Eduardo Ambrosio


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LA GRANDE TRASFOR. (testo completo)

STORIA > I TEMI DEL '900 > LA GRANDE TRASFORMAZIONE SOCIALE

LA GRANDE TRASFORMAZIONE:
SVILUPPI E TENDENZE DELLA SOCIETA' CONTEMPORANEA

L'analisi muove dalla constatazione dei profondi mutamenti avvenuti negli ultimi 50 anni (Germania, Giappone e Italia, pur sconfitti nella seconda guerra mondiale, hanno subìto il massimo sviluppo economico) nei rapporti tra "centro" e "periferia", del tasso di crescita di paesi un tempo sottosviluppati (Corea, Cina, Filippina, il nuovo modello Singapore, ecc.), del ruolo decisivo assunto dall'area del Pacifico a scapito di quella atlantica (molti sono propensi a prevedere nei prossimi 50 anni un completo ribaltamento con un Occidente nel ruolo di "nuova periferia", da ciò e per l'accentuazione con la militarizzazione del centrato Nord - Sud, favorito dagli USA, si fa concreto il rischio di un terzo conflitto mondiale.
Il concetto di imperialismo può essere ben definito proprio col rapporto economico produttivo tra "centro" e "periferia", il primo stabilisce le regole del gioco e regola il mercato, il secondo subisce le regole e si adegua al mercato. la Periferia è specializzata in produzioni per l'esportazione, spesso monocolturale, di materie prime o di prodotti di base (ad es.: lo zucchero cubano), per cui è alla completa mercé del mercato.
Il Centro, al contrario, si caratterizza per esportazioni differenziate, con la produzione di manufatti ove è forte il "valore aggiunto" (il lavoro dell'operaio), cioè il profitto. La tendenza verso la periferia, degli ultimi anni, spinge il centro a rispondere con maggiore tecnologia che, come vedremo, è negativa per il profitto e finisce per ritorcersi sull'operaio (disoccupazione).
Nel rapporto tra capitalismo e imperialismo è quest'ultimo che precede storicamente (come l'imperialismo dei romani o delle conquiste americane di Spagna e Portogallo). Il capitalismo si afferma a partire dal 1450 e, perlomeno fino al 1900, ha rappresentato la sistemazione mondiale delle aree economiche determinate dalle conquiste coloniali.
Dal Settecento alla metà dell'Ottocento si ha una fase di sviluppo "pacifico" del capitalismo si segue il principio di "convivenza economica", cioè si conquista solo se conviene economicamente e si liberano popoli (come l'Inghilterra con gli Stati Uniti) se non è più conveniente dominarli, inoltre le mire di occupazione sono sempre rivolte a territori non già occupati da europei.
Diversa è la teoria del capitalismo come "mercantilismo corporato" o ricerca del benessere a scapito delle potenze straniere: fenomeno di sviluppo integrato tra centro e periferia (in USA, limitati nello sviluppo dalle riserve indiane, molti rifiutavano l'indipendenza perché il Liberismo avrebbe prodotto il massimo benessere). Anche la finanza internazionale con i Rotschild aveva un ruolo pacifico.
Dal 1870 viene meno il principio della convenienza ed l'imperialismo assume un carattere "aggressivo", con caratteristiche analoghe a quelle delle strutture pre-capitalistiche:
- la rivoluzione industriale inglese è avvenuta nel tempo, molto diluita, ed ha sofferto meno il trauma del passaggio dal rurale all'industriale, molto costoso in termini sociali;
- l'industria produce molto e di qualità;
- l'industria tessile di Napoli sopravvive solo grazie al protezionismo finito nel 1861, per cui soccombe subito per la povertà dei mezzi tecnologici ed il suo mancato rinnovamento appunto tecnologico (la prima ferrovia, la prima nave in ferro, ... solo una favola);
- lo sviluppo industriale medioevale non è capitalista perché il modello era sempre lo stesso ( ad es.: a Firenze la cellula industriale era il telaio con due operai, se l'azienda si ingrandiva riproduceva una seconda identica cellula indipendente e così via, per cui il rapporto tra macchina e addetti e sempre uguale) e l'imprenditore è anche commerciante;
- la logica capitalista tende ad aumentare il capitale fisso (macchine, tecnologia) e non la mano d'opera;
- rifiuto di un unico modello di sviluppo economico e politico (l'eurocentismo, le difficoltà del take off dopo la Rivoluzione industriale in Inghilterra, il precedente giapponese, il ruolo dello Stato del Bismark in Germania e del Giolitti in Italia);
- il ruolo dei condizionamenti internazionali con lo stabilirsi di gerarchie tra gli Stati in seguito all'esito delle guerre (austro-prussiana del 1866, ispano-americana del 1898 e russo-giapponese del 1904).
L'ETA' DELL'IMPERIALISMO è caratterizzata da un ritmo rapidissimo delle occupazioni dei territori "liberi" (1870-1914) per far fronte alla "lunga depressione" (1873-1896) dovuta:
- al forte ricorso al protezionismo con relativa strozzatura del mercato;
- alla sovrabbondanza di capitali e sovrapproduzione (per abbassare i costi) industriale con la conseguente necessità di sbocchi per capitali e merci (il colonialismo era sufficiente a regolare la concorrenza tra le aziende o compagnie, ora in presenza dello Stato-azienda occorre l'imperialismo).
Si registra la nascita di Trast e cartelli, nonché delle corporations in America. Il centro tenderà di ottenere il controllo della popolazione mondiale.
LE PREMESSE TEORICHE DELL'IMPERIALISMO sono riconoscibili nella legge della caduta tendenziale del saggio di profitto in Marx, cioè, in sintesi, la tecnologia assorbe il capitale e riduce il guadagno, si rimedia con forte crescita del capitale (da rilevare il forte parassitismo che scaturisce dal capitalismo). Conviene investire in paesi sottosviluppati dove c'è poca tecnologia e molti operai, che producono profitto.
Nell'interpretare l'imperialismo si possono sintetizzare come:
- cause: il determinarsi di un capitalismo monopolistico e finanziario, le necessità crescenti di materie prime a buon mercato, il bisogno di espansione produttiva per la ristrettezza del mercato interno, la necessità di esportare il surplus di capitali;
- conseguenze: la progressiva occupazione "pacifica" di tutto il mondo (la spartizione dell'Africa, la "nuova frontiera" americana), l'inevitabilità della guerra tra le potenze del centro per il dominio del mondo (essendo già occupate tutte le colonie resta solo la guerra per appropriarsene).
Le guerre per il dominio del mondo sono sostanzialmente due, la prima (1700-1815) è la contesa tra la Francia e L'Inghilterra, la seconda (1900-45) vede contrapposti Inghilterra e USA alla Germania e, poi, al Giappone.
La PRIMA GUERRA MONDIALE con la mobilitazione totale (o di massa) e l'enorme perdita di vite umane, con il "socialismo di guerra" (per la massima mobilitazione arrivano le promesse per i contadini della terra e di migliore qualità della vita per gli operai), accelera fortemente la trasformazione e modifica i rapporti di forza fra gli Stati: ascesa USA e crollo austro-ungarico.
La CRISI DEL PRIMO DOPOGUERRA impone, per la presenza del modello URSS, il punto di non ritorno, mentre la restaurazione del 1815 ebbe la capacità di incamerare e razionalizzare la rivoluzione, la rivoluzione del '17 condiziona fortemente gli altri Stati: in Italia va in crisi la tendenza in atto di intesa impresa-operai (Turati) grazie all'alto profitto, nasce il concetto di "rivoluzione passiva" (Gramsci) o cesura storica (no linearità - no indietro) e, infine, si passa dalla carota al bastone con il fascismo che svilupperà il corporativismo e il divertimento di massa (calcio, viaggi, ecc.); in USA il fordismo, grazie all'aumento di capitali, razionalizza la produzione stabilizzandola; il mercato unico mondiale va in frantumi per la crisi del gold standard (rapporto fisso moneta-oro) in quanto occorrerebbero immense quantità d'oro, insomma il sistema non regge.
La CRISI DEL '29, causata dalla saturazione della produzione e dalla distrazione di capitali dalla produzione a favore della speculazione borsistica, farà sentire i suoi effetti con:
- l'ascesa del Nazismo per la difficoltà della Germania a onorare il pesante debito di guerra (soprattutto con la Francia);
- la depressione in America per la mancanza di capitali, bruciati dalla borsa, e la presenza di molte industrie che producono per chi non può comprare;
- un'economia orientata alla logica del baratto per la difficoltà a stabilire costi con moneta e a mettere in atto, per mantenere il prezzo, "regolatori di mercato" (come ad es.: l'Aima);
- lo Stato Corporativo in Italia, l'Autarchia cioè un'economia autosufficiente sena dipendenza dal sistema mondiale, i Piani Quinquennali in URSS (tutti tentativi dello Stato di fare da volano per la ripresa);
- l'aggressività del Giappone, dove l'industria funziona al 100% (quella americana appena al 40-50%), per garantire sbocchi alle esportazioni e compensare le importazioni di materie prime;
- l'isolazionismo americano, causato da un diffuso antiliberismo (Keynes e New Deal - apparenti analogie tra Roosevelt e Mussolini).
La SECONDA GUERRA MONDIALE modifica i rapporti tra gli Stati e determina una guerra e una mobilitazione totale: gli uomini al fronte e le donne in fabbrica. In USA si ha un vero e proprio boom economico con un industria funzionante al 100% e un'agricoltura in piena ripresa (prima il contadino americano, per la depressione, pur producendo di più non guadagnava, con la guerra le cose cambiano in quanto bisogna rifornire l'Europa alla fame).
Altri elementi peculiari della guerra sono lo sterminio a vicenda tra Germania e URSS e il determinarsi di un ruolo di superpotenze per USA e URSS, elementi che determineranno, nel primo dopoguerra, il crollo degli Imperi (scompare la Germania), la decolonizzazione con la dismissione delle colonie (o provincia economica) da parte di Francia e Inghilterra (ultimo tentativo fallito: il monopolio di Suez), la gara nucleare con un iniziale monopolio americano, l'egemonia economica degli USA con il 50% delle esportazioni mondiali (lo spauracchio comunista serve a ridurre l'isolazionismo americano per cui si sviluppa una politica di aiuti a paesi in difficoltà, come l'Italia, dove conviene fornire aiuti per evitare che diventi comunista e poi costa di più combatterla).
Il Free World e l'integrazione in un unico mercato mondiale, nonché la coesistenza di due sistemi chiusi (Nord-Sud s'interseca con Est-Ovest) sono le caratteristiche della guerra fredda, dove, per poter essere egemonici al centro, si permettono reciproci vantaggi pur mantenendo le logiche dell'Impero, da rilevare il carattere "democratico" dell'imperialismo americano.

