Eduardo Ambrosio


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1946 IN ITALIA: MONARCHIA o REPUBBLICA?

STORIA > NOVECENTO > IL DOPOGUERRA

IN ITALIA: 1946 - PRIMO ANNO DI PACE
LA DEMOCRAZIA

Il 1946 fu il primo anno di pace con l'espressione del triplice voto: amministrativo (primavera), politico e referendario (2 giugno), nonché della proclamazione della Repubblica, rappresenta una sorte di "
crocevia" della contemporanea locale e nazionale.
Si votò, per la prima volta, con suffragio universale maschile e femminile, per i rappresentanti dei governi locali e dell'Assemblea Costituente nonché per la scelta istituzionale.
Il 1946 fu un anno di tensioni sia per lo scontro tra monarchia e repubblica che per le emergenze sociali nel faticoso e doloroso riavvio d'una esistenza "normale".

Napoli ne è una dimostrazione eloquente, in quanto, all'uscita dal tunnel del fascismo e della guerra, sull'onda a tratti enfatica, e comunque intensa delle Quattro Giornate, nelle quali confluirono sia motivi profondi e antichi che ragioni immediate e contingenti, è vitalizzata da una politicità e da una società "
istintivamente dalla parte giusta" della democrazia e dell'antifascismo.
Alla stagione della lotta e della scelta, però, era seguita quella della
coabitazione con la forza materiale, la presenza fisica e l'incombente "cultura" anglo-americana, i "liberatori".
Un altro pezzo di storia, breve ma incalzante, dal quale la città finisce per assorbire, assimilare umori e caratteri ambigui, di novità e modernità, però anche per ribadire timori e dipendenze di un suo
atavico destino. Certo, è come si congelasse, cristallizzasse, un percorso rischioso, ma non certo impossibile, balenato per un momento e poi negato, negatosi.
Forse anche per questo al fatidico appuntamento del '46, Napoli o gran parte di essa, arriva di nuovo stanca, delusa, come ripiegata su se stessa piuttosto che protesa verso il futuro, alla ricerca di rinnovata protezione
(vittoria monarchia e successivo laurismo). La memoria deve rimetterci in contatto con "noi" di allora, riportando in circolo le problematiche radici del nostro presente. E' giusto e sano che la comunità tutta guardi a fondo dentro se stessa e vagli criticamente, nella coscienza di ciò è stata, la coscienza di quel che è diventata e attualmente è.

LO SCONTRO TRA MONARCHIA E REPUBBLICA
Dal voto referendario emerse una grande differenza tra Sud e Centro-Nord, nel primo prevalse la monarchia nei secondi la repubblica, ciò sicuramente dipese dalla storia d'Italia del biennio di transizione 1943-45.
Occorre capire come la situazione di ogni singola zona influisca nella situazione generale di tutto il Paese: si procede dunque per comparazione analizzando le varie storie locali per arrivare poi a generali nozioni. L'esigenza era quello di uno stato democratico, non più autoritario, obiettivamente sia la monarchia che la repubblica avrebbero potuto soddisfare tale esigenza, ma mentre la monarchia rappresentava la continuità, dunque la stabilità, la repubblica rappresentava l'innovazione.
La partecipazione alla Resistenza da parte di piccoli centri agricoli rimanda alla volontà di Monarchia.
Nelle elezioni ebbe grande influenza la Chiesa che aveva il controllo sulle forme di comunicazione informale, influenza che fu diversificata nelle varie zone.

Le
elezioni referendarie non dappertutto erano libere, ad esempio non lo erano a Napoli dove i Quartieri Spagnoli erano proibiti alle associazioni assistenziali. La parola Repubblica ebbe un'importanza grandissima, non è stato così per le generazioni successive: dalla Grande Guerra si era usciti con aspettative d'innovazioni che crollarono con il Fascismo, c'era in ogni caso una grande attesa di cambiamenti che invece non troviamo nel secondo dopoguerra, dove prevalgono i timori anziché le speranze.
La tradizione monarchica era molto radicata in Italia, mentre molto debole è quella repubblicana:
la prima era più radicata in Piemonte, attaccamento alla casa sabauda, e al Sud, attaccamento alla dinastia borbonica.
Dopo il 25 luglio '43, con
Salò c'è un tentativo di legittimare la tradizione repubblicana in Italia attraverso un calendario e date storiche.

