli interventi al miglioramento delle strutture urbane di tipo tradizionale" per poi passare, in un momento successivo, alla realizzazione di veri e propri sistemi metropolitani.
Nell'arco del decennio '70-'80 dovrebbe, perciò, realizzarsi una prima ossatura di moderni sistemi urbanizzati in regioni come la Calabria, la Sardegna, la Puglia e la Sicilia.
La necessità di realizzare in Italia una tale rete di sistemi urbanizzati si basa sull'argomentazione che solo certi livelli di concentrazione di popolazione, servizi e infrastrutture possono garantire l'attecchire di una base industriale, consentendo un autonomo sviluppo solo a quelle aree appunto che dispongono di buone infrastrutture e di numerosi e articolati servizi; ciò, d'altra parte, è impossibile in sistemi urbani di tipo tradizionale "troppo elementari nella loro composizione ed articolazione funzionale".
Una nuova e più complessa organizzazione territoriale è, quindi, la condizione indispensabile perché il capitalismo italiano possa stabilizzarsi definitivamente ed essere capace di reggere la concorrenza internazionale: ciò è tanto più vero se si pensa che anche le città del "triangolo" difettano di servizi ed attrezzature indispensabili.
Un'organizzazione territoriale nuova e più complessa è, poi, indispensabile soprattutto nel Mezzogiorno il cui sviluppo non è compatibile con l'assenza "di quelle indispensabili strutture - centri direzionali e com-merciali, centri import- export, servizi tecnici qualificati, uffici professionali, servizi interessanti la vita sociale - che sono invece in piena espansione in strutture urbane complesse". In assenza di tali strutture, al contrario, diventa difficile anche il semplice "trattenere" la popolazione e spingere imprenditori e tecnici ad impiantare imprese nel Mezzogiorno e a risiedervi.
La funzione della città - ovvero della ristrutturazione del territorio in vere aree metropolitane - è, quindi, decisiva per trasformare il Mezzogiorno. A parte le argomentazioni "ufficiali", però, la ragione più concreta che consiglia una politica di rafforzamento e sviluppo delle aree metropolitane - comune a tutte le società a capitalismo avanzato - è rappresentata dall'importanza fondamentale che la concentrazione della popolazione in grandi città acquista in funzione dell'espansione condizionata dei consumi in certi particolari settori (auto, elettrodomestici, ecc. quasi nulla la politica abitativa) coordinata da particolari forme di organizzazione della distribuzione (supermarkets, grandi magazzini).
Ciò considerato risulta abbastanza chiara la necessità per un economia capitalistica matura di favorire la proliferazione dei centri urbani a forte concentrazione di popolazione. Un enorme allargamento del mercato interno può, d'altro canto, essere realizzato attraverso un ulteriore processo di agglomerazione urbana nel Mezzogiorno che comporti l'insediamento nelle grandi città sottoposte all'offerta capitalistica di beni di consumo non indispensabili delle popolazioni delle campagne dove vige ancora un sistema eco-nomico basato in maniera rilevante sull'autoconsumo.
Inoltre la città - rispetto alla campagna - offre condizioni di vita e di lavoro assai disagevoli che generano, a loro volta, forti richieste di consumi privati (esempi tipici: mezzi di trasporto privati, sport, tempo libero, villeggiatura). La domanda dei consumi privati integrativi e sostitutivi viene cioè artificialmente indirizzata verso beni di livello e costo elevati con il conseguente riassorbimento - da parte dell'imprenditoria pubblica e privata - del miglioramento dl livello di reddito raggiunto dalle popolazioni urbane.
Un disegno di trasformazione così radicale dell'assetto territoriale dovrebbe rappresentare, quindi, una spinta non solo ad accelerare il processo di industrializzazione del Mezzogiorno malamente avviato con la politica di sviluppo per poli, ma anche a spostare attività qualificate, centri direzionali, attività imprenditoriali volte a colmare l'annosa divisione tra un Nord ricco e dinamico e un Sud colonizzato, dissanguato e costretto in attività marginali.
Il rischio concreto è che il tutto si riduca a localizzare in aree eccentriche, rispetto a quelle dove il movi-mento sindacale è più forte ed organizzato, di "forme di lavoro" verso le quali gli operai del Nord si sono disperatamente ribellati nel corso delle grandi lotte sindacali del '69: cioè una grande operazione per rea-lizzare di nuovo o confermare un tipo di divisione del lavoro tra Nord e Sud del paese, in cui ad un Sud spettano le attività o le specifiche lavorazioni che comportano un maggior carico di manodopera e un maggior carico di fatica per i lavoratori in quanto A BASSO TASSO TECNOLOGICO (la metallurgia pesante).
I primi interventi dell'industria privata e pubblica negli anni '70, in realtà, con l'agglomerazione e la "teoria dei sistemi metropolitani" non sono stati affatto coerenti: concentrare popolazione, attività e, quindi, forza- lavoro in poche aree significa, infatti, anche favorire la coesione operaia e quindi la reattività e l'organizzazione sindacale, tutto fumo negli occhi sia per l'imprenditoria privata che per quella pubblica.
Pertanto, la localizzazione al Sud di certe attività industriali non fa altro che trasferire nel Mezzogiorno alcuni momenti del ciclo produttivo trascurando affatto il discorso sull'agglomerazione e sulle economie esterne: i centri decisionali e i servizi qualificati non si spostano da Torino e da Milano dove è già "in atto" quell'ambiente Urbano che al Sud sarebbe "in fieri"; per cui la possibilità, la necessità, la volontà di sviluppare al Sud un vero sistema di aree metropolitane moderne appare, perciò, nel complesso quanto mai dubbia.






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