Eduardo Ambrosio


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LEGGE ANTIFEUDALE E CONSID.

STORIA > 1799 REPUBBLICA NAPOLETANA > COSTITUZIONI E LEGGI

LEGGE ANTIFEUDALE DEL 25 APRILE 1799.
CONSIDERAZIONI SUL DIBATTITO AL CONSIGLIO LEGISLATIVO DELLA RIVOLUZIONE NAPOLETANA


"
Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: "questo è mio", e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pivoli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: "Guardatevi dall'ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno!" (J.J. Rousseau, Discorso sull'origine della disuguaglianza).

Rosario Villari, uno dei più autorevoli storici della
Qestione Meridionale dice che "la questione della Riforma fondiaria nel meridione era stata concretamente posta durante la rivoluzione francese".
Una certa produzione letteraria del XVIII sec., aveva già sollevato questa questione durante il periodo del dispotismo illuminato.

In quel periodo la borghesia terriera si trovò in seria difficoltà; l'affermazione del diritto di proprietà avanzava insieme ai controlli sull'attività economica. La condizione dei coltivatori divenne più precaria e, invece di migliorare, le cose andarono peggiorando per i contadini, perché si accentuò la loro dipendenza nei confronti dei proprietari e l'usura divenne fonte di nuove rendite e nelle campagne lo strumento più pesante di assoggettamento delle masse contadine.

Nel Nord d'Italia, specie in Lombardia, dove ci fu una maggiore collaborazione tra intellettuali e sovrani illuminati, la situazione dell'agricoltura era migliore. L'agricoltura fu rivalutata grazie ai novali (terre a riposo) e l'introduzione del rotaggio, grazie all'adozione di tecniche agricole nuove e l'abbandono di quelle tradizionali e, inoltre, grazie alle opere di bonifica.

Nel Meridione, invece, c'erano forme di agricoltura ancora arretrate, legate al sistema feudale: il problema più urgente da risolvere era proprio l'eliminazione del sistema feudale e latifondiario, causa maggiore del ritardo del progresso nel sud d'Italia.

Con la diffusione delle idee illuministiche e dei principî universali, affermatesi con la Rivoluzione francese del 1789, e col nascere in Italia dei movimenti giacobini, i patrioti diedero vita a diverse repubbliche, tra le quali quella napoletana del 1799. Fu proprio in quel periodo di lotte politiche e di fermenti sociali che i giacobini napoletani ripresero e approfondirono i temi della
lotta antifeudale. Essi sostennero che il problema non consisteva nell'eliminare l'istituto della proprietà, ma nel confiscare le terre baronali e nel mutare la distribuzione fondiaria.

La discussione sui feudi in seno al Consiglio legislativo fece riflettere molti suoi componenti sul fatto che, per risolvere un problema del genere, ci doveva essere la collaborazione diretta dei contadini.
Purtroppo nelle campagne del Mezzogiorno le forze di rinnovamento erano troppo esigue e quelle poche che vi erano non riuscivano ad avere ragione della sfiducia e del fatalismo dei contadini, che vedevano nemici dappertutto.
I contadini guardavano con maggior sospetto la borghesia terriera che sembrava volerli privare dei pochi diritti che permettevano loro di sopravvivere entro il sistema feudale, tanto che si ribellarono, contro i fautori di questo nuovo ordine, preludio drammatico della mancata partecipazione delle masse popolari contadine, specialmente meridionali, all'epoca risorgimentale.
V. Cuoco, storiografo napoletano, nel suo Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799, dice che le masse contadine parteciparono o superficialmente o furono ostili ai patrioti, perché coinvolte in una rivoluzione che non era stata iniziata da loro, ma quasi imposta dall'esterno da pochi intellettuali e patrioti; perciò il Cuoco parla di rivoluzione passiva.

Tra gli uomini che daranno vita dal gennaio fino al giugno 1799 alla Repubblica, ricordiamo:
Mario Pagano, ispiratore ideale e politico del movimento; Eleonora De Fonseca Pimentel, che diresse una rivista giacobina (il Monitore napoletano), interessata al programma di riforma fondiaria; Vincenzo Russo, rappresentante delle tendenze radicali e, tra gli altri giacobini, ricordiamo il Cestari e Cesare Parabelli.