SALO': ANTICIPO REPUBBLICANO
Il governo del nuovo stato fascista nato dopo la liberazione di Mussolini si riunì, per la prima volta, nella Rocca Carminata, dimora del duce in provincia di Forlì, e qui tenne le sue prime riunioni; successivamente i nazisti, poiché Roma era troppo vicina alle operazioni militari, ne trasferirono il governo sulle rive del Garda e, dal nome del maggior centro abitato, fu chiamata Repubblica di Salò.

Il territorio della repubblica era molto vasto confinante a Nord con l'arco alpino, ad Est con la Slovenia e a Sud con la linea degli Appennini. Gli avvenimenti dell'8 settembre
(Hitler prese possesso delle ex aree asburgiche: Trento, Bolzano, Udine, Gorizia e Trieste) avevano sconvolto L'Italia sia geograficamente con una frattura storica de paese sia socialmente con l'applicazione delle misure politiche e militari volute da Hitler.

La r
isposta dei civili a questi avvenimenti fu diversificata da zona a zona, un esempio emblematico fu quello della Romagna. Qui, durante le tensioni tra socialisti e repubblicani, nasce il movimento fascista a Forlì, poi i socialisti ed i repubblicani si unirono contro il fascismo ponendosi così anche contro la Corona, per cui si ricrearono i vecchi partiti prefascisti, anche quello repubblicano. Quest'ultimo si ricompose nel maggio '44 e si componeva di vari movimenti come il Partito d'Azione, il movimento Popolo e Libertà, ecc., non sempre concordi ideologicamente con precarietà per l'unità del partito.
I romagnoli si allontanarono dai gruppi politici mazziniani a favore del comunismo, dopo la guerra tutti i gruppi politici erano per la repubblica, per quanto ogni gruppo prendeva un proprio modello di riferimento come il sovietico, l'americano, il mazziniano, ecc.
Il campo politico in Romagna veniva conteso tra
repubblicani, prevalenti in città, e comunisti, prevalenti in campagna, alla fine prevalsero i secondi anche perché il comunista, come il democristiano, era un partito di massa (appoggio dei braccianti).


MONARCHIA O REPUBBLICA?
Irto di difficoltà fu il cammino che portò alla nascita della Repubblica, in un paese, uscito devastato dalla guerra, il problema istituzionale si sovrapponeva e si intrecciava con i problemi della ricostruzione, della disoccupazione e, soprattutto per le popolazioni del Meridione e di Napoli, della sopravvivenza quotidiana. Ecco il perché dei continui disordini che sconvolsero tutto il '46 e che scandirono le varie fasi istituzionali prima della proclamazione della Repubblica.

Caduto il governo Parri nel novembre 1945, toccò al democristiano De Gasperi traghettare il paese dalla monarchia alla repubblica.
Il gabinetto De Gasperi il 27 febbraio decise di sottoporre direttamente al popolo la scelta della forma istituzionale da dare al paese con una votazione che avrebbe contemporaneamente designato i membri dell'
Assemblea Costituente. Il progetto di legge del governo, sottoposto ed illustrato alla Consulta Nazionale da un discorso di E. Orlando, definito superbo dall'allora ministro dell'Interno Romita, dopo varie discussioni sorte su cavilli sollevati da elementi monarchici, fu approvato il 16 marzo.
Si dava quindi il via alla preparazione delle elezioni referendarie e politiche.

Intanto, tra marzo e aprile, si tenevano in buona parte del paese le
elezioni amministrative, una sorte di prova generale dia politica che organizzativa.
Comizi, riunioni, manifesti, volantini, articoli di giornali aprivano la tormentata campagna elettorale sia prima che dopo il 2 giugno:
la propaganda si rivolgeva anche alle donne per la prima volta al voto politico dopo il decreto del febbraio '45, che estendeva il voto a tutto l'elettorato attivo compreso quello femminile.

