Eduardo Ambrosio


Vai ai contenuti

Menu principale:


I REDUCI, LAVORO, IL VOTO

STORIA > NOVECENTO > 1946, LA PACE

I REDUCI tra emarginazione e integrazione

Uno dei problemi sociali più grave era quello dei reduci di guerra, migliaia di militari (30.000 solo a Napoli), da protagonisti a peso sociale, costretti a patire la maggioranza dei mali sociali che afflissero il secondo dopoguerra: dopo lunga lontananza dalla famiglia, di dolori e privazioni, tornavano in patria spesso senza un tetto, impossibilitati a trovare lavoro e privi di una reale assistenza. Tutto ciò provocò amarezza e disillusione e li condusse spesso ad essere intolleranti delle leggi e delle disposizioni vigenti, viste come ostacolo al legittimo desiderio di ritrovare nel proprio paese la condizione vissuta prima della chiamata alle armi.
Le autorità locali compresero subito la gravità del problema e nel tracciare l'analisi dei vari aspetti del problema, cercarono anche di segnalare alle autorità centrali i provvedimenti necessari.
Il
Prefetto di Napoli ed il Questore di Benevento, oltre a denunciare tentativi di sfruttamento del malcontento per interessi economici e politici, evidenziano soprattutto la stretta connessione esistente con il problema occupazionale più generale che portò ad acuti dissidi tra reduci e disoccupati comuni, questi poi si vedevano penalizzati dalle disposizioni che riservavano il 10% dei posti disponibili ai reduci, da un lato e donne occupate dall'altra: si chiedeva, a vantaggio dei reduci, il licenziamento di donne prive di oneri familiari.



LE MANIFESTAZIONI DI PROTESTA

Le manifestazioni di protesta dei reduci sin dall'inizio del '46 cominciarono a farsi quotidiane e sempre più violente; secondo l'antica consuetudine delle lotte nel Meridione d'Italia, esse si rivolsero contro le amministrazioni comunali. Inoltre l'anticomunismo dei reduci della Russia fortemente strumentalizzati dalle forze reazionarie tramite sobillatori e provocatori, sfociò in assalti e saccheggi contro le sedi di organizzazione di sinistra.
L'autorità giudiziaria fu incaricata di affiancarsi all'azione della polizia nel reprimere i reati di tipo collettivo e di rilevare un quadro complessivo del fenomeno, comunque nelle varie sentenze si nota la sensibilità per i condannati che si dimostrano intolleranti perché da poco hanno cessato di soffrire per la guerra.

A tale proposito la sentenza emessa dalla Corte d'Assise di Napoli a carico dei 17 reduci d'Ischia accusati per l'assalto al comune nel corso dei primi giorni di gennaio del '46, testimonia una profonda sensibilità per lo stato d'animo "di chi avendo da poco cessato di soffrire , e intollerante di ogni minima ulteriore sofferenza"
, pertanto, è meritevole " di quell'indulgenza che è compatibile con la corretta applicazione della legge" .

La necessità di sollecitare una soluzione ai problemi della categoria provocò la costituzione di numerose associazioni di reduci di varia ispirazione.
L'Unione Nazionale Reduci d'Italia, di tendenza filomonarchica, finì con lo svolgere compiti di tipo assistenziale per i propri soci; associazione semi ufficiale fu il Comitato Nazionale Reduci della Prigionia con sede a Roma, ma con comitati nelle varie province. Oltre alle due associazioni di impostazione militare: la Divisione Arditi d'Italia, facente capo ai monarchici, composta da "autentici arditi" della guerra 1915-'18 e da patrioti della Quattro Giornate di Napoli e il Movimento Garibaldino Antifascista Partigiani d'Italia (GAPI) di ispirazione comunista, operarono anche altre organizzazioni come : l' Associazione Nazionale Partigiani d'Italia che, nella vicenda testimoniata dai documenti 69, 70 e 71 , caldeggiò , senza risultati , l'assunzione di un socio al Comune di Pietraroia.