Mario Pagano, propendeva per un programma più moderato rispetto a quello dei suoi collaboratori. Il dibattito fra di loro fu molto acceso: c'era chi voleva procedere subito all'abolizione del sistema feudale; c'era chi si mostrava indeciso in questo senso, indicando una via più graduale. Questa indecisione fu fatale alla Repubblica. Nel frattempo i baroni reagivano rafforzando le posizioni.
Bisogna ricordare che i francesi, dopo le campagne in Italia, furono accolti come liberatori dalle forze di pro-gresso e di rinnovamento, accendendo entusiasmi e speranze. Ma negli organi più importanti delle Repubbliche che nasceranno in Italia (Veneta, genovese, cisalpina e napoletana), i francesi saranno i guardiani dell'ordine, pronti a sopprimere ogni eventuale sommossa.
Quando la l
egge antifeudale fu approvata (essa prevedeva l'abolizione dei privilegi baronali, lasciando ai baroni alcune terre già in loro possesso, attribuendo ai Comuni soltanto i demanî feudali, cioè quelle parti del feudo, come boschi e pascoli di cui facevano uso comune le popolazioni), il 25 aprile 1799, era ormai troppo tardi: la rivoluzione nella sua fase cruciale aveva subito una battuta d'arresto; a quel punto la sua sorte era già segnata e sopravvenne di lì a poco la sua definitiva sconfitta ed i suoi fautori furono portati al patibolo.

Le vicende che si susseguirono nella breve vita della Repubblica napoletana del 1799, sono inevitabilmente da collegare alle vicende francesi ed europee. In quel periodo era nata una coalizione antifrancese, formata da Inghilterra, Russia, Austria e i Borboni del Regno d'Italia che tra le altre cose, favorì il ritorno dei Borboni nel napoletano.

In quello stesso periodo il
Cardinale Fabrizio Ruffo organizzò la controrivoluzione, aizzando il popolo all'insurrezione in Calabria ed in Sicilia in nome del Re e della Santa Sede. Le bande sanfediste entrarono a Napoli il 20 giugno 1799; seguì una feroce repressione voluta dalla Regina Maria Carolina e dall'ammiraglio inglese Nelson. Furono impiccati M. Pagano, Francesco Caracciolo, Vincenzo Russo, Eleonora de Fonseca Pimentel; così pagarono con la vita il tentativo di aprire le porte del progresso civile nel loro Paese. Con la sconfitta della rivoluzione ed il ritorno dei Borboni, l'accanimento dei contadini contro i rivoluzionari aumentò in modo impressionante.

Il momento cruciale della rivoluzione ruota intorno al dibattito fra i suoi artefici sull'abolizione del sistema feudale.
E. De Fonseca Pimentel, in un articolo apparso sul Monitore napoletano, n. 18 del 19 aprile 1799, racconta che il rappresentante della Repubblica Giuseppe Albanese presentò subito il progetto di legge per l'abbattimento del latifondo, in quanto era ferma intenzione del Governo che nessun cittadino "
soffrisse più un vergognoso giogo figlio dell'usurpazione, né i posteri dei feudatari rimanessero esposti ad una tale indigenza".
Tutti i rappresentanti del Governo erano d'accordo nell'abolire i diritti personali che inchiudono servitù di persona a servitù d'industria. Invece, erano in dubbio se i diritti reali, cioè il possesso di terre feudali e le corvées sotto il titolo di decime, vigesime, ecc., si dovessero conservare. La Pimentel fa un'importante riflessione, sostenendo che "la servitù dei terreni è stata un'implicita conseguenza della servitù della Nazione".