L
A GRANDE TRASFORMAZIONE
LA CREAZIONE DEL MERCATO COMUNE EUROPEO poggia sulla questione Germania (il cuore d'Europa devastato e diviso), contempla i rapporti bilaterali tra USA e paesi europei e la debolezza politico-militare dell'Europa; produce il fenomeno del "miracolo economico" italiano, del '68, della crisi degli Anni Settanta e il debito pubblico.
In Italia il Nord non ostacola lo sviluppo del Sud, ma vuole guidarlo infatti l'industria meridionale sarà solo metallurgica, quella pesante e a basso tasso tecnologico, il suo ruolo non sarà autonomo capace di sviluppare indotto ma di supporto; del resto è l'assenza di un imprenditoria meridionale capace e autonoma, senza la quale non si costruisce l'alternativa, a determinare l'incapacità del Sud dove trainanti sono i politici.

SQUILIBRIO E SOTTOSVILUPPO
La sottosviluppata economia feudale poteva sopravvivere per secoli senza creare squilibri, quando invece s'innesta lo sviluppo imprenditoriale e industriale si presenta la necessità di controllare gli equilibri, in caso contrario si hanno squilibri con effetti devastanti (gli aiuti economici al Terzo Mondo hanno avuto effetto devastante perché hanno rotto l'equilibrio). La dipendenza economica dei paesi extraeuropei, dove la produzione è finalizzata alle esigenze del centro (le monocolture, il riso in Indonesia), è una delle principale causa dello squilibrio, pure conseguente alla integrazione di tutti i paesi in un mercato mondiale e alla assenza di società "tradizionali" già ai primi del Novecento; l'arretratezza culturale e la mancanza di riforme interne causano il sottosviluppo.
La logica capitalista determina le condizioni di squilibrio non necessariamente di sottosviluppo. Nel determinare il ritmo e il tipo di sviluppo sono decisivi i fattori interni, per cui le condizioni per il take off sono: l'industrializzazione; la divisione del lavoro e l'urbanizzazione; l'alto tasso di istruzione della popolazione (caso del Giappone, della Corea, ecc.); l'omogeneità etnica e culturale (il caso di Russia, Polonia, Jugoslavia); la presenza di uno Stato nazionale.
Esiti diversi hanno avuto paesi periferici determinati dalla fonte del sostegno interno ai movimenti rivoluzionari (i casi cinese, indiano e messicano). Il ruolo degli investimenti esterni, dovuta alla tendenza del capitale internazionale a trovare nuovi sbocchi, fornisce elementi di verifica per differenziare squilibrio e sottosviluppo, come causa di sottosviluppo gli investimenti esterni (soprattutto nel Terzo Mondo) per lavoro a basso costo, ancora investimenti esterni come stimolo ad uno sviluppo condizionato e dipendente, ma non al sottosviluppo.
Ruolo importante ha anche la tendenza all'emancipazione della periferia, iniziata con l'imitazione dei modelli occidentali della moda, dei modelli militari e dell'organizzazione economica (il caso giapponese), poi sviluppatasi, data l'egemonia culturale dell'Occidente sulle élites culturali della periferia, con la rivendicazione degli intellettuali indigeni ad un trattamento di pari dignità con i rappresentanti della metropoli: Gandhi, Nehru, Mao; nonché con la contestazione della modernizzazione delle èlites tradizionali: l'analisi della Terza Internazionale del ruolo "oggettivamente" antimperialiste delle borghesie "nazionali".
Nello sviluppo della periferia è stato senz'altro determinante il ruolo dell'autorità centrale come si riscontra nel caso:
- russo, dove il percorso parte dalla debolezza dello zarismo, in quanto la forza era l'autorità dello Stato centralizzato ed il suo indebolimento provoca sconvolgimenti interni, passa attraverso la rottura dei tradizionali equilibri interni con lo sviluppo del capitalismo (il contadino diventa operaio e ci sarà più lavoro per chi resta), la rivolta dopo la sconfitta col Giappone e la rivoluzione dopo la sconfitta con la Germania, trova il suo compimento, grazie al ruolo del PCUS (i dirigenti sono di provenienza operaia e contadina ottima immagine, l'età media degli ufficiali dell'Armata Rossa è 35-40 anni) e di Stalin (totalitarismo staliniano come strumento di "modernizzazione"), con la creazione della potenza industriale URSS;
- giapponese, caratterizzato da basso reddito, omogeneità culturale e Stato forte derivanti dalla restaurazione Meji (1868) come "modernizzazione" istituzionale e produttiva a difesa dei tradizionali valori culturali;
- dei paesi emergenti (caratteristiche generali), dove il ruolo dei dirigenti pubblici è superiore a quello degli industriali a loro volta integrati nella struttura di potere dominante, ed è accettata anzi desiderata perché conveniente un'autorità antidemocratica (i casi indiano e cinese, il modello Singapore, la crisi del Messico dopo la scoperta del petrolio).
Negli ultimi anni assistiamo ad una polarizzazione dell'ex-periferia tra paesi emergenti e Quarto Mondo a causa di alcuni fenomeni specifici come:
- la crescita economica più lenta di quella demografica;
- gli effetti perversi degli aiuti "umanitari", come già visto, responsabili della rottura dell'equilibrio precedente;
- la selvaggia e incontrollata urbanizzazione e il conseguente abbandono delle terre: New Messico, Il Cairo ecc., immense bidonville; - l'inquinamento e l'abuso delle risorse del Terzo Mondo come, ad esempio, lo sfruttamento della foresta pluviale nel Nord-est.
La crisi dell'"Impero" sovietico trova le sue ragioni nell'anomalo rapporto centro-periferia (è la periferia che fornisce il prodotto tecnologico - le auto sono prodotte in Polonia, Cecoslovacchia), nella scarsa omogeneità etnica e culturale (i russi non hanno eliminato i propri "pellerossa"), nella crisi permanente dell'agricoltura (che ha dovuto fornire i capitali per l'industria), nel ruolo del partito unico e nei limiti del sistema di cooptazione (il lavoro non deve visto in funzione del diretto guadagno ma per il futuro dei figli); e produce una radicalizzazione del confronto Nord-Sud, essendosi annullato quello Est-Ovest e rivelatasi limitata la forza della "pax americana", con Desert Storm (II guerra del Golfo) e Bosnia.
Il petrolio e l'OPEC che ne tiene artificialmente basso il prezzo per non spingere l'Occidente alla ricerca alternativa, lo sviluppo industriale e tecnologico nel Sud-Est asiatico, la questione dell'esaurimento delle risorse sono i fattori che determinano un nuovo peso politico dei Paesi emergenti e spingono verso la teoria di uno sviluppo compatibile. I nuovi equilibri nel mondo si definiscono attraverso: - l'area del marco tedesco; - l'area dello jen giapponese; - la condizione per gli USA di massimo paese importatore; - il decollo dell'area del Pacifico e suoi effetti anche nei rapporti interni negli USA (New York sull'Atlantico cede il primato per lo scalo commerciale marittimo alla California sul Pacifico); - le multinazionali; - la crisi delle banche centrali e il flusso dei capitali internazionali; - lo SME; - la Reaganeconomics; - la crisi dello Stato Sociale (Welfare State); - L'influenza del nuovo modello di Singapore.