A Napoli, per esempio, il 15 maggio ci furono degli scontri tra gruppi monarchici che avevano partecipato ad un comizio in piazza S. Vincenzo alla Sanità ed alcuni iscritti al Partito Comunista che si trovava nella sede di via Duomo. Ma non fu un incidente isolato, dopo l'abdicazione di Vittorio Emanuele III, vi furono un po' dappertutto pronunciati di masse antirepubblicane e antidemocratiche: alla manifestazione monarchica organizzata in seguito alla visita di Umberto II a Napoli del 21 maggio, si rispose con una manifestazione repubblicana indetta da vari partiti con la partecipazione anche della
Camera del Lavoro.
Gli incidenti più gravi, però, scoppiarono nel giugno: dopo piccole schermaglie come l'assalto alla sezione S. Lorenzo e Stella del Partito Comunista,
il sangue, preannunciato in lettere anonime inviate all'ufficio di Collegamento di Pubblica Sicurezza presso il Public Liaison Office, cominciò davvero a scorrere appena si ebbe la notizia della proclamazione della Repubblica il 10 giugno. Infatti, il giorno 12, un corteo monarchico partito da via Sanfelice assalì la Federazione Comunista di via Medina, dando inizio ad un vero e proprio scontro a fuoco che lasciò sul campo 7 morti e circa 60 feriti e che vide impegnate forze dell'ordine ed autoblinde provenienti da Firenze, Ancona e Bologna; la situazione era davvero grave tant'è che a ragione si gridò: a Napoli v'è il "terrore monarchico" e i cittadini sono presi d'assalto da "bande di lazzaroni".
La calma si raggiunse solo dopo che, sciolte le riserve della Cassazione e partito il sovrano per l'esilio, il giorno 18 si ebbe l'annuncio che sarebbe stato il
moderato Enrico De Nicola - napoletano e di fede monarchica, illustre esponente del foro napoletano, persona semplice, nel pieno della guerra esortava i suoi concittadini dicendo: Coraggio, chiu' nera ra' mezanott' nu' po' venì! Rinunciò all'appannaggio presidenziale e si presentò al giuramentoe con un soprabito molto consunto; morì nella sua Torre del Greco nel 1959 - il Capo di Stato Provvisorio (1^presidente della Repubblica Italiana).

E di calma e di pacificazione aveva certo bisogno il paese, pertanto, uno dei primi atti emanati dalla giovane Repubblica fu
l'amnistia del 22 giugno.

I REDUCI tra emarginazione e integrazione
Uno dei problemi sociali più grave era quello dei reduci di guerra, migliaia di militari (30.000 solo a Napoli), da protagonisti a peso sociale, costretti a patire la maggioranza dei mali sociali che afflissero il secondo dopoguerra: dopo lunga lontananza dalla famiglia, di dolori e privazioni, tornavano in patria spesso senza un tetto, impossibilitati a trovare lavoro e privi di una reale assistenza. Tutto ciò provocò amarezza e disillusione e li condusse spesso ad essere intolleranti delle leggi e delle disposizioni vigenti, viste come ostacolo al legittimo desiderio di ritrovare nel proprio paese la condizione vissuta prima della chiamata alle armi.
Le autorità locali compresero subito la gravità del problema e nel tracciare l'analisi dei vari aspetti del problema, cercarono anche di segnalare alle autorità centrali i provvedimenti necessari.
Il Prefetto di Napoli ed il Questore di Benevento, oltre a denunciare tentativi di sfruttamento del malcontento per interessi economici e politici, evidenziano soprattutto la stretta connessione esistente con il problema occupazionale più generale che portò ad acuti dissidi tra reduci e disoccupati comuni, questi poi si vedevano penalizzati dalle disposizioni che riservavano il 10% dei posti disponibili ai reduci, da un lato e donne occupate dall'altra: si chiedeva, a vantaggio dei reduci, il licenziamento di donne prive di oneri familiari.

