Eduardo Ambrosio


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APPENDICE DEL CENTENARIO: Tutto sulla Tammorra

LA CITTA' DI TERZIGNO > 1913\2013 CENTENARIO AUTONOMIA COMUNALE


A P P E N D I C E del CENTENARIO



LA FRASCA
Lo spettacolo della Frasca augura ‘a bona fine
e ‘o buon principio ‘e ll’anne.
L’emblema è un ramo della pianta di Lauro tutto adornata.
Precedono l’arrivo della Frasca nella contrada, voci gioiose che,
richiamando l’attenzione di tante altre persone, gridano:
“Affacciateve, scennite, stà arrivann’ ‘a frasca”
Immediatamente il gruppo della Frasca risponde:
“la bona sera e ’o buon principio ‘e l’anne,
a tutte sti signure in compagnia,
simme venute e turnammo ogn’anne
per farve cchille aurio ca’ vuje sapite.
Spilateve lli rrecchie, apritece lu core,
la casa, la dispensa e la cantina,
ca cheste so ghiurnate de cuntiento
se magna e se beve e nun se penza ‘a niente”.

UNA CANZONE MAGICA: LA CANZONE DE LO CAPO D’ANNO
Un ignoto (un’antica copiella recita che è stata pubblicata a Napoli dalla CASA EDITRICE
F. BIDERI Via S. Pietro a Majella, 17) napoletano ebbe, nella seconda metà del sedicesimo
secolo, la grande ispirazione di scrivere questa canzone che è magica perché:
- non esiste al mondo una canzone più lunga,
- è tra le canzoni più antiche napoletane,
- nonostante sia di autore ignoto, ha la forza di essere ancora viva nel ricordo di tanti,
- unisce sacro e profano senza essere blasfema,
- ci vuole una magia per ricordarla tutta quando si canta,
- poi, quando si canta, con un trucco magico, si ricorda tutta,
- è cantata in una notte magica,
- è la Nostra canzone.
Nelle prime due strofe, che si recitano, esprime appieno l’anima popolare napoletana. Dopo
aver con garbo salutato tutti gli astanti ed aver subito promesso di ritornare ammicando ad un
augurio particolare, chiede un’immediata totale disponibilità di tutto quello che si ha perché in
quei giorni particolarissimi “se magna se beve e nun se penza a niente”.
La canzone inizia in modo scoppiettante, poi narra , in modo molto particolare, tutti gli eventi
che hanno accompagnato la nascita di Gesù Bambino: - la scelta di nascere umile, il motivo
della sua venuta in terra, la stalla, la stella, gli angeli, i pastori, i Re Magi, l’invidia e la paura di
Erode, la strage dei bambini la Madonna che riceve il consiglio di portare via Gesù Bambino.
Inizia poi una parte che descrive l’aria particolare che magicamente da allora si vive avvicinandosi
al Natale. Una strofa recita: ”né truove chi nun manna n’aurio o nu rialo, sarrà malo
Natale nun mannà niente”; è proprio l’aria di Natale, che ancora oggi si vive. L’aria della festa
più sentita dell’anno.
26 Poi continua con una parte di auspici di fortuna rivolti alle più disparate categorie di persone:
dal negoziante all’operaio, dall’avvocato al notaio, dall’ingegnere al traffichino, dal padrone
di case al navigante, dal medico al farmacista, dal politico all’impiegatuccio, dal prete al buon
padre di famiglia e perfino al giocatore di carte che non deve fare mai “toppa ‘a Zecchinetto”.
La parte finale è un’autentica richiesta al padrone di casa di non sfigurare, nel senso che deve
fare un’abbondante “’nferta”, in cambio della promessa di ritornare l’anno successivo e di trovarlo
più in salute ed allegria. La canzone termina con il classico augurio di una buona notte e
di un buon Capodanno a tutti (o altri come: “hann’aunna comm’aonna ‘o mare”.
A richiesta sono a disposizione i testi integrali con la corrispondente traduzione in italiano di questa e di altre
canzoni del Capodanno.