L'errore commesso dai partiti nel primo dopoguerra, quando il ripudio del combattimento aveva provocato la completa adesione dei reduci al fascismo, venne corretto attraverso una concreta attività di recupero e integrazione delle problematiche dei reduci sia all'interno delle loro associazioni, sia facendo delle loro istanze dei punti del programma elettorale.
Comunque nel Sud, vi fu un atteggiamento che impedì alle organizzazioni partitiche di porsi come nuovi canali della partecipazione di massa, e ciò in netta contrapposizione con il Nord dove i partiti si posero come rappresentanti e guida delle popolazioni .
L'auspicio mosso dall'Ispettore incaricato dal Ministero dell'Interno, che partiti di sinistra e Camere del Lavoro svolgessero un'azione di contenimento delle masse cui va soltanto chiesto disciplina e lavoro, si inserisce nel diffuso senso di rassegnazione che ha caratterizzato i momenti più decisivi della storia del Meridione d'Italia in un atteggiamento di passività indifferente che ha finito con il compromettere irrimediabilmente il destino.


DISOCCUPAZIONE CAROVITA E SCIOPERI A NAPOLI

Nel 1946 la città viveva in una difficile situazione economico-sociale. La disoccupazione rimaneva il primo problema insieme con quello del carovita. Si trattava, però, di un processo dagli aspetti molteplici e, talora, contraddittori. Le ingenti distruzioni belliche e la requisizione anglo-americana delle industrie avevano determinato un'elevata contrazione dell'occupazione precaria, soprattutto nel porto. Inoltre erano state requisite moltissime aziende che producevano limitatamente alle esigenze alleate o, più frequentemente, erano rese del tutto improduttive.

La
gravità della situazione occupazionale era stata denunciata in una preoccupata relazione del CLNN nel luglio del '45. In particolare Gino Bartoli, responsabile della Commissione economica, sostenne l'opportunità di contrastare il ridimensionamento dell'industria partenopea. Nella stessa sede furono avanzate perplessità sul Piano d'Importazione del 1946 redatto dal CLNAI perché prevedeva la massiccia importazione di mezzi rotabili che avrebbe determinato un'ulteriore contrazione della produzione di materiale ferroviario nelle industrie meridionali. Si determinava una situazione d'intenso sociale che vedeva contrapposti segmenti diversi di lavoratori disoccupati. In primo luogo vi furono acuti dissidi fra reduci ed ex dipendenti che richiedevano di essere assunti nelle fabbriche con diritto di precedenza; ma, con ancora mag-gior forza, i reduci avanzavano la proposta di essere assunti in sostituzione delle lavoratrici donne non capofamiglia, presenti sia nelle aziende private che negli enti pubblici.

Lotte operaie si svolgono ad opera delle maestranze delle piccole aziende come la Gaslini e la Saffa e della categoria dei lavoratori dell'"arte bianca", dei tessili ed, ancora, dei metallurgici. Il momento più alto fu raggiunto con lo sciopero del dicembre '46 dove la Camera del Lavoro costruì, contro il carovita, un importante momento di mobilitazione unitaria, grande fu la partecipazione e si formarono strutture temporanee organizzative come le squadre annonarie e il servizio d'ordine.

Sul problema dell'occupazione (
il 15.4.46, il prefetto R. Ventura parla di pericolosità sociale) si veniva così a configurare una situazione di contrapposizione sociale che alimentava i livelli di tensione e contribuiva ad impedire che gli innumerevoli episodi di agitazioni popolari contribuissero in un unico filone e si collocassero in una prospettiva democratica. In tal modo si consolidava il processo di involuzione moderata, laddove l'inasprirsi delle contraddizioni si combinava con l'acuirsi delle tensioni politiche e con il configurarsi della città come luogo pri-vilegiato dell'iniziativa monarchica. Nel clima di restaurazione conservatrice le difficoltà dei partiti democratici e dell'organizzazione sindacale unitaria risultavano accresciute e più com-plesso appariva il rapporto con la città.
Negli ultimi mesi del '46 si acuì ulteriormente la penuria di cibo e ciò aggravò il clima di tensione.
Altro motivo di tensione è il carovita con rumorose manifestazioni in settembre: l'inflazione, infatti, registrava un'ulteriore impennata nella seconda metà del '46 sia per le difficoltà di approvvigionamento sia per la perdurante volontà dei contadini di evadere gli ammassi.