LE MANIFESTAZIONI DI PROTESTA
Le manifestazioni di protesta dei reduci sin dall'inizio del '46 cominciarono a farsi quotidiane e sempre più violente; secondo l'antica consuetudine delle lotte nel Meridione d'Italia, esse si rivolsero contro le amministrazioni comunali. Inoltre l'anticomunismo dei reduci della Russia fortemente strumentalizzati dalle forze reazionarie tramite sobillatori e provocatori, sfociò in assalti e saccheggi contro le sedi di organizzazione di sinistra.
L'autorità giudiziaria fu incaricata di affiancarsi all'azione della polizia nel reprimere i reati di tipo collettivo e di rilevare un quadro complessivo del fenomeno, comunque nelle varie sentenze si nota la sensibilità per i condannati che si dimostrano intolleranti perché da poco hanno cessato di soffrire per la guerra.
A tale proposito la sentenza emessa dalla Corte d'Assise di Napoli a carico dei 17 reduci d'Ischia accusati per l'assalto al comune nel corso dei primi giorni di gennaio del '46, testimonia una profonda sensibilità per lo stato d'animo "di chi avendo da poco cessato di soffrire , e intollerante di ogni minima ulteriore sofferenza" , pertanto, è meritevole " di quell'indulgenza che è compatibile con la corretta applicazione della legge" .

La necessità di sollecitare una soluzione ai problemi della categoria provocò la costituzione di numerose associazioni di reduci di varia ispirazione.
L'Unione Nazionale Reduci d'Italia, di tendenza filomonarchica, finì con lo svolgere compiti di tipo assistenziale per i propri soci; associazione semi ufficiale fu il Comitato Nazionale Reduci della Prigionia con sede a Roma, ma con comitati nelle varie province. Oltre alle due associazioni di impostazione militare: la Divisione Arditi d'Italia, facente capo ai monarchici, composta da "autentici arditi" della guerra 1915-'18 e da patrioti della Quattro Giornate di Napoli e il Movimento Garibaldino Antifascista Partigiani d'Italia (GAPI) di ispirazione comunista, operarono anche altre organizzazioni come : l' Associazione Nazionale Partigiani d'Italia che, nella vicenda testimoniata dai documenti 69, 70 e 71 , caldeggiò , senza risultati , l'assunzione di un socio al Comune di Pietraroia.

L'errore commesso dai partiti nel primo dopoguerra, quando il ripudio del combattimento aveva provocato la completa adesione dei reduci al fascismo, venne corretto attraverso una concreta attività di recupero e integrazione delle problematiche dei reduci sia all'interno delle loro associazioni, sia facendo delle loro istanze dei punti del programma elettorale.
Comunque nel Sud, vi fu un atteggiamento che impedì alle organizzazioni partitiche di porsi come nuovi canali della partecipazione di massa, e ciò in netta contrapposizione con il Nord dove i partiti si posero come rappresentanti e guida delle popolazioni .
L'auspicio mosso dall'Ispettore incaricato dal Ministero dell'Interno, che partiti di sinistra e Camere del Lavoro svolgessero un'azione di contenimento delle masse cui va soltanto chiesto disciplina e lavoro, si inserisce nel diffuso senso di rassegnazione che ha caratterizzato i momenti più decisivi della storia del Meridione d'Italia in un atteggiamento di passività indifferente che ha finito con il compromettere irrimediabilmente il destino.

DISOCCUPAZIONE CAROVITA E SCIOPERI A NAPOLI
Nel 1946 la città viveva in una difficile situazione economico-sociale. La disoccupazione rimaneva il primo problema insieme con quello del carovita. Si trattava, però, di un processo dagli aspetti molteplici e, talora, contraddittori. Le ingenti distruzioni belliche e la requisizione anglo-americana delle industrie avevano determinato un'elevata contrazione dell'occupazione precaria, soprattutto nel porto. Inoltre erano state requisite moltissime aziende che producevano limitatamente alle esigenze alleate o, più frequentemente, erano rese del tutto improduttive.