LA FRASCA E LA TAMMORRA
Un gruppo di persone si cimenta in uno spettacolo itinerante per augurare ‘a bona fine ‘e ‘o
buon principio ‘e ll’anne: un modo specifico di onorare il Capodanno.
L’emblema è una frasca della pianta di lauro tutta ornata con festoni natalizi.
Direttamente dalla tradizione latina dove si usava accompagnare gli auguri con un cesto – ‘o
canisto – adornato di rami di alloro e pieno di datteri, fichi, dolcetti e vino.
Nella mitologia, prima greca e poi romana, l’alloro era una pianta sacra che simboleggiava
sapienza, gloria.
Il laureato in origine era colui che riceveva solennemente la corona d’alloro perché riconosciuto
pubblicamente come un gran saggio o un gran poeta (Dante è sempre raffigurato laureato).
Oggi è uno studente che ha completato gli studi universitari.
Una corona d’alloro cingeva la fronte dei condottieri romani che trionfalmente tornavano a
Roma vincitori: da qui simbolo della vittoria, della fama, del trionfo e dell’onore.
La pianta di lauro è dedicata ad Apollo, dio greco della bellezza, dell’arte e della luce.
La mitologia fa nascere la pianta di alloro da una storia d’amore: - Apollo amava, non ricambiato,
la bellissima Dafne; un giorno la vide e la chiamò, ma lei scappò di corsa. Mentre stava per
essere raggiunta, Dafne si rivolse supplichevolmente a Giove perchè l’aiutasse; Giove intervenne
e trasformò la bellissima fanciulla nella pianta di alloro, Apollo la raggiunse proprio nell’attimo
della trasformazione e sentì ancora battere il cuore di Dafne.
Da allora, in suo rispetto, i fulmini non colpiscono la pianta d’alloro; è un albero sempre verde
diffusissimo, le sue foglie sono usate in cucina come aromatizzanti; già nell’antichità gli infusi di
alloro erano usati per combattere l’insonnia, per favorire la digestione, per la diuresi, combatte
la formazione di gas intestinali, è usato per curare l’affaticamento e i suoi decotti per lenire
contusioni, slogature, dolori artrosici e reumatici.
Il protocollo di Kyoto (Conferenza mondiale per l’ambiente) del 21.11.2007 ha definito l’alloro
simbolo della festa dell’albero e sono stati piantati un milione di alberi di alloro per combattere
le emissioni nocive nell’atmosfera..
L’alloro è presente nello stemma del Comune di Terzigno.
In origine, inizi Novecento, la manifestazione - nata probabilmente nella periferia di Napoli,
come rito propiziatorio, in seguito all’eruzione del Vesuvio del 1906 - consisteva principalmente
nella cantata di semplici filastrocche come: “Buonì, buonì buonanno stasera è capo dell’anno,
cantammo tutto l’anno in allegria; si ‘nce vuò fa ‘na ‘nferta fancella de nocelle ca puozz’ fa
nu figlio re di stelle; si ‘nce vuò fa ‘na ‘nferta fancella de castagne, ca puozz’ fa nu figlio re di
Spagna; ecc”. - aveva lo scopo di racimolare una succulenta “nferta” (simile ad una questua,
donata ro’ padrone ‘e casa o dal putecaro o dal cantiniere e custodita da portatore del sacco)
da dividere tra i componenti del gruppo. In seguito si amplierà il repertorio con nuove canzoni
e l’inserimento di macchiette, “tammuriata” (momento collettivo ritualizzato) - Caratteristica
la “Tammurriata alla Terzignese” (presentata al 1° Festival della tammorra e del tamburello
tenutosi a Giffoni Valle Piana nei giorni 1, 2 e 3 settembre 2006) - ecc.

DESCRIZIONE DELLA TAMMURRIATA
La tammuriata ha inizio dopo che la paranza (gruppo) ha formato il cerchio magico. Quello che
accadrà da quel momento è una cosa che chi non ha la fortuna di stare all’interno del cerchio o
a contatto diretto con i suonatori, cantori, ballatori, non percepirà mai: è fusione tra gente che
ama la sensualità di questi ritmi e si lascia sedurre dalle forme del ballo; è gioiosa partecipazione
ad un rito millenario; è esorcizzazione di ogni malessere fisico e mentale; è una sorta di azione
purificatrice con la quale si allontanano paure e frustrazione. Insomma, stabilito il contatto
mentale con il suono della tammorra, ‘nun se pensa cchiù ‘a niente: si diventa partecipi ad una
festa popolare.
Le origini sono antichissime e risalgono al culto di un dio greco dalle forti componenti bipolari
legate al sesso, al cielo e alla terra. Il tammuraro rivolge al cielo la tammorra , ora in senso di
sfida, ora con gesto amorevole, accentuando o riducendo la percussione. A lui rispondono di
pari passo ‘e ballature che rispettosi dei gesti che provengono del mondo rurale e animale, ne
assumono le movenze per animare il ballo e farlo diventare di corteggiamento, di sfida, di passione,
di allegrezza, armati di castagnette nel palmo della mano il cui suono fa da contraccolpo
alla tammorra.
Nel momento collettivo tutta la gestualità della danza assume un valore rituale ed un significato
simbolico contro tutto ciò che è negatività. La voce stentorea del cantore emette note molto
acute. A volte si rifà a strofe tramandate nei secoli e codificate secondo l’area di appartenenza
(vesuviana, dell’agro, giuglianese, sommese, cilentana, ecc.) ed a volte la sua inventiva lo porta
a concepire al momento le strofe del canto prendendo spunto da un evento o per inviare un
messaggio.
Da musica pagana sarà codificata come musica di accompagnamento dei momenti più importanti
della vita contadina, la gioia della vendemmia, la speranza della semina, il ringraziamento
dopo il raccolto.
Successivamente, con il cristianesimo, diventa anche sottofondo di processione ed altri riti religiosi
(Pagani: Madonna delle galline; Maiori: l’Avvocata; Scafati: Madonna dei Bagni; Somma
Vesuviana: Madonna a Castello; ecc.). I canti iniziano con strofe dedicate alla Madonna che si
sta festeggiando, ma irrinunciabilmente, continuano esprimendo l’anima contadina e popolare.
Rimane vivo nei testi tutto ciò che fa parte del mondo rurale e la terra, con la sua feracità, è
ancora oggi la regina ro’ ballo ‘ncopp’ ‘a tammorra.

DESCRIZIONE DELLA TAMMORRA
La tammorra, nata da oltre tremila anni (nei reperti archeologici di tutti i paesi mediterranei
sono stati rinvenuti dipinti di suonatori di uno strumento molto simile alla tammorra), è lo strumento
principe della tradizione campana e vanta origini antichissime, legato a culti lunari, è
ritenuto strumento essenzialmente femminile; detto anche tammurro, accompagna sia il canto
che il ballo tradizionale ed è usato da solo o con altri strumenti a percussione.
La tammorra è un grosso tamburo a cornice con la membrana di pelle essiccata (quasi sempre
di capra o di pecora, comunque mai sintetica: ne uscirebbe un suono senza anima) tesa su un
telaio circolare di legno. Il diametro varia da 30 a 60 centimetri. L’asse di legno che compone il
cerchio (cornice) può arrivare fino a 15 centimetri di altezza ed è bucato tutt’intorno da nicchie
rettangolari dove vengono collocati sonagli di latta, detti ciceri o cimbali. In loro assenza la tammorra
è definita muta, caratterizzata da un seducente suono cupo. Sovente i costruttori usano
abbellire lo strumento con l’aggiunta di nastrini colorati e decorato con piccoli motivi floreali
lungo la cornice o con scene di argomento cavalleresco affrescate sulla pelle. La tammorra non
va confusa con il tamburello, che è molto piccolo, con i cimbali di ottone e non di latta.