APPENDICE: LA LEGGE DELLA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO
C =capitale c =capit. fisso (mezzi di prod.) V =valore v =capit. variab.(lavoro) pv =plusvalore(profitto)
C = v + c V = C + pv saggio del plusvalore = pv/v saggio del profitto (p') = pv/C
A parità di saggio del plusvalore, con l'aumentare di c diminuisce il saggio di profitto. Se pv=100:
1) c = 50 e v = 100 p' = 100/150 = 66,66 % 2) c= 200 e v = 100 p' = 100/300 = 33,33 %
conseguenza graduale diminuzione del saggio generale di profitto
Conseguenze di un aumento di c:
1) diminuzione del costo unitario del prodotto perché contiene una somma minore di lavoro (diminuisce il valore di scambio della merce
2) possibilità di rendere plusvalore una parte maggiore della giornata lavorativa
3) minor saggio di profitto
(più ammodernamento meno plusvalore e meno profitto: pochi operai poco profitto. Conviene investire dove c'è poca tecnologia e molti operai per aumentare il guadagno)
C = 100 (80 c + 20 v) con saggio di pv = 100% V = 80 c + 20 v + 20 pv = 120 p' = 20 %
C = 100 (20 c + 80 v) con saggio di pv = 50 % V = 20 c + 80 v + 40 pv = 140 p' = 40 %
Tendenza nelle società capitalistiche avanzate alla caduta del saggio di profitto (non del profitto stesso che corrisponde in termini sociali allo stesso plusvalore).
Aumentando e è necessario aumentare in termini assoluti C e V per compensare la caduta relativa del saggio di profitto
A parità di saggio di pv:
C = 600 (400c + 200 v) V = 800 (400 c + 200 v + 200 pv) p' = 33,33 %
C = 1000 (700 c + 300 v) V = 1300 (700 c + 300 v + 300 pv) p' = 30 %
Nel primo caso, profitto = 200; nel secondo profitto = 300.
Conseguenze dell'aumento di c e della diminuzione di v: crescita della sovrappopolazione relativa operaia; diminuzione del valore di scambio del singolo prodotto; percentuale minore di nuovo lavoro aggiunto
Fattori correttivi della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto: la produttività (forte aumento del saggio di pv) e la forte crescita in assoluto di C.


Storia della GRANDE TRASFORMAZIONE

Inizia il Novecento, e per alcuni non è che un appendice del secolo precedente. Troppo i conti lasciati in sospeso per poter veramente voltare pagina: a Parigi, certi ricordi bruciano ancora " la disfatta militare a Sedan; i soldati tedeschi lungo i Boulevards della capitale " e l'ansia della rivincita soffoca ogni altra prospettiva futura, mentre Vienna deve concludere l'operazione avviata nelle terre Balcaniche di Bosnia Erzegovina per poter riaffermare la perduta grandezza.
Inizia il Novecento, ed è come se una bassa pianura offrisse sfogo ad un fiume in piena sin lì costretto in un corso troppo angusto: è l'ondata del nuovo imperialismo Europeo che travalica ogni limite e fa crollare di schianto le secolari difese dell'Africa e dell'impero Celeste in Cina; ma anche della presenza Americana, che terminata la conquista del West prosegue di slancio e passa il Pacifico, o a sud proietta la sua ombra di gigante sui piccoli paesi del centro America- "parla piano, e vai in giro con un grosso bastone" e il ritornello preferito dal presidente Roosevelt. . . .
Inizia il Novecento, e tutto si rovescia: gli avversari di ieri diventano alleati ( Francia, Gran Bretagna, Russia); gli alleati si scrutano l'un l'altro con sospetto ( Italia, Austria, Germania); la grande Cina si inginocchia al piccolo Giappone, svegliatosi da un letargo secolare per bruciare le tappe e mettersi in linea con le maggiori potenze mondiali. . . .
Inizia il Novecento, e niente più è come prima: parole in libertà in letteratura; sferragliare di tram e non più di zoccoli per le strade; nuovi concetti di tempo e di spazio dietro le formule matematiche di Einstein; un mondo nuovo, totalmente sconosciuto seppur così vicino " l'inconscio" a porre dubbi su cosi sia realmente l'uomo; il gesto creativo dell'artigiano sostituito dall'ossessiva ripetitività della catena di montaggio. . . .
Inizia il Novecento, e il Titanic salpa per la sua crociera transoceanica, monumento galleggiante alla modernità, simbolo di certezze, attese, speranze che tutto vedono o credono di vedere, tranne un piccolo punto bianco, lì in fondo. . . .

LA PRIMA GUERRA MONDIALE PREMESSE ECONOMICHE-POLITICHE
Tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, in conseguenza della "grande depressione" (1873-1896), il capitalismo monopolistico si era affermato nella gran parte dei paesi industrializzati, determinando una vasta riorganizzazione dei settori produttivi, nonché della stessa società.
Nello stesso periodo i paesi capitalistici operarono per difendere le proprie industrie innalzando barriere doganali e conquistare nuovi mercati per le proprie merci, attuando un rilancio di politiche colonialiste e imperialiste che furono alla base dello scoppio della prima guerra mondiale.
Fin dal 1898, i contrapposti interessi di Francia, Gran Bretagna e Germania (e in misura minore di Austria, Russia e Giappone) alimentarono uno stato di costante tensione internazionale, che spinse i governi a mantenere permanentemente in stato di allerta eserciti sempre più armati e ad accrescere la potenza delle proprie marine militari. I tentativi di fermare questa corsa al riarmo (che furono oggetto delle conferenze dell'Aia del 1899 e del 1903) ebbero scarso effetto, e non riuscirono a impedire lo strutturarsi dell'Europa attorno a due coalizioni ostili: la Triplice Alleanza tra Germania, Austria - Ungheria e Italia, e la Triplice Intesa tra Gran Bretagna, Francia e Russia.
Negli anni che precedono la prima guerra mondiale la Germania mette in crisi, sul piano economico, con un grande sforzo produttivo e con una serie di investimenti di capitali all'estero, il predominio finanziario anglo-francese. Di fatto mira a conquistare i mercati europei, nei quali le esportazioni tedesche superano quelle inglesi, a eccezione di Spagna e Grecia e a incrementare i domini coloniali. L'Inghilterra risponde con l'attuazione di una politica doganale protezionistica e si accendono tensioni per la gara tra i grandi paesi europei relativa all'appalto per la costruzione della ferrovia di Baghdad.
Le diplomazie europee incalzate dai grandi imprenditori nazionali non riescono ad approdare a una accettabile suddivisione del mercato fra Germania, Francia e Inghilterra. Le principali cause politiche della guerra, riferibili al periodo che va dal 1908 al 1914, furono:- la forzata annessione all'Austria della Bosnia - Erzegovina, in questo caso la guerra fu evitata solo perché la Serbia, che coltivava mire espansionistiche sulla regione, non poteva agire senza il sostegno della Russia, all'epoca non ancora disposta al conflitto; il fallimento delle trattative per la composizione della rivalità navale anglo-tedesca;- la seconda crisi marocchina furono il risultato del tentativo tedesco di sostenere l'indipendenza del Marocco nei confronti dell'occupazione francese, questione poi risolta pacificamente dalla conferenza di Algeciras.; l'occupazione italiana della Libia - le due guerre balcaniche del 1912 e del 1913.
Avvenimenti che sconvolsero l'equilibrio europeo scaturito dal congresso di Berlino del 1878. Causa immediata della guerra fu l'assassinio il 28 giugno 1914 a Sarajevo dell'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austroungarico, per mano del nazionalista serbo Gavrilo Princip. Assassinio che agì da detonatore in un'Europa già profondamente lacerata da rivalità nazionalistiche ed economiche, con effetti catastrofici.
Le operazioni militari si svolsero su tre diversi fronti: occidentale, o franco-belga; orientale, o russo; meridionale, o serbo. Nel novembre del 1914 la Turchia entrò in guerra a fianco degli Imperi Centrali, estendendo così il quadro delle operazioni che giunse a comprendere la regione dello stretto dei Dardanelli e la Mesopotamia.
Nel 1915 si aprirono due ulteriori fronti: quello austro-italiano, dopo l'entrata in guerra dell'Italia alleata dell'Intesa in virtù del Patto di Londra firmato il 26 aprile, e quello sulla frontiera greca a nord di Salonicco, a seguito dell'intervento della Bulgaria a fianco degli Imperi Centrali nell'ottobre successivo.
Nel corso del 1916 il presidente degli Stati Uniti (a quel tempo ancora neutrali) Woodrow Wilson cercò di spingere al negoziato le potenze belligeranti sulla base di una "pace senza vittoria". A fine anno il governo tedesco rese nota la disponibilità in tal senso degli Imperi Centrali, alla quale tuttavia la Gran Bretagna non diede credito.
Gli avvenimenti del 1917, favorevoli agli imperi centrali, avevano rinsaldato nello schieramento dell'Intesa la determinazione ad una più energica e coordinata condotta politico-militare della guerra. I termini della pace russo-tedesca del marzo di quell'anno e dei preliminari di pace imposti alla Romania toglievano infatti ogni possibile dubbio sulla natura e la durezza del trattamento che sarebbe toccato alla parte soccombente nella lotta. Ora più che mai, l'idea di una liquidazione definitiva del nemico appariva l'unico possibile sbocco alla guerra: la sua durata, l'asprezza, i sacrifici imposti rendevano inadeguata qualunque soluzione diversa dalla vittoria totale.
I Quattordici punti enunciati nel gennaio del 1918 dal presidente americano Wilson resero invece nota l'interpretazione che della pace dava la maggiore potenza belligerante: una pace permanente e stabile perché non basata sulla sopraffazione, ma sui due pilastri del rispetto delle nazionalità e del diritto di autodeterminazione dei popoli; una pace "democratica" che, evidenziando come le due parti in lotta condividessero la medesima logica di potenza economico - politico - territoriale, risultava alternativa non solo al bellicismo austro-tedesco, ma anche a quello (giustificato diversamente sul piano ideale, ma ugualmente radicato in precisi e vasti interessi imperialistici) di inglesi, francesi, italiani.
Non a caso, quando nell'autunno del 1918 apparve chiaro che sul piano militare la partita stava per avviarsi a conclusione, e che gli imperi centrali l'avevano perduta, fu lo stesso stato maggiore tedesco ad avanzare la richiesta di aprire trattative di pace sulla base dei punti wilsoniani. Certi che l'idealismo del presidente americano avrebbe salvato la Germania dalla determinazione a distruggerla degli avversari europei, i vertici tedeschi non si resero conto che l'enorme forza militare statunitense non era ancora in grado di tradursi in una corrispondente forza politica, e che dunque era tutt'altro che scontato l'allineamento degli alleati sulle posizioni dell'"associato" d'oltre Atlantico. E in realtà la pace avrebbe assunto le sembianze di un diktat di estrema durezza - e dunque, per l'inevitabile connesso carico di risentimenti e volontà di rivincita, le sembianze di una pace fallita.