La gravità della situazione occupazionale era stata denunciata in una preoccupata relazione del CLNN nel luglio del '45. In particolare Gino Bartoli, responsabile della Commissione economica, sostenne l'opportunità di contrastare il ridimensionamento dell'industria partenopea. Nella stessa sede furono avanzate perplessità sul Piano d'Importazione del 1946 redatto dal CLNAI perché prevedeva la massiccia importazione di mezzi rotabili che avrebbe determinato un'ulteriore contrazione della produzione di materiale ferroviario nelle industrie meridionali. Si determinava una situazione d'intenso sociale che vedeva contrapposti segmenti diversi di lavoratori disoccupati. In primo luogo vi furono acuti dissidi fra reduci ed ex dipendenti che richiedevano di essere assunti nelle fabbriche con diritto di precedenza; ma, con ancora mag-gior forza, i reduci avanzavano la proposta di essere assunti in sostituzione delle lavoratrici donne non capofamiglia, presenti sia nelle aziende private che negli enti pubblici.

Lotte operaie si svolgono ad opera delle maestranze delle piccole aziende come la Gaslini e la Saffa e della categoria dei lavoratori dell'"arte bianca", dei tessili ed, ancora, dei metallurgici. Il momento più alto fu raggiunto con lo sciopero del dicembre '46 dove la Camera del Lavoro costruì, contro il carovita, un importante momento di mobilitazione unitaria, grande fu la partecipazione e si formarono strutture temporanee organizzative come le squadre annonarie e il servizio d'ordine.

Sul problema dell'occupazione (il 15.4.46, il prefetto R. Ventura parla di pericolosità sociale) si veniva così a configurare una situazione di contrapposizione sociale che alimentava i livelli di tensione e contribuiva ad impedire che gli innumerevoli episodi di agitazioni popolari contribuissero in un unico filone e si collocassero in una prospettiva democratica. In tal modo si consolidava il processo di involuzione moderata, laddove l'inasprirsi delle contraddizioni si combinava con l'acuirsi delle tensioni politiche e con il configurarsi della città come luogo pri-vilegiato dell'iniziativa monarchica. Nel clima di restaurazione conservatrice le difficoltà dei partiti democratici e dell'organizzazione sindacale unitaria risultavano accresciute e più com-plesso appariva il rapporto con la città.
Negli ultimi mesi del '46 si acuì ulteriormente la penuria di cibo e ciò aggravò il clima di tensione.
Altro motivo di tensione è il carovita con rumorose manifestazioni in settembre: l'inflazione, infatti, registrava un'ulteriore impennata nella seconda metà del '46 sia per le difficoltà di approvvigionamento sia per la perdurante volontà dei contadini di evadere gli ammassi.

Lo sciopero del dicembre ebbe un marcato connotato politico di protesta contro il governo De Gasperi, accusato di essere poco tempestivo verso i problemi di Napoli, con riserve formulate dalla componente cattolica del sindacato unitario: la DC napoletana, attraverso il suo periodico, "Il Domani d'Italia" (i tipografi impedirono la pubblicazione per tutta la durata dello sciopero), esprime forte dissenso.
E' comunque assai significativo che un anno così complesso e contraddittorio come il 1946 si concludesse con una forte mobilitazione sindacale. La città infatti dimostrava di potere affrontare i suoi drammatici problemi maturando istanze e comportamenti collettivi di segno democratico.

IL VOTO
Alla fine delle ostilità l'Italia era totalmente sconvolta nella sua economia e nella sue strutture politiche e amministrative. Il problema della ricostruzione e della ripresa economica era di una estrema gravità: su di esso pertanto, oltre che su quello della rinascita democratica e civile si concentrano gli sforzi dei primi governi del dopoguerra. Quello che si aprì all'indomani della liberazione fu un periodo di vivissimi contrasti politici, ma anche di grande tensione ideale. I problemi più immediati erano quelli della "scelta istituzionale tra monarchia e repubblica", della necessità di una "nuova Costituzione" e dell'avvio di una politica di ricostruzione materiale , morale ed economica del Paese.
Nella primavera del 1946 fu possibile attuare in diversi turni "le elezioni amministrative" che videro l'affermazione della Democrazia Cristiana e un relativo successo dei socialisti e dei comunisti. Il 2 giugno 1946 "l'intero popolo italiano venne chiamato a pronunciarsi sulla scelta fra monarchia e repubblica" attraverso un "suffragio autenticamente universale" , essendo stato attribuito per la prima volta nella nostra storia il "diritto di voto anche alle donne".
Il "referendum istituzionale" fu favorevole alla repubblica, che ottenne 12717923 voti di contro ai 10719284 assegnati alla monarchia soprattutto nel sud.
Ne conseguì per Umberto II di Savoia, subito dopo la pubblicazione dei risultati ufficiali, la rinuncia al trono: infatti il 3 giugno il "Re di maggio" lasciava Roma e si ritirava in esilio a Cascais, nel Portogallo , dopo appena un mese di regno.
Insieme al referendum venne eletta sempre a suffragio universale, l' " Assemblea Costituente" , incaricata di procedere alla stesura di una nuova costituzione e alla nomina del Capo provvisorio dello Stato, che 10 giorni dopo la "proclamazione ufficiale della repubblica" (18 giugno) venne scelto nella persona del giurista e uomo politico napoletano Enrico De Nicola.