Come si suona. Si impugna il telaio da basso con una sola mano, tenendolo perpendicolarmente
al corpo, mentre la pelle viene percossa ritmicamente dal palmo e dalle dita dell’altra
mano. Il modo di impugnare la tammorra è importante anche da un punto di vista rituale: accade,
infatti, che quando lo strumento è impugnato con la mano sinistra e percosso con la destra
si dice che viene suonato nella maniera maschile. All’opposto, invece, si dice che viene suonato
nella maniera femminile e ciò perché lato destro è identificato nelle antiche culture con l’idea
dell’uomo, mentre il lato sinistro con l’idea della donna. L’inversione dell’impugnatura dello
strumento indica un rovesciamento dei segni del rituale. Molto complessa è la tecnica usata per
suonare la tammorra, poiché richiede qualità musicali e ritmiche non comuni accompagnate,
inoltre, da una resistenza fisica notevole poiché lo strumento deve essere spesso suonato per delle
ore senza che il musicista possa cedere nella costanza del titolo. Critica è, ad esempio, la posizione
da tenere per equilibrare il peso e lo strumento in modo da non affaticare eccessivamente
il braccio. Non esiste, in proposito, una regola generale in quanto ogni suonatore trova una sua
maniera per equilibrarsi costruendo una tecnica alla quale partecipa tutto il fisico.

Dove si usa. La tammorra accompagna sia il canto che il ballo tradizionale dell’Italia Meridionale,
in particolare in Campania, dove è usata da sola o con altri strumenti a percussione,
quali le castagnette. Qui la forma musicale, ad andamento essenzialmente binario, dallo strumento
deriva il nome tammurriata o anche canzone ‘ncopp ‘o tammurro. A tale struttura ritmica
corrisponde una particolare scansione metrica di sei versi, undici sillabe, che durante il canto
subisce però modifiche sia nel numero delle sillabe, che nell’organizzazione. In special modo
nell’area vesuviana e ancor di più a Terzigno, la tammurriata emerge durante occasioni ludiche
e soprattutto rituali - cerimoniali, quali i frequenti pellegrinaggi devozionali alla Madonna.

Un po’ di storia. La storia della tammorra, rivissuta attraverso lo studio dei reperti archeologici
e delle opere d’arte presso quei paesi che si affacciano sul Mediterraneo prende inizio
da alcune statuette fenicie di figure femminili, raffiguranti forse sacerdotesse della dea Astante
recanti un disco riconducibile ad un tamburo a cornice, conservate presso il Museo Archeologico
Nazionale di Cagliari. Alcune pitture di origine greca mostrano donne nell’atto di suonare
un tamburo simile all’attuale tammorra denominato tympanon. Questo strumento ha quasi
sempre due pelli (vista la presenza di maniglie o di legature a forma di X e di V sul profilo della
cassa) tese su un telaio circolare di legno e di bronzo tenuto verticalmente e percosso con la
mano nuda. Presso i Romani, lo ritroviamo col nome di timpanum. In un mosaico di Pompei
conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli tale tamburo è raffigurato in
mano ad uno strumentista, forse un ambulante, che lo percuote tenendo la pelle rivolta verso
il basso. Una tecnica di esecuzione, questa, utilizzata per suonare l’attuale tammorra in Italia
Meridionale e che si osserva presso tutte le popolazioni del Mediterraneo e del vicino Medio
Oriente che utilizzano tamburi di tale forma. La musica del Medioevo eredita quasi tutti gli
strumenti a percussione dell’Evo Antico e la tradizione popolare conserva il grosso tamburo
detto poi tammorra per scandire il ritmo durante i balli di Corte. La musica colta rinascimentale
non disdegna l’utilizzo di questo strumento, dal momento che esso viene raffigurato nelle mani
degli angeli musicanti o nelle tarsie dei cori delle chiese, in cui si evidenzia l’uso del tempo di
sospendere dei sonagli al telaio o anche di applicare la bordoniera (una corda posta sulla pelle
per dare allo strumento il suono rullante).

