Eduardo Ambrosio


Vai ai contenuti

Menu principale:


FELICITA' O LIBERTA'? ACQUA e proprietà

UNIVERSITA' > LEZIONI SVOLTE IN ANNI PRECEDENTI > SAGGISTICA E POLITICA

FELICITA' O LIBERTA'? e PROPRIETÀ: ACQUA E SAPERE


FELICITA' O LIBERTA'?

La felicità è un'aspirazione antica come l'uomo che ha impegnato innumerevoli pensatori ed artisti, ma essa può entrare in conflitto con le libertà fondamentali?

Per Nietzsche, la felicità non è fare tutto ciò che si vuole, ma volere tutto ciò che si fa.

La Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America del 4 luglio 1776 (figlia di quella terra, uno sterminato territorio da riempire, e di quel tempo, l'ottimista Settecento illuminista caratterizzato, insieme ad altri grandi temi, dalla ricerca della felicità dal punto di vista morale e politico) inizia: Esistono verità "per se stesse evidenti": che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dal Creatore dotati di alcuni inalienabili diritti. Tra questi, oltre alla vita e alla libertà, c'è la ricerca della felicità (pursuit of happiness).

Nell'Ottocento, invece, si afferma che il diritto "americano" di cercare la felicità, come meta della vita individuale e collettiva, è in realtà la condanna all'infelicità date le inquietudini e le aspirazioni mai stabilmente soddisfatte per l'individuo o le forze distruttive, operanti su larga scala, per le società.

Ne "Il Grande Inquisitore" de "I fratelli Karamazov" Dostoevskij parla di libertà degli uomini e di dominio sugli uomini, cioè una riflessione sulla felicità e sull'infelicità: l'infelicità che è generata dalla libertà e, viceversa, la felicità che può derivare dalla liberazione dalla libertà. Dal dialogo dell'Inquisitore col Cristo silente: "non c'e nulla di più ammaliante per l'uomo che la libertà del proprio giudizio, ma non c'è nulla di più tormentoso.
Onde verrà presto il momento in cui, tutti insieme, deporranno la propria libertà ai piedi di qualcuno che ne li libererà e questi saranno gli Inquisitori: ecco i veri liberatori dell'umanità, coloro che lalibereranno dall'oppressione della libertà cioè tra quella tensione tra il desiderio e la realizzazione, da quella irrequietezza e da quello spirito di rivolta che è il germe dell'infelicità umana". Un paradosso letterario, o una diagnosi antropologica e politica?

Soprattutto nella letteratura reazionaria basata sull'idea di corruzione della natura umana, la libertà è un peso che può essere supportata solo da uomini superiori e non dalla massa, a sua volta fatta - per l'Inquisitore - di schiavi con la costituzione del ribelle: come ribelli, vogliono la felicità, ma in quanto schiavi non ne sono capaci e hanno bisogno del padrone, che amministra la felicità e la concede nella consona misura.

Ma quale felicità? La felicità consiste - afferma Gustavo Zagrebelsky - nell'aver tolto dal cuore il tormento che deriva da quel dono che è la libertà, non quella economica, del consumatore ma quella di realizzare se stessi, di scegliere che cosa si vuole che sia la nostra esistenza.
Ebbene è questa la libertà che deve essere tolta all'essere umano per renderlo felice. Non è forse questo il segreto di un certo dominio su vasta scala, su esseri umani standardizzati nel piccoli loro desideri, alimentati continuamente dalla "comunicazione", questa nuova scienza del governo che sempre di nuovo propone stili di vita, modelli di massa che promuovono desideri mediocri, volgari e conformisti?
Oggi, così si vive in società, attraverso il governo dei desideri, cioè degli animi: una forma di potere che sembra aver sostituito, con effetti anche più radicali, il controllo dei corpi. Che sia meglio una cosa o l'altra, è discutibile, poiché il controllo dei corpi almeno lascia la libertà interiore di desiderare, pur se impedisce di perseguire l'oggetto del desiderio.

Questo è un modo per contrastare gli effetti distruttivi della (ricerca della) felicità, tramite il controllo omologante dei desideri, un controllo che può giungere fino a spegnerli, con ciò riducendo gli esseri umani a bestie. L'altro modo è quello di ricondurli non di disumanizzarli, ma di "istituzionalizzarli", trasformando l'instabile "materiale psichico" soggettivo che alimenta la ricerca della felicità in qualcosa di obbiettivo, funzionale alla vita sociale.

Freud, ne "Il disagio della civiltà", parla di felicità, infelicità e istituzioni relativamente alla psiche umana e dice. "
Non vogliamo ammetterla [l'infelicità delle società odierne], non riusciamo a comprendere perché le istituzioni che noi stessi abbiamo creato non debbano rappresentare una protezione e un beneficio per tutti […]. Di fatto l'uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L'uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza".