1946 SIGNORE IN CABINA !
Marzo 1946: dopo il ventennio fascista , mentre la democrazia italiana avvia la ricostruzione (a capo del governo c'è Alcide De Gasperi, il primo cattolico presidente del Consiglio), gli italiani ritornano a votare. Si comincia dai comuni. Nelle domeniche 10-17-24-31 marzo e 7 aprile, gli elettori scelgono i loro nuovi amministratori. La consultazione interessa il 78% dei Comuni; il restante 22% andrà alle urne in autunno. Ragioni organizzative vengono addotte per giustificare questo voto a turni. In realtà i partiti vogliono tastare il polso degli elettori a poche settimane dall'impegnativo appuntamento del 2 giugno, quando si svolgerà il referendum Repubblica- Monarchia e nascerà l'Assemblea Costituente.

Il voto amministrativo di cinquant'anni fa presentò però una novità assoluta. Per la prima volta nella storia politica del nostro Paese, alle urne vanno anche le donne .Sono elettrici e possono essere elette. Cadde con questo voto un'incomprensibile discriminazione: quella stessa contro la quale si era battuto nel 1919 il Partito Popolare di don Sturzo, unico partito a rivendicare nel suo appello ai "liberi e forti" il voto femminile. Lo stesso don Sturzo rievoca questo impegno nel messaggio che invia dagli Stati Uniti al convegno del movimento femminile DC nel febbraio 1946, alla vigilia del voto amministrativo.
Il decreto che riconosce alle donne il diritto di voto è del I febbraio 1945; quello attivo esplicitamente, quello passivo (cioè la possibilità di essere elette) sarà sancito solo un anno più tardi del decreto del 10 marzo 1946 riguardante la Costituzione.
Nel consiglio dei ministri presieduto da Ivanoe Bonomi si avvertono riserve e diffidenze, sia a destra sia a sinistra , su questo provvedimento che segue la fine di una concezione maschilista , e fino allora prevalente , dalla politica.