Lo
sciopero del dicembre ebbe un marcato connotato politico di protesta contro il governo De Gasperi, accusato di essere poco tempestivo verso i problemi di Napoli, con riserve formulate dalla componente cattolica del sindacato unitario: la DC napoletana, attraverso il suo periodico, "Il Domani d'Italia" (i tipografi impedirono la pubblicazione per tutta la durata dello sciopero), esprime forte dissenso.
E' comunque assai significativo che un anno così complesso e contraddittorio come il 1946 si concludesse con una forte mobilitazione sindacale. La città infatti dimostrava di potere affrontare i suoi drammatici problemi maturando istanze e comportamenti collettivi di segno democratico.


IL VOTO

Alla fine delle ostilità l'Italia era totalmente sconvolta nella sua economia e nella sue strutture politiche e amministrative. Il problema della ricostruzione e della ripresa economica era di una estrema gravità: su di esso pertanto, oltre che su quello della rinascita democratica e civile si concentrano gli sforzi dei primi governi del dopoguerra. Quello che si aprì all'indomani della liberazione fu un periodo di vivissimi contrasti politici, ma anche di grande tensione ideale. I problemi più immediati erano quelli della "scelta istituzionale tra monarchia e repubblica", della necessità di una "nuova Costituzione" e dell'avvio di una politica di ricostruzione materiale , morale ed economica del Paese.
Nella primavera del 1946 fu possibile attuare i
n diversi turni "le elezioni amministrative" che videro l'affermazione della Democrazia Cristiana e un relativo successo dei socialisti e dei comunisti. Il 2 giugno 1946 "l'intero popolo italiano venne chiamato a pronunciarsi sulla scelta fra monarchia e repubblica" attraverso un "suffragio autenticamente universale" , essendo stato attribuito per la prima volta nella nostra storia il "diritto di voto anche alle donne".
Il "r
eferendum istituzionale" fu favorevole alla repubblica, che ottenne 12717923 voti di contro ai 10719284 assegnati alla monarchia soprattutto nel sud.
Ne conseguì per Umberto II di Savoia, subito dopo la pubblicazione dei risultati ufficiali, la rinuncia al trono: infatti il 3 giugno il "
Re di maggio" lasciava Roma e si ritirava in esilio a Cascais, nel Portogallo , dopo appena un mese di regno.
Insieme al referendum venne eletta sempre a suffragio universale, l' "
Assemblea Costituente" , incaricata di procedere alla stesura di una nuova costituzione e alla nomina del Capo provvisorio dello Stato, che 10 giorni dopo la "proclamazione ufficiale della repubblica" (18 giugno) venne scelto nella persona del giurista e uomo politico napoletano Enrico De Nicola.


1946 SIGNORE IN CABINA !

Marzo 1946: dopo il ventennio fascista , mentre la democrazia italiana avvia la ricostruzione (a capo del governo c'è Alcide De Gasperi, il primo cattolico presidente del Consiglio), gli italiani ritornano a votare. Si comincia dai comuni. Nelle domeniche 10-17-24-31 marzo e 7 aprile, gli elettori scelgono i loro nuovi amministratori. La consultazione interessa il 78% dei Comuni; il restante 22% andrà alle urne in autunno. Ragioni organizzative vengono addotte per giustificare questo voto a turni. In realtà i partiti vogliono tastare il polso degli elettori a poche settimane dall'impegnativo appuntamento del 2 giugno, quando si svolgerà il referendum Repubblica- Monarchia e nascerà l'Assemblea Costituente.