IL PERIODO POST-BELLICO
La guerra era durata 4 anni, 3 mesi e 14 giorni di combattimenti. Le vittime nelle forze di terra furono più di 37 milioni ; in aggiunta, la guerra produsse indirettamente quasi 10 milioni di morti tra la popolazione civile. Un'intera generazione di europei fu falcidiata dalla carneficina: francesi, inglesi, tedeschi e russi persero tra il 15 e il 20% dei loro uomini in età compresa tra i 18 e i 30 anni, appartenenti indifferentemente alle classi inferiori e a quelle elevate. Infatti, nel carnaio delle trincee e nei massacri delle battaglie morirono tanto i soldati semplici, reclutati perlopiù tra i contadini, quanto gli ufficiali che li guidavano.
Nonostante la speranza che gli accordi raggiunti alla fine della guerra potessero ristabilire una pace duratura, la prima guerra mondiale pose al contrario le premesse di un conflitto ancor più devastante. Gli Imperi Centrali dichiararono la loro accettazione dei "Quattordici punti" del presidente Wilson come base per l'armistizio, aspettandosi che i loro princìpi ispiratori avrebbero costituito il fondamento dei trattati di pace.
Al contrario, gli Alleati europei si presentarono alla conferenza di Versailles e a quelle successive determinati a esigere dagli Imperi Centrali riparazioni equivalenti all'intero costo della guerra, nonché a spartirsi tra loro i territori e i possedimenti delle nazioni sconfitte, secondo gli impegni presi in accordi segreti stabiliti tra il 1915 e il 1917, prima dunque dell'entrata in guerra degli Stati Uniti.
Il presidente Wilson in un primo tempo insistette affinché la conferenza di pace accettasse il programma delineato nei "Quattordici punti" nella sua totalità, ma nel tentativo di garantirsi l'appoggio dei recalcitranti alleati per l'applicazione dell'ultimo - riguardante l'istituzione di una Società delle Nazioni - finì con l'abbandonare questa posizione.
I trattati di pace prodotti dalla conferenza di Versailles risultarono così squilibrati da divenire fattori di instabilità nel futuro dell'Europa.

I TRATTATI DI PACE
Durante la conferenza di Versailles, che vide riunite le 27 nazioni vincitrici della guerra tra il gennaio del 1919 e l'agosto del 1920, furono concluse le paci separate con le potenze sconfitte: il trattato di Versailles (28 giugno 1919) con la Germania, il trattato di Saint-Germain-en-Laye ( 10 settembre 1919) con l'Austria, il trattato di Neuilly-sur-Seine (27 novembre 1919) con la Bulgaria, il trattato del Trianon (4 giugno 1920) con l'Ungheria e il trattato di Sèvres (10 agosto 1920) con la Turchia.
Con il Trattato di Versailles la Germania riconosce la propria responsabilità nello scoppio del conflitto e cede alla Francia l'Alsazia e la Lorena oltre alla possibilità di sfruttare per quindici anni il bacino minerario della Saar. Accetta di fare concessioni territoriali a Belgio, Danimarca, Polonia e Cecoslovacchia e rinuncia al suo impero coloniale che viene spartito tra i vincitori (Italia esclusa). Deve inoltre accettare la riduzione dell'esercito e un razionamento della propria produzione bellica. Infine è costretta a un risarcimento di 132.000 miliardi di marchi-oro.
Nel Trattato di Saint-Germain-en-Laye si perviene al riconoscimento di Cecoslovacchia e Jugoslavia; alla cessione del Trentino, del Tirolo meridionale fino al Brennero, di Trieste, Gorizia e dell'Istria all'Italia.
La conferenza si svolse tra il gennaio del 1919 e il gennaio del 1920 e fu subito segnata dal contrasto del presidente americano Wilson, che opera per una integrale applicazione dei Quattordici punti, con il presidente del consiglio francese Georges Clemenceau e il primo ministro britannico David Lloyd George, legati alla tradizionale concezione politica dei compensi territoriali e dei risarcimenti.
Il principio di autodeterminazione dei popoli non trovò adeguata applicazione e la politica innovativa di Wilson vi incontrò storiche, insormontabili difficoltà.
Alla conferenza, alla quale non parteciparono le nazioni sconfitte. Furono ufficialmente riconosciuti questi nuovi stati: i regni di Jugoslavia (comprendente Slovenia, Serbia, Croazia, Bosnia-Erzegovina e Montenegro) e Albania e le repubbliche di Polonia, Cecoslovacchia, Lituania, Lettonia, Estonia e Finlandia.
L'Impero austro-ungarico fu ridotto a due piccoli stati, Austria e Ungheria, privi di sbocco sul mare. L'Austria, per volontà dei vincitori, non avrebbe potuto unirsi alla Germania.
Il ruolo dell'Italia vi si rivelò marginale. Il ministro degli esteri italiano, Sidney Sonnino, abbandonò dapprima la conferenza in segno di protesta per la mancata integrale applicazione del Patto di Londra, per ritornarvi quando gli accordi principali fra le potenze si sono ormai conclusi.
Ma le questioni rimaste insolute nel corso della conferenza di pace giocheranno un ruolo non secondario per lo svolgimento della storia successiva.
La soluzione diplomatica che prevalse al termine della guerra disegnò un quadro politico dell'Europa completamente differente da quello del 1914. La scomparsa di tre imperi (russo, tedesco, austroungarico) fu colmata dalla creazione di nuove unità statali, entro le quali l'identità nazionale era tutt'altro che omogenea. Si trattò di un autentico terremoto geopolitico che investì particolarmente l'area centro-orientale dell'Europa, laddove oltre 250 milioni di persone (russi, tedeschi ed ex sudditi austroungarici) videro modificarsi sotto i loro occhi antichi confini e cadere autorità secolari. Dovettero perciò cominciare a fondare su nuove basi le loro relazioni sociali e politiche. In Russia la dissoluzione dell'impero zarista, sopraggiunta già prima della fine del conflitto, era stata accelerata dal processo rivoluzionario sfociato nell'instaurazione del regime bolscevico.
In Germania e nell'Austria-Ungheria il disfacimento della compagine imperiale coincise con la sconfitta militare, così che la soluzione al vuoto di potere determinatosi nel 1918 fu in parte lasciata alle decisioni delle potenze vincitrici. Se per l'ex impero asburgico si trattava di sanzionare quel frazionamento tra nazioni che era già in atto prima del conflitto, nel caso della Germania bisognava fare i conti da una parte con lo spirito punitivo della Francia e dall'altra con la coesione nazionale dei tedeschi. Gran Bretagna e Francia, imponendo pesanti sanzioni economiche e amputazioni territoriali, ferirono il sentimento nazionale dei tedeschi: l'umiliazione risultava ancor più grave per il fatto che l'esercito tedesco, a differenza di quello austriaco, non aveva subito una vera e propria disfatta.
Comunque risultò chiaro sia ai vinti sia ai vincitori che la guerra aveva preparato il declino dell'Europa (la sua provincializzazione rispetto agli U.S.A.). L'instabilità dei suoi confini centro-orientali lasciava presagire un futuro di tensioni interstatali: a est la Russia bolscevica apriva una potente minaccia ideologica all'ordine europeo e al di là dell'Atlantico irrompevano due nuove grandi potenze, quali gli Stati Uniti e il Giappone, candidate a rimpiazzare le potenze europee nella conduzione del capitalismo mondiale.