Nella riunione del 24 gennaio 1945, il ministro Brosio del PLI chiede un rinvio: vuole sentire il parere del suo partito; in quella del 30 gennaio Togliatti interpella il suo collega De Gasperi: "Se voi democristiani siete così decisi, noi comunisti non potremo opporci".
La risposta del leader democristiano è scontata; infatti pochi giorni prima in una intervista aveva dichiarato:
"La donna è meritevole dal punto di vista sociale; essa ha molto buon senso e quindi può utilmente partecipare alla vita amministrativa. La donna sente molto i valori ideali e quindi nella vita politica porterà una maggiore idealità di impostazione".
Angela Cingolani Guidi, cui De Gasperi aveva affidato il compito di guidare il movimento femminile (deputata alla Costituente, sarà la prima donna in Italia ad entrare nel governo nel 1951 come sottosegretario), così commenta il decreto: "Sentiamo e dobbiamo far sentire a tutte le donne scettiche e sfiduciate come questo diritto, che è poi l'esercizio di un dovere, può e deve significare un apporto nuovo di energie soprattutto morali nella vita di questo nostro Paese così duramente provato".
Dietro De Gasperi , dietro le dirigenti del movimento femminile che "si sporcano le mani con la politica", c'è la corale adesione dell'intero mondo cattolico, in particolare di quelle realtà femminili che daranno vita , il I marzo 1945, al CIF (Centro italiano femminile). La loro battaglia per il voto alle donne trova il sostegno più alto nelle parole di Pio XII il 21 ottobre 1945: "Nella vostra azione sociale e politica, molto dipende dalla legislazione dello Stato e dell'amministrazione dei Comuni. Perciò la scheda elettorale è nelle mani delle donne un mezzo importante per adempiere il suo rigoroso dovere di coscienza".
Eppure le reazioni dei giornali del tempo, degli stessi partiti di massa (ad eccezione della DC) e di quelli laici sono avari, freddi, anche diffidenti.
Intanto, man mano che si avvicina la scadenza delle amministrative, le donne di tutti i partiti si mobilitano sempre di più . Fanno i primi comizi sulle piazze (in piazza Risorgimento a Roma parla una giovane dirigente del CIF, Franca Falcucci, che sarà poi ministro della Pubblica Istruzione).
Il socialista Umberto Calosso propone di assegnare per legge alle donne un decimo dei posti nei consigli comunali. Sarebbe "una spinta alla macchina ancora fredda, che poi correrà da sola".
Il cattolico Igino Giordani lancia una proposta che sarà ripresa in tempi recentissimi: "Le donne votino da donne".
Smentendo le previsioni di chi le voleva disinteressate alla politica, la partecipazione femminile ai seggi è elevatissima. Oltre duemila le donne elette nei comuni. La DC conta ben 225 elette su 264 candidate: 3 sindaci, 4 vice, 18 assessori, 200 consiglieri . A Borutta , in provincia di Sassari diventa sindaco la signorina Ninetta Bartoli , "la prima donna cui venne affidata in Sardegna l'amministrazione comunale".
Il 2 giugno 1946 saranno 21 le donne alla Costituente: 9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste e una del movimento "Uomo qualunque". Il voto " rosa" comincia , anche se in sordina , a farsi valere.


LA SOCIETA'

IL CINEMA ITALIANO, IL NEOREALISMO ITALIANO
In ambito cinematografico, con il termine neorealismo non s'intende una scuola, un gruppo, uno stile oppure un linguaggio comune, bensì la produzione cinematografica italiana che descrive la realtà del dopoguerra . Il neorealismo fu strettamente correlato al clima culturale e politico dell'antifascismo italiano, maturato nei vent'anni di dittatura. Esso esprimeva il rifiuto del cinema propagandistico dell'Italia fascista.
Si può dire che il neorealismo nacque nel 1943 con il film "Ossessione" diretto da Luchino Visconti , tratto dal romanzo di James Cain Il postino chiama sempre due volte.
Quello di Visconti era un cinema di passioni concrete , di luoghi reali e si distanziava radicalmente dalla falsa realtà del cinema fascista. Non a caso le autorità italiane lo censurarono e il film apparve sul grande schermo soltanto nel 1946 in occasione del I Festival di Cannes. Nel 1948 Visconti girò un altro film ritenuto un caposaldo del neorealismo, "La terra trema", ispirato a "I Malavoglia" di Giovanni Verga.

Altro film molto importante per la nascita del neorealismo fu "Roma città aperta" di Roberto Rossellini del 1945. Il film, con le sue riprese girate nelle strade devastate dalla guerra, ricostruì fatti realmente accaduti durante l'occupazione tedesca conquistando subito l'approvazione del pubblico e della critica non solo in Italia. Memorabile e premiata l'interpretazione di Anna Magnani. Nel 1946 Rossellini diede al neorealismo un altro dei suoi capolavori con "Paisà", un film in 6 episodi concepito come un documentario drammatico sulla resistenza contro il nazismo e il fascismo.

La realtà quotidiana ispirò anche Vittorio De Sica che nel 1946 realizzò "Sciuscià".

Altro grande regista di questo periodo fu Michelangelo Antonioni che si accostò invece alle tematiche dell'esistenzialismo.