ALTRI STRUMENTI USATI NELLA MUSICA FOLKLORISTICA
Oltre ai veri strumenti come la fisarmonica e il manticetto, vi sono molti strumenti semplici
che si possono facilmente costruire direttamente:
Putipù, alias burchitibù, alias caccavella: è uno strumento a frizione che fa da basso nella miscellanea
dei suoni. Consiste in un barattolo di latta alto da 30 a 50 cm con diametro tra i 20 e
i 30 cm. (anticamente si usava di creta perciò anche caccavella). Sopra all’unica apertura è fissata
un pelle, di origine animale, alla quale nella parte centrale è legata una cannetta di bambù
molto liscia; con l’ausilio di una spugnetta, leggermente umida, frizionando ritmicamente sulla
spugnetta esce fuori un suono simile ad un basso.
Triccheballacche, lo strumento più rumoroso, facile da costruire ma difficile suonare: è costituito
da tre martelletti di legno ancorati ad una base, i due esterni sono mobili e il centrale
è fisso. Alla metà altezza dei martelletti vi è una parte trasversale lunga il doppio della base,
ancorata al martelletto centrale, con due nicchie, prima delle due estremità, che fungono da
guida per i martelletti mobili. Anche a questo strumento sono applicati i cimbali.
Scetavajasse, o teresinella è lo strumento che generalmente è affidato a chi inizia a suonare
in un gruppo perché in caso di battuta fuori tempo non provoca la perdita del tempo a tutti
gli altri suonatori. Facile da costruire, funziona a raschiamento: è formato da due bastoncini
di legno di circa 50 cm di cui uno ha scalanature profonde un centimetro ed è arricchito da
cimbali. Strofinandolo sull’altro (come se fosse un violino) produce un suono sordo che serve da
riempitivo ai suoni secchi del triccheballacche e di tutti gli altri strumenti a percussione.
Castagnette, o nacchere sono composte da due pezzi di legno grandi quanto la metà di una
mano che hanno entrambi la parte interna che combacia scavata come la forma di una castagna.
Sono legate tra loro alle estremità da un cordoncino, ma non in modo stretto, ma tanto
che, passando poi all’interno il dito medio, queste rimangono appese nel palmo della mano.
Per suonarle basta aprire e chiudere ritmicamente le mani, le nacchere toccandosi tra loro producono
un suono amplificato dalle due cavità a forma di castagna.
Generalmente sono suonate o dal cantatore o dai ballerini.
Tamburelli, di una miriade di formati: quelli senza pelle, quelli con la pelle, quelli a mezzaluna,
ecc.
Battimani, formato da assette di legno larghe 6 o 7 cm e lunghe 40 cm collegate su un lato
con un ritaglio di pelle inchiodato e con due presine alla metà delle parti esterne. Si battono
come si battono le mani.
Schiaccianoci, composto da due tronchetti di legno incavati nelle due parti interne che terminano
a forma di cono per consentire l’impugnatura; anche queste due parti sono collegate
sul lato più spesso con un ritaglio di pelle inchiodato. Finito di suonare è uno schiaccianoci
funzionante.
Tanti altri sono, però, gli strumenti che l’inventiva dei napoletani ha prodotto: come, ad esempio,
‘O Cantero: è formato da un vero e proprio cantero, o vaso da notte, del tipo alto che
i nostri nonni avevano nel comodino vicino al letto per i bisogni notturni. Ad esso applicando
un‘asta fatta di un tubo vuoto al cui interno scorre un tubicino collegato con il coperchio del
cantero si ottiene l’apertura e la chiusura del coperchio: viene fuori un suono come i piatti che
si usano nelle bande musicali. Una vera sciccheria.

...e la tradizione continua...
Il gruppo Frasca e Tammorra
Avino Angelo - Falciano Domenico - Guastaferro Francesco - Ranieri Vincenzo
Caldarelli Vincenzo - Di Somma Alfonso.
Ambrosio Francesco Antonio - Auricchio Gerardo - Peccerella Francesco
Balzano Giuseppe - De Luca Pasquale - Casillo Francesco - Coppola Arcangelo
Catapano Domenico Antonio - Cascione Daniele.
Gagliardi Tina - Ranieri Pina - Auricchio Rosa - Casillo Raffaela
Giugliano Maria (nipote ‘e Zi’ Ferel’) - Reale Lorena Lucia - Vaiano Giuseppina





A P P E N D I C E

LA FRASCA
Lo spettacolo della Frasca augura ‘
a bona fine
e ‘o buon principio ‘e ll’anne.

L’emblema è un r
amo della pianta di Lauro tutto adornata.
Precedono l’arrivo della Frasca nella contrada, voci gioiose che,
richiamando l’attenzione di tante altre persone, gridano:
Affacciateve, scennite, stà arrivann’ ‘a frasca”
Immediatamente il gruppo della Frasca risponde:
“la bona sera e ’o buon principio ‘e l’anne,
a tutte sti signure in compagnia,
simme venute e turnammo ogn’anne
per farve cchille aurio ca’ vuje sapite.
Spilateve lli rrecchie, apritece lu core,
la casa, la dispensa e la cantina,
ca cheste so ghiurnate de cuntiento
se magna e se beve e nun se penza ‘a niente”.