Questa frase riflette molto bene la situazione politico-sociale al tempo della Rivoluzione napoletana.
Il ragionamento della Pimentel è forte e stringente:
le terre che i rivoluzionari volevano togliere ai baroni erano le stesse che il vincitore aveva usurpato al vinto e che il popolo, tenuto in schiavitù, dovette coltivare, dando il raccolto ai suoi padroni e sottoponendosi a qualsiasi umiliazione e prestazione di lavoro e al pagamento delle decime, del terratico, ecc.
Chi era il vinto e chi era il vincitore?
Il vincitore era una ristretta oligarchia proprietaria appoggiata e utilizzata, nello stesso tempo, dalla potenza straniera di turno, Francia o Spagna, e quanti usurparono le terre approfittan-do del fragile equilibrio politico italiano. Il vinto era il popolo italiano. Così si spiega come i terreni usurpati venissero considerati effetto della servitù nazionale e le prestazioni o corvées e le altre servitù personali conseguenza della servitù nazionale. Su questo problema rifletté anche il rappresentante Cestari, del cui discorso la Pimentel riportò alcune parti nel suo giornale: "
Governo feudale e governo monarchico, qual fu il passato che ci oppresse, non differiscono che nel nome [...] Gli uomini non saranno giammai repubblicani, se non quando saranno distrutte le servitù di qualunque genere e siano restituite le proprietà a quello stato in cui erano prima che il feudo esistesse".
Lo sbaglio che si deve evitare, secondo il Cestari, è quello di deliberare: "
E credete questa una pruova della vostra giustizia?" - argomenta ironicamente nei confronti dei rivoluzionari, e prosegue - "Quando Cesare oppresse la repubblica, mise forse in deliberazione col senato le ingiustizie che meditava? deliberò Federico II? deliberò Carlo D'Angiò e tutti gli altri suoi successori? deliberarono i baroni quando introdussero tante servitù personali?".
Se si crede, come dice il Cestari, che eliminando le corvées si eliminano le ingiustizie, si commette un grosso sbaglio. Infatti, bisogna eliminare le famiglie dei baroni, il diritto di proprietà, i possedimenti feudali, che devono appartenere alla Nazione futura. Quelle che i baroni chiamano proprietà legittime se le sono procurate "con la rapacità, con l'ingordigia, con l'orgoglio e colla sete di dominare". Queste terre dai padri sono state devolute ai figli e così nelle successive generazioni: "E non saranno devolvibili quando la necessità delle nostre circostanze l'esige, quando la giustizia lo reclama, quando la volontà generale di tutta l'intera Nazione, il cui bene devesi aver in mira lo comanda?".
Non potendo stabilire quando i baroni avessero comprato i terreni o li avessero ricevuti dai vassalli o se ne fossero appropriati illegittimamente, si decise di far comparire i baroni davanti ad una commissione che lo avrebbe stabilito.
Di questo parere era M. Pagano, il quale aveva definito la feudalità "u
na catena che parte dalla mano del tiranno, attaccata a lui i baroni, i quali la distendono sul popolo e gli stringono i colli e le braccia", e il feudo "parte della preda che il principe assassino accordò ai suoi compagni che furono i primi organi della violenza e della rapina, ed una caparra data loro per sostenere col ferro l'antico delitto". Egli si era reso conto che "chi ha comperato la giurisdizione e chi l'ha venduta hanno ugualmente attentato alla sovranità del popolo, hanno commesso un delitto".
I baroni si impossessarono di quelle terre con stragi, sottraendole ai Comuni e alcune le davano in dono ai vassalli per garantirsi la loro fedeltà e lo facevano per aumentare la propria ricchezza. Quindi, dice il Pagano: "
Tutto abolire e tutto lasciare ai baroni sarebbe ugualmente ingiusto". Perciò, egli propose: "una generale sospensione di tutte le prestazioni ch'esigono i baroni sotto qualunque nome, creare una commissione di 7 probi cittadini, innanzi alla quale, nello spazio di tre mesi, i baroni debbono legittimare il loro dominio. Se nello spazio di tre mesi non l'eseguono, s'intendono decaduti per sempre".
Il rappresentante della repubblica, Domenico Bisceglia, propose che una o più commissioni "l
iquidasse da una parte il valore del dominio diretto della Nazione, dall'altra quello del dominio utile degli ex baroni e di qualunque altro, o Comune o privato che vi avesse diritto". Simile fu il parere del rappresentante della Repubblica Fasulo, il quale, tra l'altro, insisteva per "un compenso da darsi dagli ex feudatari alla Nazione per la rinuncia al dominio eminente".

La Pimentel sintetizzò in 3 punti i pareri emersi nel corso del dibattito al Consiglio legislativo circa l'appro-vazione della legge antifeudale, nell'articolo sopracitato della sua rivista:
1) alla Nazione si deve sempre un compenso;
2) i baroni che non sono riusciti a dimostrare il loro titolo, devono essere spogliati di quel titolo;
3) provare quel titolo avrebbe condotto in liti complicate e dispendiose.