Quale rapporto tra felicità e sicurezza? - riflette Zagrebelsky - La massima (ricerca individuale della felicità) felicità, però, comporta la massima insicurezza sociale: nessuno sarebbe sicuro di nessuno; i patti sarebbero impossibili perché tutti li violerebbero quanto ostacolassero quella ricerca. Verrebbe meno la fiducia, che di ogni vita sociale è la condicio sine qua non. Simmetricamente, la massima sicurezza coinciderebbe con l'assoluto divieto (della ricerca individuale) della felicità.
Allora, per vivere in società, dobbiamo rinunciare alla ricerca della felicità, riducendoci a gregge sotto un pastore che provvede per noi o istituzionalizzandoci integralmente, "funzionalizzandoci" alla società? La risposta è no, in quanto ogni società è un equilibrio tra sicurezza è un equilibrio tra sicurezza dei rapporti e desiderio di alterarli per accrescere la propria felicità.

Come permettere oggi la ricerca della felicità senza compromettere un livello minimo di sicurezza e fiducia tra gli esseri umani?
Superando il luogo comune che la società, con i suoi vincoli, ci soffoca inesorabilmente o che il disagio della civiltà ci condanna alla passività e all'immobilità, ci accorgiamo di un rovesciamento di senso: la originaria ricerca della felicità degli oppressi si è trasformata in una rivendicazione dei potenti come diritto, per cui la praticano e la esibiscono, spesso oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato, una madre che vede il bambino morire nei primi mesi di vita, rivendicare il suo diritto alla "felicità". Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere, invece della felicità, giustizia. La loro "felicità" sta nel chiedere un poco di giustizia.

Nelle società degli spazi pieni, - ccontinua Zagrebelsky - dove lo spostamento di uno comporta lo spostamento di altri (cosa sconosciuta nell'America del Settecento, grazie ai grandi spazi liberi da occupare, la realtà pellerossa autoctona non veniva affatto presa in considerazione), la felicità è diventata la pretesa dei forti, che fa torto ai deboli; la giustizia. Non la felicità, è la richiesta dei deboli che contestano i privilegi dei forti. Così, oggi, felicità è diventata parola dal senso rovesciato rispetto a quello originario, cioè è diventata parola d'oppressione, parola di classe, e come tale dovremmo trattarla. Con questa ulteriore precisazione, che viene quasi da sé: la felicità è un'aspirazione che riguarda i singoli individui, la giustizia è un'aspirazione che riguarda la società tutta intera. Come tale, è funzione non delle pulsioni individuali ma dalle politiche collettive. Questa inquietante conclusione ha sullo sfondo lo stato-provvidenza con tendenze totalitarie in vista di una qualche concezione della giustizia che deve valere per tutti.

Cosi è che, nella ricerca dell'equilibrio tra la libertà della ricerca individuale della felicità e giustizia sociale, in Europa entra quel vincolo esterno della coscienza che è l'obbligo legale.
Anche nella Dichiarazione dei diritti francese del 1789 si parla di felicità. Ma non è la felicità individuale ma quella di tutti, e proprio tra questi (tutti) la legge ha il compito di stabilire i limiti e i confini, onde la felicità dell'unno non diventi infelicità degli altri.

Una dimensione oggettiva della felicità fa qui apparizione, come insieme dei diritti previsti, regolati e limitati dalla legge. In tutti gli "spazi pieni" è così. La rivendicazione di un anacronistico diritto all'illimitata ricerca individuale della felicità, per quanto seducente agli occhi degli ingenui o dei troppo furbi, è fautrice di ingiustizie, tensioni e disfacimento sociale.


PROPRIETÀ: ACQUA E SAPERE

La proprietà
Libera elaborazione di una riflessione di Stefano Rodotà ("la Repubblica" del 12.4.13)

cqua e sapere

quali patrimonio dell'umanità, sono beni di tutti
ciascuno deve essere messo nella condizione di difenderli, anche agendo in giudizio a tutela di un bene lontano dal luogo in cui si vive.

I beni comuni appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantarne pretese esclusive; incorporano, inoltre, la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell'interesse delle generazioni che verranno, per cui per la loro "titolarità diffusa" devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà.