CONSEGUENZE ECONOMICHE E SOCIALI
Ancor più grave fu il dissesto finanziario i cui effetti negativi si aggiunsero ai problemi derivanti non solo dalla riconversione delle industrie dalla produzione militare a quella civile, ma più in generale dal riassetto di un intero sistema economico. La guerra per oltre quattro anni aveva finalizzato la produzione, gli scambi, la gestione monetaria, la macchina burocratica degli stati, realizzando la mobilitazione totale delle risorse umane e materiali. Ne erano state sconvolte le regole precedenti.
Per quanto concerne l'aspetto finanziario, la guerra aveva generato un enorme disavanzo nei bilanci statali, sollecitati alla spesa dalle esigenze militari. Nelle transazioni monetarie l'instabilità dei cambi aveva prodotto inflazione e svalutazione a livelli incontrollati. In queste condizioni rimettere sotto controllo le finanze statali si presentava come un problema arduo, dai complessi risvolti sociali e politici, prima che tecnici. Anche la situazione industriale apparve di difficile gestione nel momento in cui vennero a mancare le commesse statali, che in tempo di guerra avevano trainato interi settori, quali il meccanico, il tessile, il chimico. Insorsero gravi problemi legati alla riconversione dell'industria bellica. Inoltre bisognava trovare un lavoro per i milioni di reduci dal fronte.La guerra aveva innescato profondi e ampi sommovimenti in tutte le società coinvolte e aveva depositato nella coscienza di milioni di uomini il ricordo brutale della violenza. Dal rifiuto morale che molti soldati e ufficiali elaborarono in risposta ai massacri, scaturì un odio profondo verso la guerra che si tramutò in un impulso di riscatto. Sentimenti simili furono all'origine della rivoluzione russa del 1917, ma anche delle lotte operaie e contadine che si manifestarono in Germania, in Francia, in Italia tra il 1917 e il 1922. Al contrario, nei soldati che non avevano avvertito un'opposizione morale alla guerra, l'esperienza sotto le armi aveva lasciato impressioni di forza bruta, abitudini all'uso della violenza, attitudine alla prevaricazione fisica, tutte componenti queste che prepararono il clima psicologico delle forze reazionarie attive in Europa già dal 1919. La crisi del dopoguerra infine, se travolse operai e contadini, agrari e industriali, turbò ancora di più i ceti medi, esposti ai contraccolpi dell'inflazione e alla perdita di reddito e di prestigio, predisponendoli a favorire soluzioni autoritarie con le quali liquidare i conflitti ideologici e gli squilibri sociali.

LA REPUBBLICA DI WEIMAR
La repubblica tedesca, proclamata il giorno stesso dell'abdicazione di Guglielmo II ( 9 novembre 1918), doveva paradossalmente la propria esistenza alle forze più reazionarie del paese : furono infatti l'esercito e i nazionalisti estremisti a sventare entro la fine del gennaio 1919 l'azione rivoluzionaria dei bolscevichi spartachisti, avviata mentre l'imperatore abbandonava la capitale. Successivamente (11 agosto 1919), un'assemblea nazionale a maggioranza socialdemocratica, assistita dai maggiori giuristi dell'epoca, aveva promulgato una costituzione che istituiva il regime parlamentare repubblicano, democratico e federale di Weimar (dal nome della nuova capitale, una città piccola e controllabile preferita alla turbolenta Berlino).purtroppo la nuova costituzione era tanto perfetta sulla carta quanto inattuabile di fatto. Apparve infatti subito evidente che il complesso sistema di poteri e contro poteri concepito a garanzia del pluralismo e della libertà era troppo avanzato (fino a diventare contro producente) per un quadro politico in cui permanevano forti spinte antidemocratiche. Nel marzo 1920 solo la mobilitazione operaia fece fallire il tentativo di putsch operato dal leader nazionalista Kapp-Lùttwitz, che significativamente il governo non ebbe neppure la forza di perseguire penalmente. Un mese dopo fu ancora una volta l'esercito che represse le nuove insurrezioni comuniste nella Rhur. Seguì poi una stagione di attentati contro esponenti della sinistra, socialdemocratici e cattolici.
In questo clima, governi di coalizione sempre più deboli (8 in cinque anni ) si trovarono a dover affrontare la drammatica sfida della ricostruzione nazionale, con una inflazione che infieriva particolarmente su contadini e salariati generando nuovi motivi di scontento e di instabilità. A completare il disastro, vi erano le continue e perentorie richieste di pagamento delle riparazioni di guerra da parte delle potenze vincitrici - un onere realmente insostenibili per le condizioni della giovane repubblica. Alle richieste di dilazione delle autorità di Weimar, la Francia e il Belgio risposero nel gennaio del 23 occupando la Ruhr e i suoi ricchissimi giacimenti carboniferi. In un clima di generale eccitazione nazionalista, il gioverno di Wilhelm Cuno rispose disponendo il rifiuto da parte della popolazione di qualsiasi contatto e collaborazione con l'invasore.
L'ulteriore peggioramento della situazione economica interna e le pressioni internazionali portarono Cuno a dimettersi nell'Agosto del 1923. Gli succedette Gustav Stresemann, che, coniugando convinzioni nazionaliste con una lucida analisi della situazione, capì come la Germania non avrebbe avuto futuro in un clima di permanente instabilità. Dando quindi una decisa sterzata alla politica estera del paese, il 26 Settembre egli ordinò la cessazione della resistenza passiva e avviò la linea del dialogo con la Francia. Presto il ritrovato sostegno della comunità internazionale contribuirà a placare anche il quadro politico interno.

IL NAZISMO
Le condizioni di instabilità della Repubblica di Weimar, che risentiva economicamente dei pesantissimi debiti di guerra e che doveva confrontarsi con militarismo, nazionalismo e organizzazioni comuniste filosovietiche, favorirono l'affermazione del movimento nazista di Adolf Hitler. Il Partito nazionalsocialista tedesco, fondato nel 1920 da Adolf Hitler, mirò ad ottenere il consenso della piccola borghesia, la classe maggiormente colpita dalla crisi economica; con l'uso spregiudicato di una propaganda fortemente demagogica e attraverso azioni di tipo squadristico contro gli oppositori, si assicurò presto il controllo della piazza.I consistenti appoggi finanziari, da parte di alcuni settori del mondo industriale, consentirono la remunerazione dei disoccupati che affluivano nelle formazioni paramilitari e di finanziare le successive campagne elettorali.In pochi anni si assistette ad una progressione elettorale travolgente (dagli 810.000 voti del 1928 ai 13.200.000 del 1932) mentre la mancata collaborazione fra il governo socialdemocratico e il partito comunista contribuì ad uno spostamento sempre più a destra dell'asse politico. Nel 1933 il presidente Hindenburg, che era subentrato a Ebert nel 1925, chiamò Hitler a presiedere un governo di coalizione, nominandolo cancelliere. Alla morte di Hindenburg (1934) Hitler si proclamò presidente del Reich con poteri illimitati.I partiti vennero soppressi, l'amministrazione epurata e ai sindacati subentrò il Fronte del Lavoro sotto controllo nazista. Furono istituite la Gestapo, polizia segreta di Stato, e le Ss (Schutz-Staffeln) e la milizia del regime. La cultura fu assoggettata al partito. L'idea della superiorità della razza ariana e l'antisemitismo avrebbero prodotto, di lì a poco, terribili conseguenze. Iniziava il periodo della discriminazione razziale nei confronti delle minoranze etniche non ariane. Obiettivo della politica economica era il rilancio della produzione industriale, che si cercò di raggiungere attraverso l'autarchia. Perseguendo con determinazione la politica della conquista dello <<spazio vitale>> (Lebensraum), nel marzo 1938, dopo un progressivo smantellamento dei trattati di pace e l'uscita dalla Società delle Nazioni, la Germania procedette all'annessione dell'Austria al Terzo Reich (Anschluss) e successivamente all'occupazione della Cecoslovacchia.