La storia del cinema neorealista però non durò molto a lungo, infatti dopo pochi anni il pubblico si stufò di vedersi raccontare i dolori e le miserie della guerra e dell'immediato dopoguerra, visto che il paese era ormai in piena ricostruzione, lanciato alla ricerca di un benessere simile a quello delle altre nazioni del blocco politico occidentale.

LA MODA ABBIGLIAMENTO RIVOLUZIONARIO
Gli adolescenti della fine degli anni 40 adottarono un nuovo modo di vestirsi, facendo di questa loro scelta l'ennesimo modo per rivendicare la loro diversità rispetto agli adulti. L'influenza esercitata dalle mode musicali era evidente nei capi preferiti dai giovani, indifferenti ai dettami dell'alta moda di Parigi e impegnati a costruirsi stili più consoni al loro modo di vivere.
Si imposero così stili anche differenti come quello dei Teddy Boys inglesi, che intendeva parodiare il tradizionale abbigliamento maschile mostrando chiaramente l'influenza delle mode nate lungo la costa occidentale degli Stati Uniti. Sempre dalla California venne esportata e trovò fortuna una moda che recuperava lo stile sportivo e disimpegnato degli studenti di laggiù. Anche le ragazze cercarono un loro stile personale che fosse diverso dai modelli proposti dalle madri. Il cosiddetto "stile da studentessa d'arte" divenne la moda imperante per le giovani donne. Si trattava di qualcosa di assai lontano dal glamour dell'alta società, prevedendo pantaloni a sigaretta sopra la caviglia e scarpe basse.

HAUTE COUTURE E MODA IN SERIE
Con la fine della seconda guerra mondiale, Parigi tornò a ricoprire il suo abituale ruolo di capitale della moda.
Nell'ambito della rinascita della moda francese si rivelò determinante l'opera di Christian Dior, che lanciò la cosiddetta "Nuova immagine", proponendo una donna molto femminile, vestita di abiti con vita stretta e gonna ampia, abbandonando quindi gli austeri tagli di linea maschile degli anni della guerra.
In questi anni prevalse un trucco composto da sopracciglia arcuate e scure, labbra ben disegnate e palpebre ombreggiate con una gamma di colori che andava dal marrone al verde.
Per le pettinature, invece, scomparvero gli chignon per lasciare il posto a capelli sciolti sulle spalle, pettinati con molta semplicità.
Per le occasioni speciali si privilegiarono i capi in pelle, cachemire o mohair, arricchiti da gioielli. Per gli uomini, invece, i sarti proposero abiti dallo stile edoardiano, fatto di giacche piuttosto strette, lunghe e abbottonate quasi fino al collo. Anche i pantaloni si fecero più stretti e si diffuse l'uso del cappello a bombetta dalle tese ricurve.
Tuttavia, come reazione ai dettami dei grandi stilisti, e perché stanchi delle divise militari indossate così a lungo, molti uomini preferirono scegliere un abbigliamento molto più informale e dai colori chiari.

L'alta moda francese seppe adattarsi ai nuovi ritmi della società dei consumi, cimentandosi anche nella fabbricazione di abiti in serie, senza peraltro eliminare le proprie sartorie artigianali esclusive, dove venivano preparati i capi per le donne più benestanti.
Fu proprio in questi anni che la maggioranza delle donne iniziò ad acquistare capi d'abbigliamento fabbricati in serie e disponibili in grandi quantità, grazie al grande impulso vissuto dall'industria tessile negli anni della ricostruzione.
Per la prima volta, quasi tutte le classi sociali potevano disporre di vestiti dal taglio moderno a un prezzo accessibile.
Nel frattempo i disegnatori italiani, inglesi e statunitensi stavano cercando di scalzare quelli francesi dalla loro posizione predominante. Tuttavia, a eccezione delle innovazioni firmate da case di moda italiane, che nelle loro creazioni combinarono colori vivaci come il rosa con l'arancione e il verde smeraldo con l'azzurro cobalto, i protagonisti principali della moda continuarono a essere gli stilisti francesi.
A dominare il mercato dell'abbigliamento erano infatti i modelli disegnati da Pierre Cardin e Coco Chanel.




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