Principio realizzato da Adriano Olivetti (figlio di padre ebreo e di madre valdese) che, coniugando efficienza ed etica, credeva nel lavoro come mezzo di elevazione: gli alti profitti, anziché trasformarli in lauti dividenti per gli azionisti o in compensi ai massimi dirigenti, venivano riutilizzati per dare a chi vi aveva contribuito vantaggi come mense, asili nido, biblioteche, vacanze.
La visione quasi mistica del lavoro fa affermare ad Olivetti: <<Il lavoro è perciò spirituale ed il lavoratore si sente anch'egli nel lavoro e sul lavoro vicino a Dio, come suo collaboratore e servitore>>. O anche <<il cristianesimo riscattando la schiavitù dell'uomo ed elevando la dignità della persona umana, fu principio di autentica rivoluzione>>.
L'organizzazione della fabbrica omonima fu concepita, in contrasto anche con l'allora PCI, come modello possibile di un nuovo, creativo ed umano d'intendere il complicato rapporto capitale-lavoro. Il soffocante capitalismo di oggi, non di rado irresponsabile, aumenta il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.
A tal proposito il famoso biologo evoluzionista Edward O. Wilson - convinto che siamo di fronte ad cambiamento di paradigma e ad una trasformazione del nostro modo di vedere l'evoluzione classica darwiniana - sostiene che nelle specie sociali, come esseri umani - quali chimere genetiche, dipendenti da come ci si è evoluti nel corso di milioni di anni - e formiche, sopravvivono si gli individui più egoisti, ma anche e soprattutto i gruppi con maggior numero di membri solidali tra loro. Queste due specie hanno due cose in comune: la tendenza a compiere atti di altruismo nell'ambito del proprio gruppo e il fatto di avere colonizzato il Pianeta.
A spiegare il successo delle specie <<sociali evolute>> sarebbe una selezione naturale non di parentela ma di <<multilivello>>: da un lato la darwiniana selezione del successo dei singoli individui nel sopravvivere tanto da trasmettere i propri geni alla prole; dall'altro, la selezione tra i gruppi, che premia le organizzazioni più solidali. Oggi è fondamentale sapere che la competizione dell'individuo per accaparrarsi risorse eper accoppiarsi è importante quanto verso il proprio gruppo, al cui interno spesso gli individui egoisti hanno la meglio.
Ma in una competizione tra gruppi (umani o insetti), le organizzazioni basate sulla cooperazione prevalgono sulle collettività composte da individui egoisti. Internet con la sua immensa mole di notizie accessibili a tutti è altruismo allo puro.

Karl Wittfogel descrive il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una "società idraulica", che consentiva un controllo autoritario dell'economia delle persone. Poteri pubblici e privati - essendo aperta una essenziale partita sulla distribuzione del potere - si contendono ancora oggi il governo di una risorsa scarsa e preziosa come l'acqua e, con la stessa determinazione, di una risorsa abbondante e altrettanto preziosa come la conoscenza. Di fronte ai nuovi dispotismi si leva la logica non proprietaria dei beni comuni, dunque ancora una volta "l'opposto della proprietà".

Già a Roma la gestione dell'acqua, con la costruzione delle infrastrutture necessarie - e le vestigia degli acquedotti ovunque ci tramandano quello spirito - era concepita come strumento per mantenere la coesione sociale, tanto che fino all'età imperiale era proibito ai privati di avere l'acqua nelle loro abitazioni.

Tra utilizzazione del bene e produzione di profitto; tra disponibilità di un bene e sua "recinzione" che impedisca utilizzazione da parte di altri; tra diritti di proprietà e creatività intellettuali; tra beni materiali e beni comuni virtuali; tra valore economico e riduzione a merce; tra sguardo locale e proiezione globale: molte sono le divaricazioni da considerare nella loro storicità, sfuggendo così alle trappole ideologiche di cui è disseminata la riflessione sui beni comuni.

Un punto chiave della discussione è rappresentato della conoscenza, bene comune "globale", per il quale si continua a ripetere che non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari.

Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l'argomento della accresciuta produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l'oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l' accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?

Così i beni comuni ci parlano dell'irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall'innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale <<la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude>>. E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l'effetto ben può essere quello di <<un'erosione - scrive Carlo Danolo - delle basi morali della società>>.

In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui si erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell'estrema individualizzazione degli interessi, s'incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell'uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianza.
Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell'eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell'accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censita, visto che i beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, stanno divenendo , o rimangono, più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti di ogni persona.

Proprio nella dimensione globale queste considerazioni assumono particolare rilevanza. La possibilità di affidarsi ad una logica diversa è legata anche alla consapevolezza, in una visione per forza di cose planetaria, che devono essere garantiti i beni comuni ormai irriducibili alla misura del mercato e che sempre più spesso non possono essere richiusi nei confini nazionali.



Torna ai contenuti | Torna al menu