IL FASCISMO
Alla fine della guerra, la crisi economica e la delusione per gli effetti della pace di Versailles provocarono in Italia un diffuso malcontento sia nella piccola e media borghesia, sia nella classe operaia e contadina. In un quadro politico dominato dal nascente Partito Popolare di ispirazione cattolica, fondato da Don Luigi Sturzo, e da un Partito Socialista in continua ascesa, divennero sempre più importanti le associazioni combattentistiche, di ispirazione nazionalistica, fra le quali prevalse quella fondata nel 1919 da Benito Mussolini: "I fasci italiani di combattimento". I governi che si succedettero in questo periodo dovettero affrontare, sul versante della politica estera, la questione adriatica, culminata con l'occupazione di Fiume (settembre 1919) da parte dei volontari guidati dal poeta Gabriele d'Annunzio e, sul versante della politica interna, diffuse agitazioni popolari e una radicalizzazione delle contrapposizioni fra i socialisti massimalisti e la borghesia industriale e agraria, preoccupata del <<pericolo bolscevico>> e incline ad appoggiare ideologicamente ed economicamente il fascismo. Nel gennaio 1921 nasce, distaccandosi dal Partito Socialista, considerato troppo temporeggiatore, il Partito Comunista d'Italia; nel novembre dello stesso anno, i Fasci si trasformano nel Partito Nazionale Fascista. Lo sviluppo del fascismo avvenne nel segno di una manifesta violenza attuata delle cosiddette "squadre d'azione" contro gli oppositori politici. Dopo la dimostrazione di forza della marcia su Roma da parte dalle camicie nere (ottobre 1922), Mussolini ottenne dal re Vittorio Emanuele III l'incarico di formare il nuovo governo e fu così in grado di attuare una serie di riforme fortemente reazionarie, volte alla più esplicita discriminazione politica e all'instaurazione di un regime personale. Anche le elezioni dell'aprile 1923 furono caratterizzate dalle sopraffazioni fasciste, che furono denunciate in Parlamento dal deputato socialista Giacomo Matteotti, per questo motivo assassinato nel maggio del 1924. Il discorso del 3 gennaio 1925, col quale Mussolini si assunse la responsabilità <<storica e morale>> di questo omicidio, e i provvedimenti che ne seguirono, segnarono la nascita esplicita della dittatura fascista: fu soffocata l'attività dei partiti; soppressa la libertà di stampa; monopolizzata l'organizzazione sindacale; strettamente controllata l'educazione. Dirigenti e militanti dei maggiori partiti democratici finirono in carcere (Antonio Gramsci, uno dei fondatori del Partito Comunista, intellettuale di grande carisma, vi morì nel 1937 dopo undici anni di angherie) o alla macchia (Giovanni Amendola, capo dell'opposizione liberal democratica al fascismo, fu ucciso a Parigi 1926 da sicari fascisti) , da dove sin da subito molti operarono per costruire le strutture di una resistenza organizzata al regime. Nel febbraio 1929 Mussolini stipulò con la Santa Sede i Patti Lateranensi, nei quali il governo italiano riconosceva al Vaticano la giurisdizione su un territorio, Città del Vaticano, e la Santa Sede riconosceva lo Stato italiano con Roma capitale. Nel gennaio 1939, con i voti favorevoli di Camera e Senato, venne abolita la Camera dei deputati e sostituita con la Camera dei fasci e delle corporazioni, che non aveva un carattere elettivo. Il regime realizzò, non senza intenti demagogici, opere pubbliche e di bonifica, come il prosciugamento dell'Agro Pontino, incentivò la crescita demografica e attuò una tuttavia irrilevante politica autarchica, mirante a favorire la produzione interna di beni strumentali e di consumo. Il commercio con l'estero, anche quello culturale, venne sottoposto a rigidi controlli, mentre si sosteneva l'industria pesante nazionale, condizionandone però la produzione in rapporto alle necessità militari. La politica estera era caratterizzata da una volontà espansionistica che si tradusse nell'avventura coloniale e la creazione dell'Impero dell'Africa Orientale Italiana (Somalia, Eritrea, Etiopia).

LA CRISI DEL 1929
Dopo un breve periodo di ripresa economica seguito alla guerra, le democrazie industriali dell'Europa e del Nord America vennero investite dalla Grande Depressione degli anni Trenta, il più grave sconvolgimento economico vissuto dal capitalismo moderno. Raccogliendo la sfida della depressione, i maggiori sistemi capitalisti dimostrarono tuttavia spiccate capacità di sopravvivenza e adattamento al cambiamento; i governi cominciarono allora a intervenire nell'economia per correggere i principali limiti intrinseci del sistema capitalistico.
Negli Stati Uniti, ad esempio, l'amministrazione del New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt ristrutturò il sistema finanziario al fine di prevenire il ripetersi di eccessi speculativi che avevano condotto al crollo di Wall Street nel 1929. Furono presi provvedimenti per incoraggiare la contrattazione collettiva e costruire un forte movimento sindacale in grado di controbilanciare il potere dei grandi gruppi industriali. L'introduzione della previdenza sociale e dell'assicurazione contro la disoccupazione gettò le basi per la costruzione dello stato sociale.
L'opera di John Maynard Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1936), influenzò profondamente il modo di operare nei paesi capitalisti, dando origine alla scuola di pensiero conosciuta con il nome di economia keynesiana.
Keynes mostrò che uno stato moderno poteva utilizzare il disavanzo pubblico, l'imposizione fiscale e l'offerta di moneta in modo da attenuare, se non proprio eliminare, il vero problema del capitalismo, gli alti e bassi del ciclo economico. Secondo Keynes, in fase di depressione il governo avrebbe dovuto accrescere la propria spesa, anche a costo di creare deficit di bilancio, per compensare il calo della spesa privata; avrebbe dovuto invece seguire una linea opposta qualora l'espansione fosse diventata incontrollabile, dando luogo a eccessi speculativi e inflazionistici.

LA SECONDA GUERRA MONDIALE
L'esito della prima guerra mondiale aveva scontentato, per motivi diversi, tre potenze: la Germania, principale nazione sconfitta, per le perdite territoriali e per le altre pesanti condizioni imposte dal trattato di Versailles; l'Italia e il Giappone, che ritenevano insufficiente quanto ottenuto a seguito della vittoria conseguita.
Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna avevano raggiunto i loro principali obiettivi: Washington la riduzione del potere militare della Germania; Parigi e Londra un ordine mondiale funzionale ai propri interessi coloniali ed europei. Ma proprio il mantenimento del nuovo quadro risultò subito problematico, dopo che gli Stati Uniti, per volere del presidente Wilson, avevano rifiutato di entrare nella Società delle Nazioni per ritirarsi in un nuovo isolazionismo.
La guerra iniziò nel 1939 con l'invasione della Polonia da parte della Germania nazista. In risposta all'aggressione Francia e Inghilterra dichiararono guerra ai tedeschi e il conflitto si estese fino a interessare molti paesi e aree geografiche del pianeta. Più che in qualsiasi altra guerra precedente, il coinvolgimento delle nazioni partecipanti fu totale e l'evento bellico interessò in modo drammaticamente massiccio anche le popolazioni civili. La sua conclusione nel 1945 segnò l'avvento di un nuovo ordine mondiale incentrato sulle due superpotenze vincitrici, gli Stati Uniti d'America (USA) e l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS).