UNA CANZONE MAGICA: LA CANZONE DE LO CAPO D’ANNO
Un ignoto (un’antica copiella recita che è stata pubblicata a Napoli dalla CASA EDITRICE
F. BIDERI Via S. Pietro a Majella, 17) napoletano ebbe, nella seconda metà del sedicesimo
secolo, la grande ispirazione di scrivere questa canzone che è magica perché:
- non esiste al mondo una canzone più lunga,
- è tra le canzoni più antiche napoletane,
- nonostante sia di autore ignoto, ha la forza di essere ancora viva nel ricordo di tanti,
- unisce sacro e profano senza essere blasfema,
- ci vuole una magia per ricordarla tutta quando si canta,
- poi, quando si canta, con un trucco magico, si ricorda tutta,
- è cantata in una notte magica,
- è la Nostra canzone.
Nelle prime due strofe, che si recitano, esprime appieno l’anima popolare napoletana. Dopo
aver con garbo salutato tutti gli astanti ed aver subito promesso di ritornare ammicando ad un
augurio particolare, chiede un’immediata totale disponibilità di tutto quello che si ha perché in
quei giorni particolarissimi “se magna se beve e nun se penza a niente”.
La canzone inizia in modo scoppiettante, poi narra , in modo molto particolare, tutti gli eventi
che hanno accompagnato la nascita di Gesù Bambino: - la scelta di nascere umile, il motivo
della sua venuta in terra, la stalla, la stella, gli angeli, i pastori, i Re Magi, l’invidia e la paura di
Erode, la strage dei bambini la Madonna che riceve il consiglio di portare via Gesù Bambino.
Inizia poi una parte che descrive l’aria particolare che magicamente da allora si vive avvicinandosi
al Natale. Una strofa recita: ”né truove chi nun manna n’aurio o nu rialo, sarrà malo
Natale nun mannà niente”; è proprio l’aria di Natale, che ancora oggi si vive. L’aria della festa
più sentita dell’anno.
26 Poi continua con una parte di auspici di fortuna rivolti alle più disparate categorie di persone:
dal negoziante all’operaio, dall’avvocato al notaio, dall’ingegnere al traffichino, dal padrone
di case al navigante, dal medico al farmacista, dal politico all’impiegatuccio, dal prete al buon
padre di famiglia e perfino al giocatore di carte che non deve fare mai “toppa ‘a Zecchinetto”.
La parte finale è un’autentica richiesta al padrone di casa di non sfigurare, nel senso che deve
fare un’abbondante “’nferta”, in cambio della promessa di ritornare l’anno successivo e di trovarlo
più in salute ed allegria. La canzone termina con il classico augurio di una buona notte e
di un buon Capodanno a tutti (o altri come: “hann’aunna comm’aonna ‘o mare”.
A richiesta sono a disposizione i testi integrali con la corrispondente traduzione in italiano di questa e di altre
canzoni del Capodanno.

LA FRASCA E LA TAMMORRA
Un gruppo di persone si cimenta in uno spettacolo itinerante per augurare ‘a bona fine ‘e ‘o
buon principio ‘e ll’anne: un modo specifico di onorare il Capodanno.
L’emblema è una frasca della pianta di lauro tutta ornata con festoni natalizi.
Direttamente dalla tradizione latina dove si usava accompagnare gli auguri con un cesto – ‘o
canisto – adornato di rami di alloro e pieno di datteri, fichi, dolcetti e vino.
Nella mitologia, prima greca e poi romana, l’alloro era una pianta sacra che simboleggiava
sapienza, gloria.
Il laureato in origine era colui che riceveva solennemente la corona d’alloro perché riconosciuto
pubblicamente come un gran saggio o un gran poeta (Dante è sempre raffigurato laureato).
Oggi è uno studente che ha completato gli studi universitari.
Una corona d’alloro cingeva la fronte dei condottieri romani che trionfalmente tornavano a
Roma vincitori: da qui simbolo della vittoria, della fama, del trionfo e dell’onore.
La pianta di lauro è dedicata ad Apollo, dio greco della bellezza, dell’arte e della luce.
La mitologia fa nascere la pianta di alloro da una storia d’amore: - Apollo amava, non ricambiato,
la bellissima Dafne; un giorno la vide e la chiamò, ma lei scappò di corsa. Mentre stava per
essere raggiunta, Dafne si rivolse supplichevolmente a Giove perchè l’aiutasse; Giove intervenne
e trasformò la bellissima fanciulla nella pianta di alloro, Apollo la raggiunse proprio nell’attimo
della trasformazione e sentì ancora battere il cuore di Dafne.
Da allora, in suo rispetto, i fulmini non colpiscono la pianta d’alloro; è un albero sempre verde
diffusissimo, le sue foglie sono usate in cucina come aromatizzanti; già nell’antichità gli infusi di
alloro erano usati per combattere l’insonnia, per favorire la digestione, per la diuresi, combatte
la formazione di gas intestinali, è usato per curare l’affaticamento e i suoi decotti per lenire
contusioni, slogature, dolori artrosici e reumatici.
Il protocollo di Kyoto (Conferenza mondiale per l’ambiente) del 21.11.2007 ha definito l’alloro
simbolo della festa dell’albero e sono stati piantati un milione di alberi di alloro per combattere
le emissioni nocive nell’atmosfera..
L’alloro è presente nello stemma del Comune di Terzigno.
In origine, inizi Novecento, la manifestazione - nata probabilmente nella periferia di Napoli,
come rito propiziatorio, in seguito all’eruzione del Vesuvio del 1906 - consisteva principalmente
nella cantata di semplici filastrocche come: “Buonì, buonì buonanno stasera è capo dell’anno,
cantammo tutto l’anno in allegria; si ‘nce vuò fa ‘na ‘nferta fancella de nocelle ca puozz’ fa
nu figlio re di stelle; si ‘nce vuò fa ‘na ‘nferta fancella de castagne, ca puozz’ fa nu figlio re di
Spagna; ecc”. - aveva lo scopo di racimolare una succulenta “nferta” (simile ad una questua,
donata ro’ padrone ‘e casa o dal putecaro o dal cantiniere e custodita da portatore del sacco)
da dividere tra i componenti del gruppo. In seguito si amplierà il repertorio con nuove canzoni
e l’inserimento di macchiette, “tammuriata” (momento collettivo ritualizzato) - Caratteristica
la “Tammurriata alla Terzignese” (presentata al 1° Festival della tammorra e del tamburello
tenutosi a Giffoni Valle Piana nei giorni 1, 2 e 3 settembre 2006) - ecc.