Alla fine del dibattito sull'approvazione della legge antifeudale, tutti i rappresentanti riuniti in seno al Consiglio legislativo erano d'accordo a considerare le famiglie baronali tutte alla stessa stregua, qualunque fosse l'origine dei loro possessi, "
o frode o compera o usurpazione".
Nel suo articolo la Pimentel riferisce che il rappresentante Giuseppe Logoteta, votò per questa legge convin-cendo gli altri con tale argomentazione: "
Non vi è chi non sappia che alcuni vagabondi del settentrione facendo uso della forza [...] oppressero gli innocenti abitanti di questo suolo. I Normanni, gli Svevi, gli Angioini, gli austriaci e i borboni sfruttarono le ricchezze del sud d'Italia e distribuivano terre, castelli e torri ai complici e sostenitori della loro tirannide". Il popolo, invece, "gemeva sempre nella piú estrema miseria". E continua dicendo: "Oggidì, che la maestà del popolo napoletano è risorta, e che si vive in governo democratico, queste istituzioni assurde e ridicole devono scomparire da questo suolo. Il mio voto è per la legge nel modo che si trova distesa dal cittadino Albanese".
La Pimentel conclude il suo articolo del Monitore napoletano (n. 18, 9 aprile 1799), dicendo (siccome il Regno di Napoli ha ricevuto la feudalità dai Normanni ed il resto d'Italia da Carlo Magno): "
Ora l'Italia e noi, le private e le pubbliche servitù distruggiamo sotto gli auspici e la protezione della Francia".

Era forte nella Pimentel e in tutti i patrioti napoletani la speranza di poter unificare l'Italia attraverso l'aiuto dell'intervento straniero.
Di questo si accorsero V. Cuoco, Pietro Colletta, Francesco Lomonaco, uomini di cultura che osservarono e parteciparono direttamente, chi più chi meno, alla vita della Repubblica napoletana. Essi porteranno la loro esperienza al nord d'Italia, specie a Milano, dove gli intellettuali del capoluogo lombardo si renderanno conto, grazia a loro, che per unificare l'Italia bisognava avere un proprio esercito formato da semplici cittadini che identificassero la propria felicità con quella comune e, quindi, trovare il consenso e la collaborazione di tutto il popolo italiano. Ma solo nell'800, con il Risorgimento dopo secoli di dominio straniero l'Italia troverà la strada dell'unificazione nazionale.

La cultura risorgimentale ha un grosso debito verso la cultura della Rivoluzione napoletana, specialmente per quanto riguarda la nascita della coscienza nazionale. Quindi, la prima spinta verso l'unificazione nazionale proviene proprio da Napoli, dove già nel 1647, il popolo e la nascente borghesia si erano opposti agli spagnoli, dando vita
alla Repubblica napoletana (ottobre 1647, aprile 1648).

Nonostante la breve vita della Repubblica, la vicenda ebbe molta risonanza: era la prima volta che dopo un secolo e mezzo di dominio spagnolo, il popolo dava vita ad un movimento politico che si proponeva il raggiungimento dell'indipendenza e della riforma sociale e politica. Purtroppo, il problema del latifondo non venne risolto allora e neppure con il Risorgimento e con l'Unità d'Italia. Rimarranno, specie nel sud d'Italia, i privilegi e i particolarismi feudali, le grandi baronie terriere e invano i contadini, dopo l'Unità, lotteranno contro quel sistema, costretti alla macchia per sfuggire all'esercito che il nuovo Stato mandava loro contro, per ristabilire l'ordine, trucidandoli a migliaia. Questo fenomeno fu denominato brigantaggio.

Neppure le conseguenze della rivoluzione industriale si fecero sentire nel sud. Lo sviluppo attecchì nel nord del Paese e al sud, invece, diventarono cronici i problemi come l'emigrazione, la disoccupazione, l'analfabetismo, la criminalità organizzata.

Un'altra vampata contro il latifondo ed il regime feudale si ebbe alla fine della prima guerra mondiale e culminò nel biennio rosso 1919-1921 con l'occupazione e la spartizione delle terre dei baroni da parte dei contadini. A questo movimento pose fine il fascismo, andato al potere nel 1922. Alla fine della seconda guerra mondiale il fenomeno si ripeté. Anche in quella circostanza la repressione fu dura, ma nel contempo vennero avviate dal nuovo Stato repubblicano una serie di riforme (riforma agraria, piano verde, ecc.), col proposito di risolvere finalmente la questione del latifondo in Italia. Per quanto tutti riconosciamo che l'agricoltura è la vera grande forza del Mezzogiorno, non credo si faccia abbastanza per valorizzarla. I guadagni sono bassi, le difficoltà molte, i giovani (come dar loro torto?) preferiscono occuparsi in altri "campi".
Eppure non riesco a vedere, anche in considerazione del nostro ingresso nell'Europa unita, come possa l'Italia fare a meno dell'agricoltura e della cultura del Mezzogiorno.
È questo che mi incuriosisce e mi turba: osservando lo stato della nostra agricoltura, si direbbe che ci sono, anche oggi come ieri, forze che contrastano ogni ovvia e ragionevole soluzione del problema meridionale.







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