EFFETTI DELLA GUERRA
Secondo le statistiche, la seconda guerra mondiale fu la guerra più devastante quanto a perdite umane e distruzione materiale. Il conflitto, che coinvolse 61 nazioni, provocò la morte di circa 55 milioni di persone, tra militari e civili: l'Unione Sovietica ebbe circa 20 milioni di morti; la Cina 13,5 milioni; la Germania 7,3 milioni; la Polonia 5,5 milioni; il Giappone 2 milioni; la Iugoslavia 1,6 milioni; la Romania 665.000; la Francia 610.000; l'impero britannico 510.000; l'Italia 410.000; l'Ungheria 400.000; la Cecoslovacchia 340.000; gli Stati Uniti 300.000. Gli sviluppi tecnologici e scientifici fecero della guerra un conflitto di una ferocia senza pari: la popolazione civile fu coinvolta direttamente nei combattimenti e nelle rappresaglie e fu colpita soprattutto a causa dei bombardamenti aerei. L'evento più terribile fu tuttavia la deportazione e lo sterminio di oltre sei milioni di ebrei nei campi di concentramento nazisti, la cosiddetta "soluzione finale" del "problema" ebraico (L'OLOCAUSTO).

DISTRUZIONE E RICOSTRUZIONE
In Europa le distruzioni operate dalla guerra apparivano in tutta la loro drammatica dimensione. L'Europa orientale e Balcanica, nella quale l'invasione tedesca aveva lasciato i segni di inaudite crudeltà, era devastata nelle sue strutture demografiche e materiali. In tutti i paesi in guerra il sistema industriale e le infrastrutture avevano subito danni incalcolabili, più macroscopici nelle grandi città e nei principali porti, sui quali si erano concentrati i bombardamenti aerei.
La produzione complessiva del carbone risultava dimezzata rispetto ai livelli prebellici. Finiti i combattimenti, in Germania e nell'Europa orientale si registrarono tremende carestie, ma anche nelle realtà meno colpite dalla guerra si faceva sentire la penuria alimentare.
Milioni di uomini si trovarono allo sbando, senza casa, lontani dal loro paese, sospinti da una parte all'altra del continente dagli ultimi eventi della guerra e dalla generale confusione del dopoguerra. Erano prigionieri liberati, ebrei sfuggiti o liberati dai campi di sterminio, dirigenti nazisti in fuga dai paesi dell'Est nel timore delle vendette dei vincitori, e in più un numero altissimo di profughi che scappavano dai paesi occupati dall'Armata Rossa: era il caso delle decine di migliaia di tedeschi che dal 1939 si erano trasferiti all'Est sulla scia dell'espansione della Germania e che ora cercavano di rientrare nelle regioni occidentali per sfuggire ai sovietici.

ASSETTO POLITICO DOPO IL SECONDO CONFLITTO MONDIALE
Alla fine della guerra la situazione mondiale era mutata radicalmente: l'Europa usciva dal conflitto in posizione di dipendenza rispetto alle due potenze vincitrici, Stati Uniti e Unione Sovietica, attorno alle quali si configurò un nuovo equilibrio politico mondiale.
L'alleanza tra USA e URSS, che era stata determinante ai fini della vittoria contro Hitler, si trasformò, negli anni successivi al conflitto, in un'aspra rivalità che si manifestò nella cosiddetta Guerra Fredda. La rivalità scaturì da una forte competizione sul piano ideologico, economico, politico, tecnologico, scientifico per il controllo totale del mondo. Due opposti sistemi si confrontarono tra fasi alterne, ora di distensione ora di tensione, anche acuta.
Le premesse della Guerra Fredda erano insite nella conduzione e nella conclusione della seconda guerra mondiale. Infatti, sin dal 1943, l'Unione Sovietica, forte dell'apporto militare determinante ai fini della sconfitta del nazismo, non aveva nascosto il progetto di estendere il suo controllo all'Europa centro orientale.
La liberazione da parte dell'Armata Rossa di quell'area europea fu la condizione per attuare un progetto di egemonia comunista. Da questo punto di vista appare chiaro che lo sforzo militare contro la Germania nazista non rispondeva soltanto alla difesa dell'integrità nazionale dello stato sovietico, ma nutriva lo scopo di condurre una guerra al tempo stesso ideologica e di conquista, attraverso la quale il sistema comunista avrebbe potuto estendersi su vaste aree europee e asiatiche.
Dopo il 1945, l'URSS vide confermata la grande espansione conseguita a partire dal 1940, con il possesso sia dei territori annessi in virtù del patto di non aggressione firmato con la Germania (le tre Repubbliche baltiche, Lettonia, Estonia, Lituania) sia delle regioni conquistate nella guerra contro Hitler, e cioè la Bessarabia e la Bucovina settentrionale ottenute dalla Romania nel 1944, ampie regioni polacche situate nella Bielorussia e nella Galizia, nonché una zona della Prussia orientale tolta alla Germania. Il confine tra Polonia e Germania, tracciato lungo la linea Oder-Neisse, ricompensava la Polonia con le regioni tedesche della Pomerania e della Slesia.
Poteva dirsi realizzato il disegno di Stalin di togliere l'Unione Sovietica dall'isolamento internazionale in cui era stata posta dopo la Rivoluzione bolscevica del 1917, di ricostruire un grande stato russo che non solo recuperasse i territori perduti nella prima guerra mondiale ma ampliasse i vecchi confini, e di presentarsi nelle relazioni internazionali come una grande potenza in grado di stare alla pari con gli Stati Uniti. Infine l'Unione Sovietica poteva usufruire del sostegno dell'opinione pubblica di parte democratica e antifascista, che le riconosceva il merito di avere impedito la nazistizzazione totale dell'Europa. Il ricordo della battaglia di Stalingrado confermava tale giudizio.

L'IMPERO COMUNISTA
Il successo sovietico nel dopoguerra si misurò tuttavia principalmente sulla diffusione dei regimi comunisti in Europa e in Asia. In tutta la parte orientale dell'Europa, occupata tra il 1944 e il 1945 dall'Armata Rossa, si insediarono, o attraverso elezioni o con atti di forza, governi comunisti fedeli a Mosca; in Cecoslovacchia, il Partito comunista con un colpo di stato portò il paese nell'orbita sovietica nel 1948.
Non altrettanto l'URSS riuscì a fare in Iugoslavia, paese nel quale la sconfitta del regime filonazista e la cacciata dei tedeschi erano state conseguite con l'azione decisiva degli eserciti di partigiani. La Iugoslavia riuscì a non venire completamente assorbita nell'orbita sovietica, adottando un regime socialista dai connotati antistalinisti sotto la guida del prestigioso capo partigiano Tito(i non allineati).
Nel dopoguerra, la divisione dell'Europa in due blocchi, l'uno orientale filosovietico, l'altro occidentale filoamericano, fu il risultato della conduzione politica e diplomatica della guerra. Sulla Germania la spartizione si esercitò compiutamente, con la sua divisione nel 1945 in quattro zone d'occupazione militare affidate a Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica, e con la creazione nel 1949 di due stati: la Germania occidentale, o Repubblica federale tedesca, appartenente al blocco capitalistico, e la Germania orientale, o Repubblica democratica tedesca, che divenne parte del blocco sovietico. La spartizione fu completata con la divisione dell'ex capitale Berlino in due settori, orientale e occidentale.
La guerra lasciò fissata nella storia europea quella che Churchill con una felice definizione chiamò la "cortina di ferro", ossia una frattura profonda all'interno dello stesso fronte dei vincitori. Tale frattura rendeva evidente ciò che per tutta la durata del conflitto era rimasto implicito, ossia la convinzione che sulle rovine del nazismo stesse rinascendo la grande rivalità mondiale tra capitalismo e comunismo.