DESCRIZIONE DELLA TAMMURRIATA
La tammuriata ha inizio dopo che la paranza (gruppo) ha formato il cerchio magico. Quello che
accadrà da quel momento è una cosa che chi non ha la fortuna di stare all’interno del cerchio o
a contatto diretto con i suonatori, cantori, ballatori, non percepirà mai: è fusione tra gente che
ama la sensualità di questi ritmi e si lascia sedurre dalle forme del ballo; è gioiosa partecipazione
ad un rito millenario; è esorcizzazione di ogni malessere fisico e mentale; è una sorta di azione
purificatrice con la quale si allontanano paure e frustrazione. Insomma, stabilito il contatto
mentale con il suono della tammorra, ‘nun se pensa cchiù ‘a niente: si diventa partecipi ad una
festa popolare.
Le origini sono antichissime e risalgono al culto di un dio greco dalle forti componenti bipolari
legate al sesso, al cielo e alla terra. Il tammuraro rivolge al cielo la tammorra , ora in senso di
sfida, ora con gesto amorevole, accentuando o riducendo la percussione. A lui rispondono di
pari passo ‘e ballature che rispettosi dei gesti che provengono del mondo rurale e animale, ne
assumono le movenze per animare il ballo e farlo diventare di corteggiamento, di sfida, di passione,
di allegrezza, armati di castagnette nel palmo della mano il cui suono fa da contraccolpo
alla tammorra.
Nel momento collettivo tutta la gestualità della danza assume un valore rituale ed un significato
simbolico contro tutto ciò che è negatività. La voce stentorea del cantore emette note molto
acute. A volte si rifà a strofe tramandate nei secoli e codificate secondo l’area di appartenenza
(vesuviana, dell’agro, giuglianese, sommese, cilentana, ecc.) ed a volte la sua inventiva lo porta
a concepire al momento le strofe del canto prendendo spunto da un evento o per inviare un
messaggio.
Da musica pagana sarà codificata come musica di accompagnamento dei momenti più importanti
della vita contadina, la gioia della vendemmia, la speranza della semina, il ringraziamento
dopo il raccolto.
Successivamente, con il cristianesimo, diventa anche sottofondo di processione ed altri riti religiosi
(Pagani: Madonna delle galline; Maiori: l’Avvocata; Scafati: Madonna dei Bagni; Somma
Vesuviana: Madonna a Castello; ecc.). I canti iniziano con strofe dedicate alla Madonna che si
sta festeggiando, ma irrinunciabilmente, continuano esprimendo l’anima contadina e popolare.
Rimane vivo nei testi tutto ciò che fa parte del mondo rurale e la terra, con la sua feracità, è
ancora oggi la regina ro’ ballo ‘ncopp’ ‘a tammorra.

DESCRIZIONE DELLA TAMMORRA
La tammorra, nata da oltre tremila anni (nei reperti archeologici di tutti i paesi mediterranei
sono stati rinvenuti dipinti di suonatori di uno strumento molto simile alla tammorra), è lo strumento
principe della tradizione campana e vanta origini antichissime, legato a culti lunari, è
ritenuto strumento essenzialmente femminile; detto anche tammurro, accompagna sia il canto
che il ballo tradizionale ed è usato da solo o con altri strumenti a percussione.
La tammorra è un grosso tamburo a cornice con la membrana di pelle essiccata (quasi sempre
di capra o di pecora, comunque mai sintetica: ne uscirebbe un suono senza anima) tesa su un
telaio circolare di legno. Il diametro varia da 30 a 60 centimetri. L’asse di legno che compone il
cerchio (cornice) può arrivare fino a 15 centimetri di altezza ed è bucato tutt’intorno da nicchie
rettangolari dove vengono collocati sonagli di latta, detti ciceri o cimbali. In loro assenza la tammorra
è definita muta, caratterizzata da un seducente suono cupo. Sovente i costruttori usano
abbellire lo strumento con l’aggiunta di nastrini colorati e decorato con piccoli motivi floreali
lungo la cornice o con scene di argomento cavalleresco affrescate sulla pelle. La tammorra non
va confusa con il tamburello, che è molto piccolo, con i cimbali di ottone e non di latta.

Come si suona. Si impugna il telaio da basso con una sola mano, tenendolo perpendicolarmente
al corpo, mentre la pelle viene percossa ritmicamente dal palmo e dalle dita dell’altra
mano. Il modo di impugnare la tammorra è importante anche da un punto di vista rituale: accade,
infatti, che quando lo strumento è impugnato con la mano sinistra e percosso con la destra
si dice che viene suonato nella maniera maschile. All’opposto, invece, si dice che viene suonato
nella maniera femminile e ciò perché lato destro è identificato nelle antiche culture con l’idea
dell’uomo, mentre il lato sinistro con l’idea della donna. L’inversione dell’impugnatura dello
strumento indica un rovesciamento dei segni del rituale. Molto complessa è la tecnica usata per
suonare la tammorra, poiché richiede qualità musicali e ritmiche non comuni accompagnate,
inoltre, da una resistenza fisica notevole poiché lo strumento deve essere spesso suonato per delle
ore senza che il musicista possa cedere nella costanza del titolo. Critica è, ad esempio, la posizione
da tenere per equilibrare il peso e lo strumento in modo da non affaticare eccessivamente
il braccio. Non esiste, in proposito, una regola generale in quanto ogni suonatore trova una sua
maniera per equilibrarsi costruendo una tecnica alla quale partecipa tutto il fisico.

Dove si usa. La tammorra accompagna sia il canto che il ballo tradizionale dell’Italia Meridionale,
in particolare in Campania, dove
è usata da sola o con altri strumenti a percussione,
quali le castagnette. Qui la forma musicale, ad andamento essenzialmente binario, dallo strumento
deriva il nome tammurriata o anche canzone ‘ncopp ‘o tammurro. A tale struttura ritmica
corrisponde una particolare scansione metrica di sei versi, undici sillabe, che durante il canto
subisce però modifiche sia nel numero delle sillabe, che nell’organizzazione. In special modo
nell’area vesuviana e ancor di più a Terzigno, la tammurriata emerge durante occasioni ludiche
e soprattutto rituali - cerimoniali, quali i frequenti pellegrinaggi devozionali alla Madonna.