Il voto amministrativo di cinquant'anni fa presentò però una novità assoluta. Per la prima volta nella storia politica del nostro Paese, alle urne vanno anche le donne .Sono elettrici e possono essere elette. Cadde con questo voto un'incomprensibile discriminazione: quella stessa contro la quale si era battuto nel 1919 il Partito Popolare di don Sturzo, unico partito a rivendicare nel suo appello ai "liberi e forti" il voto femminile. Lo stesso don Sturzo rievoca questo impegno nel messaggio che invia dagli Stati Uniti al convegno del movimento femminile DC nel febbraio 1946, alla vigilia del voto amministrativo.
Il decreto che riconosce alle donne il diritto di voto è del I febbraio 1945; quello attivo esplicitamente, quello passivo (cioè la possibilità di essere elette) sarà sancito solo un anno più tardi del decreto del 10 marzo 1946 riguardante la Costituzione.
Nel consiglio dei ministri presieduto da Ivanoe Bonomi si avvertono riserve e diffidenze, sia a destra sia a sinistra , su questo provvedimento che segue la fine di una concezione maschilista , e fino allora prevalente , dalla politica.

Nella riunione del 24 gennaio 1945, il ministro Brosio del PLI chiede un rinvio: vuole sentire il parere del suo partito; in quella del 30 gennaio Togliatti interpella il suo collega De Gasperi: "Se voi democristiani siete così decisi, noi comunisti non potremo opporci".
La risposta del leader democristiano è scontata; infatti pochi giorni prima in una intervista aveva dichiarato:
"La donna è meritevole dal punto di vista sociale; essa ha molto buon senso e quindi può utilmente partecipare alla vita amministrativa. La donna sente molto i valori ideali e quindi nella vita politica porterà una maggiore idealità di impostazione".
A
ngela Cingolani Guidi, cui De Gasperi aveva affidato il compito di guidare il movimento femminile (deputata alla Costituente, sarà la prima donna in Italia ad entrare nel governo nel 1951 come sottosegretario), così commenta il decreto: "Sentiamo e dobbiamo far sentire a tutte le donne scettiche e sfiduciate come questo diritto, che è poi l'esercizio di un dovere, può e deve significare un apporto nuovo di energie soprattutto morali nella vita di questo nostro Paese così duramente provato".
Dietro De Gasperi , dietro le dirigenti del movimento femminile che "s
i sporcano le mani con la politica", c'è la corale adesione dell'intero mondo cattolico, in particolare di quelle realtà femminili che daranno vita , il I marzo 1945, al CIF (Centro italiano femminile). La loro battaglia per il voto alle donne trova il sostegno più alto nelle parole di Pio XII il 21 ottobre 1945: "Nella vostra azione sociale e politica, molto dipende dalla legislazione dello Stato e dell'amministrazione dei Comuni. Perciò la scheda elettorale è nelle mani delle donne un mezzo importante per adempiere il suo rigoroso dovere di coscienza".
Eppure le reazioni dei giornali del tempo, degli stessi partiti di massa (ad eccezione della DC) e di quelli laici sono avari, freddi, anche diffidenti.
Intanto, man mano che si avvicina la scadenza delle amministrative, le donne di tutti i partiti si mobilitano sempre di più . Fanno i primi comizi sulle piazze (
in piazza Risorgimento a Roma parla una giovane dirigente del CIF, Franca Falcucci, che sarà poi ministro della Pubblica Istruzione).
Il socialista
Umberto Calosso propone di assegnare per legge alle donne un decimo dei posti nei consigli comunali. Sarebbe "una spinta alla macchina ancora fredda, che poi correrà da sola".
Il cattolico
Igino Giordani lancia una proposta che sarà ripresa in tempi recentissimi: "Le donne votino da donne".
Smentendo le previsioni di chi le voleva disinteressate alla politica, la partecipazione femminile ai seggi è elevatissima. Oltre duemila le donne elette nei comuni. La DC conta ben 225 elette su 264 candidate: 3 sindaci, 4 vice, 18 assessori, 200 consiglieri . A Borutta , in provincia di Sassari diventa sindaco la signorina Ninetta Bartoli , "la prima donna cui venne affidata in Sardegna l'amministrazione comunale".
Il 2 giugno 1946 saranno 21 le donne alla Costituente: 9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste e una del movimento "Uomo qualunque". Il voto " rosa" comincia , anche se in sordina , a farsi valere.



Torna ai contenuti | Torna al menu