Un po’ di storia. La storia della tammorra, rivissuta attraverso lo studio dei reperti archeologici
e delle opere d’arte presso quei paesi che si affacciano sul Mediterraneo prende inizio
da alcune statuette fenicie di figure femminili, raffiguranti forse sacerdotesse della dea Astante
recanti un disco riconducibile ad un tamburo a cornice, conservate presso il Museo Archeologico
Nazionale di Cagliari. Alcune pitture di origine greca mostrano donne nell’atto di suonare
un tamburo simile all’attuale tammorra denominato tympanon. Questo strumento ha quasi
sempre due pelli (vista la presenza di maniglie o di legature a forma di X e di V sul profilo della
cassa) tese su un telaio circolare di legno e di bronzo tenuto verticalmente e percosso con la
mano nuda. Presso i Romani, lo ritroviamo col nome di timpanum. In un mosaico di Pompei
conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli tale tamburo è raffigurato in
mano ad uno strumentista, forse un ambulante, che lo percuote tenendo la pelle rivolta verso
il basso. Una tecnica di esecuzione, questa, utilizzata per suonare l’attuale tammorra in Italia
Meridionale e che si osserva presso tutte le popolazioni del Mediterraneo e del vicino Medio
Oriente che utilizzano tamburi di tale forma. La musica del Medioevo eredita quasi tutti gli
strumenti a percussione dell’Evo Antico e la tradizione popolare conserva il grosso tamburo
detto poi tammorra per scandire il ritmo durante i balli di Corte. La musica colta rinascimentale
non disdegna l’utilizzo di questo strumento, dal momento che esso viene raffigurato nelle mani
degli angeli musicanti o nelle tarsie dei cori delle chiese, in cui si evidenzia l’uso del tempo di
sospendere dei sonagli al telaio o anche di applicare la bordoniera (una corda posta sulla pelle
per dare allo strumento il suono rullante).

ALTRI STRUMENTI USATI NELLA MUSICA FOLKLORISTICA
Oltre ai veri strumenti come la fisarmonica e il manticetto, vi sono molti strumenti semplici
che si possono facilmente costruire direttamente:
P
utipù, alias burchitibù, alias caccavella: è uno strumento a frizione che fa da basso nella miscellanea
dei suoni. Consiste in un barattolo di latta alto da 30 a 50 cm con diametro tra i 20 e
i 30 cm. (anticamente si usava di creta perciò anche caccavella). Sopra all’unica apertura è fissata
un pelle, di origine animale, alla quale nella parte centrale è legata una cannetta di bambù
molto liscia; con l’ausilio di una spugnetta, leggermente umida, frizionando ritmicamente sulla
spugnetta esce fuori un suono simile ad un basso.
Triccheballacche, lo strumento più rumoroso, facile da costruire ma difficile suonare: è costituito
da tre martelletti di legno ancorati ad una base, i due esterni sono mobili e il centrale
è fisso. Alla metà altezza dei martelletti vi è una parte trasversale lunga il doppio della base,
ancorata al martelletto centrale, con due nicchie, prima delle due estremità, che fungono da
guida per i martelletti mobili. Anche a questo strumento sono applicati i cimbali.
Scetavajasse, o teresinella è lo strumento che generalmente è affidato a chi inizia a suonare
in un gruppo perché in caso di battuta fuori tempo non provoca la perdita del tempo a tutti
gli altri suonatori. Facile da costruire, funziona a raschiamento: è formato da due bastoncini
di legno di circa 50 cm di cui uno ha scalanature profonde un centimetro ed è arricchito da
cimbali. Strofinandolo sull’altro (come se fosse un violino) produce un suono sordo che serve da
riempitivo ai suoni secchi del triccheballacche e di tutti gli altri strumenti a percussione.
Castagnette, o nacchere sono composte da due pezzi di legno grandi quanto la metà di una
mano che hanno entrambi la parte interna che combacia scavata come la forma di una castagna.
Sono legate tra loro alle estremità da un cordoncino, ma non in modo stretto, ma tanto
che, passando poi all’interno il dito medio, queste rimangono appese nel palmo della mano.
Per suonarle basta aprire e chiudere ritmicamente le mani, le nacchere toccandosi tra loro producono
un suono amplificato dalle due cavità a forma di castagna.
Generalmente sono suonate o dal cantatore o dai ballerini.
Tamburelli, di una miriade di formati: quelli senza pelle, quelli con la pelle, quelli a mezzaluna,
ecc.
Battimani, formato da assette di legno larghe 6 o 7 cm e lunghe 40 cm collegate su un lato
con un ritaglio di pelle inchiodato e con due presine alla metà delle parti esterne. Si battono
come si battono le mani.
Schiaccianoci, composto da due tronchetti di legno incavati nelle due parti interne che terminano
a forma di cono per consentire l’impugnatura; anche queste due parti sono collegate
sul lato più spesso con un ritaglio di pelle inchiodato. Finito di suonare è uno schiaccianoci
funzionante.
Tanti altri sono, però, gli strumenti che l’inventiva dei napoletani ha prodotto: come, ad esempio,
‘O Cantero: è formato da un vero e proprio cantero, o vaso da notte, del tipo alto che
i nostri nonni avevano nel comodino vicino al letto per i bisogni notturni. Ad esso applicando
un‘asta fatta di un tubo vuoto al cui interno scorre un tubicino collegato con il coperchio del
cantero si ottiene l’apertura e la chiusura del coperchio: viene fuori un suono come i piatti che
si usano nelle bande musicali. Una vera sciccheria.

...e la tradizione continua...

Il gruppo Frasca e Tammorra
Avino Angelo - Falciano Domenico - Guastaferro Francesco - Ranieri Vincenzo
Caldarelli Vincenzo - Di Somma Alfonso.
Ambrosio Francesco Antonio - Auricchio Gerardo - Peccerella Francesco
Balzano Giuseppe - De Luca Pasquale - Casillo Francesco - Coppola Arcangelo
Catapano Domenico Antonio - Cascione Daniele.
Gagliardi Tina - Ranieri Pina - Auricchio Rosa - Casillo Raffaela
Giugliano Maria (nipote ‘e Zi’ Ferel’) - Reale Lorena Lucia - Vaiano Giuseppina




COORDINAMENTO E GESTIONE DEL PROGETTO


La configurazione, i requisiti minimi e la struttura del lavoro
sono specificati dalla presenza di un coordinatore di tutte le attività
con profonda conoscenza del territorio. Tale figura (possibilmente
uno storico) deve essere coerente con le esigenze espresse dal presente
e, in particolare, deve possedere specifiche competenze ed esperienze
al fine di rispondere alle esigenze di tutte le iniziative.
Al fine di una maggiore efficacia e coordinamento sarebbe
opportuno provvedere preliminarmente alla nomina del Coordinatore del progetto.

Tutto deve accadere secondo le più elementari regole democratiche:
quando ci si siede ad un tavolo e si discute la risoluzione finale è di tutti
anche se la nostra idea era inizialmente antitetica, non si abbandona.
Se tu dai un euro a me ed io un euro a te, dopo abbiamo entrambi un euro come prima;
ma se tu dai un idea a me ed io una a te, dopo abbiamo entrambi due idee
Chi dice che ha capito e non fa niente, non ha capito niente!



Il Coordinamento, d’intesa con il Sindaco e Presidente del
Consiglio Comunale sarà composto:

-
dal presidente onorario: il Sindaco di Terzigno, Domenico Auricchio,
-
dal presidente coordinatore: l’autore del progetto Eduardo Ambrosio,
-
dal delegato ai rapporti con l’Amministrazione il Cons. Com. Antonio Pisacane,
- dai consiglieri: Angelo Massa - arch., Francesco Ranieri -
Parmalat, Francesco Antonio Ambrosio - ‘e Ciobb’,
Pasquale Auricchio - ‘o Capitan’,

-
dai collaboratori: i responsabili delle contrade: (AVINI)
Andrea Ambrosio e Michele Brodo (MIRANDA) Raffaele Giugliano
e Michelangelo Ambrosio (CHIAZZA viene sostituita da CASENOVE) Angelo Miranda,Mimmo Parisi, Franco Guastaferro - Sciaitan (MOCIUNI) Michele
Sepe e Luigi Carotenuto (VIANOVA) Mario Pagano, Antonio Guastaferro (MONACI) Pasquale
e Pasquale Annunziata (BOCCIA AL MAURO - S. Felice)
Pasquale Auricchio (MASSERIA AMATI) Mario Avino,
- e da chiunque sia portatore di una valida proposta.

Gestione di spesa per Impianti, Stampa Pubblicazioni Addobbi,
Medaglie, Ecc.:
direttamente dal Comune, che recentemente (in
seguito all’idea del Centenario) ha affisso un manifesto per gli sponsor;
quindi chi vuole sponsorizzare versa il contributo al Comune;
come chi deve riscuotere presenta la fattura al Comune.


Pillole di storia di Terzigno

A conclusione dei quaderni (ne sono previsti tre
più uno conclusivo a fine 2013) vengono inserite
pillole” di storia di
Terzigno, curate dal cittadino Eduardo Ambrosio, ermeneuta
(quale sorta di agenzia di viaggi anziché nello spazio, nel tempo e speranzoso
c
he la morte ci trovi vivi).

Mentre gli articoli su Terzigno, indicati all’inizio del programma sono reperibili presso Eduardo Ambrosio, tel. 081 8274521 - cell. 3383886944
e-mail:
eduardoambrosio@virgilio.it


Nel primo quaderno (questo) vengono proposti i capitoli:

- PRESENTAZIONE
- LA CITTA’,
Identificazione del territorio cittadino, L’attività
cittadina, Manifestazioni e feste religiose, Archeologia, Monumenti e
siti importanti, Museo Emblema.

Nel successivi quaderni, vengono proposti i capitoli:
(secondo)
- TERZIGNO DALLE ORIGINI AL SEICENTO,
Il territorio,
La denominazione “ Terzigno”, Nascita della cittadina

- LA FONDAZIONE DI ORIGINE RELIGIOSA DEL ‘700,
La necessità di sviluppare una città, La parrocchia, i parroci e i doni
della Chiesa dell’Immacolata Concezione, Le altre parrocchie e rispettivi
parroci di Terzigno, Le altre chiese di Terzigno
(terzo)
- LO SVILUPPO DI TERZIGNO NELL’OTTOCENTO, La
partecipazione alla grande storia, Distruzione e ricostruzione

- TERZIGNO NEL NOVECENTO,
La nascita del Comune
autonomo, Gli amministratori del Comune di Terzigno fino ad oggi,
I primi anni della autonomia amministrativa (il primo dopoguerra),

Gli anni Trenta, I terribili anni Quaranta.
- GLI ANNI RECENTI,
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI.



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