ECONOMIE SOCIALISTE
Storicamente, la centralizzazione dell'economia, caratterizzata da una pianificazione e da una regolamentazione rigidamente centralizzate da parte dello stato è stata attuata nei paesi governati da regimi comunisti, ed è diffusa la tendenza a ravvisare nel crollo del sistema politico nell'Europa orientale (1989) e nell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (1991) una prova dell'impossibilità di attuare con successo la pianificazione centralizzata dell'economia; un giudizio più equilibrato, che tenga conto delle peculiarità economiche e politiche di quei paesi non può tuttavia accettare generalizzazioni e forzature. Non si può infatti dare una valutazione negativa della pianificazione centralizzata basandosi esclusivamente su un analisi di tipo economico.
Dopo la Rivoluzione russa del 1917, in Unione Sovietica il sistema decisionale centralizzato fu introdotto con la risoluzione del conflitto interno al partito in favore di Stalin, verso la metà degli anni Venti. Fino ad allora, si riteneva infatti che il successo della rivoluzione sarebbe dipeso dagli aiuti economici provenienti dai regimi rivoluzionari che a loro volta avrebbero dovuto svilupparsi in alcuni paesi dell'Europa occidentale e centrale nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale. Poiché l'ondata rivoluzionaria si placò senza aver prodotto gli effetti sperati, il governo bolscevico adottò politiche economiche che trasformarono radicalmente la società sovietica.
Intendendo ricostruire l'economia nel più breve tempo possibile, il governo sovietico inizialmente si pose come obiettivo di medio termine la realizzazione di uno sviluppo graduale dell'economia attraverso la crescita equilibrata di tutti i settori produttivi; la vittoria di Stalin su Lev Trotzkij, tuttavia, portò a una politica di industrializzazione forzata. Tre erano i progetti politici ed economici, peraltro strettamente interrelati: la collettivizzazione del settore agricolo (a partire dal 1931), il controllo centralizzato dell'economia attraverso piani quinquennali (a partire dal 1929) e la neutralizzazione dell'opposizione mediante modifiche dei meccanismi politici (a partire dal 1926).
La collettivizzazione dell'agricoltura mirava a eliminare la dipendenza del settore industriale da quello agricolo e a determinare un sovrappiù di produzione agricola. La soppressione del mercato e la centralizzazione delle decisioni dovevano massimizzare le risorse destinate al processo di industrializzazione. L'egemonia del Partito comunista sulla vita politica, la messa al bando dell'opposizione interna al partito e la trasformazione del soviet, il consiglio degli operai, dei soldati e dei contadini, da organismo elettivo formalmente indipendente in organismo burocratico-amministrativo nominato dal partito, favorirono poi tali politiche di accentramento del potere.
Queste riforme produssero effetti eccezionali, trasformando l'intera struttura dell'economia in un periodo molto breve. L'efficienza produttiva, misurata dal prodotto pro capite, salì dal 50% della media europea nel 1929 al 75% nel 1950 e poi al 90% nel 1970. La rapida industrializzazione consentì all'Unione Sovietica di svolgere un ruolo determinante nella sconfitta del nazionalsocialismo nel corso della seconda guerra mondiale e, in seguito, di sostenere l'enorme peso della difesa dal dopoguerra agli anni Ottanta.
Con l'eliminazione, però, di tutti i processi democratici, né i sindacati né i soviet furono in grado di arginare la proliferazione degli interessi settoriali attivati dalla gestione centralizzata dell'economia sulla base dei piani quinquennali. Paradossalmente, fu proprio la gestione centralizzata a determinare lo sviluppo di logiche settoriali che erano incompatibili con una pianificazione efficiente.
Operando in condizione di monopolio, i produttori non avevano incentivi a soddisfare i mutamenti delle esigenze dei consumatori o a migliorare la qualità dei propri prodotti; la conseguenza fu la sovrapproduzione di alcuni beni e la mancanza di altri. A questi squilibri a livello microeconomico si aggiunsero quelli registrati a livello macroeconomico. La centralizzazione delle decisioni politiche ed economiche riuscì effettivamente a superare alcune delle inadeguatezze delle economie di mercato (tra le quali la disoccupazione di massa, la sottoutilizzazione delle risorse, la profonda sperequazione dei redditi e le ampie fluttuazioni nei cicli economici), ma lo fece in assenza di consenso popolare e di democrazia.
Dopo il 1945, il modello politico-economico sovietico fu esportato nell'Europa orientale, dove fu favorita la formazione di governi dominati dai partiti comunisti. L'interesse di Mosca era però strategico piuttosto che economico: mantenere un cordone sanitario contro un possibile attacco da parte del blocco occidentale.
Il modello sovietico fu seguito dalla Cina in seguito alla vittoria dei comunisti nel 1949, così come dai regimi comunisti insediati nelle ex colonie del Terzo Mondo.
Il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), l'organizzazione dei paesi comunisti nata nel 1949 come risposta al piano Marshall e soppressa nel 1992, fu istituito proprio per sviluppare le economie nazionali e la cooperazione internazionale tra i paesi membri, nel tentativo di trasferire a livello transnazionale un modello di economia centralizzata. Inizialmente, il Comecon comprendeva la Repubblica democratica tedesca, la Cecoslovacchia, la Polonia, la Romania, la Bulgaria, l'Ungheria e l'URSS; vi aderirono in seguito Cuba e il Vietnam del Nord. Pur presentando notevoli differenze riguardo alla struttura economica, al livello di sviluppo e alle conoscenze tecnologiche, queste economie trassero vantaggi sostanziali dal commercio multilaterale e dagli aiuti reciproci. Mancava tuttavia un meccanismo per la determinazione dei vantaggi e per la distribuzione dei benefici derivanti dal commercio multilaterale, un fatto che, sommandosi all'assenza di un mezzo di pagamento perfettamente convertibile, rese difficili, se non impossibili, le transazioni commerciali. Lo sviluppo economico, dunque, ebbe luogo senza tenere conto delle opportunità di specializzazione.
In altri contesti, il modello sovietico produsse effetti disastrosi: la collettivizzazione dell'agricoltura in Etiopia fu indirettamente responsabile delle drammatiche carestie che colpirono il paese negli anni Ottanta. La Iugoslavia sviluppò il proprio modello di socialismo caratterizzandolo invece con una parziale presenza del mercato e con la gestione autonoma dei lavoratori nell'ambito di imprese in concorrenza.
In Cina, alla morte di Mao Zedong nel 1976, fu invece perseguita una forte liberalizzazione dell'economia che reintrodusse un'attività agricola gestita da agricoltori privati e incoraggiò l'imprenditorialità privata in un'economia sempre più orientata alle esportazioni.
Le riforme cinesi finirono col determinare straordinari tassi di crescita economica.
Nell'ambito del Comecon la riforma più incisiva venne però realizzata in Ungheria in seguito all'invasione sovietica e alla repressione violenta della rivoluzione del 1956. Il nuovo meccanismo economico introdusse alcuni elementi innovativi: quadri dirigenziali con un certo grado di libertà d'azione, imprese con finalità di profitto, determinazione dei prezzi dei beni attraverso il mercato e una parziale apertura dell'economia al commercio internazionale.
Questa operazione provocò alcune conseguenze negative: gli squilibri generati dalle forze di mercato in alcuni settori finirono col destabilizzare anche quelli ancora regolamentati; le direzioni aziendali sfruttarono le opportunità del mercato per arricchirsi, determinando una più iniqua distribuzione del reddito; si sviluppò un'estesa "economia sommersa".

CROLLO DEL REGIME COMUNISTA
In alcuni casi i regimi temevano che la riforma economica potesse alimentare le pressioni per ottenere la libertà politica e creare, come in Cecoslovacchia nel 1968 e in Polonia nel 1980, una minaccia al sistema stesso; i conservatori e i membri della nomenklatura temevano infatti che le riforme avrebbero messo in discussione i loro privilegi, soprattutto se non si fosse preventivamente schiacciata l'opposizione.
Questi timori associati al programma di riforma portarono, in parte, alla disfatta di Nikita Kruscev in Unione Sovietica e all'inizio degli "anni della stagnazione" (tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta), con Leonid Breznev. Anni che coincisero con un generale rallentamento della crescita economica come conseguenza, in parte, della mancanza di dinamismo del sistema e in parte del raggiungimento dello stadio di maturazione dell'economia. L'URSS non era tuttavia nelle condizioni di gestire questo cambiamento; il considerevole peso delle spese destinate alla difesa aggravava inoltre i danni provocati dal rallentamento dell'economia.
L'insostenibile situazione che si generò fu alla base della politica di ristrutturazione economica nota con il nome di perestrojka, introdotta da Michail Gorbaciov e accompagnata in politica dalla glasnost ("trasparenza"), con cui Gorbaciov cercò di allentare i vincoli imposti dalla censura. In breve tempo, tuttavia, questa strategia sfuggì al controllo di Gorbaciov, producendo dapprima una rinascita dei movimenti nazionalisti a lungo repressi e poi provocando una rivolta da parte dei minatori e dei trasportatori. Nel 1991 il tentativo di attuare un colpo di stato da parte dei conservatori preannunciò il declino dell'URSS; nel frattempo le rivoluzioni del 1989 avevano fatto crollare i regimi comunisti dell'Europa orientale.

VITTORIA E CRISI DEL CAPITALISMO
Alla seconda guerra mondiale seguì un trentennio di crescita economica e di tendenziale piena occupazione dei paesi capitalistici, ma anche di grossi conflitti sociali e di un'estesa critica al modo di produzione e alla "civiltà capitalistica".
Negli anni Settanta e Ottanta, al riaffacciarsi di una grave e generale crisi economica, i governi conservatori di Stati Uniti e Gran Bretagna lanciarono un forte attacco alle politiche economiche keynesiane adottate fino ad allora, nell'intento di dare vita a un sistema economico radicalmente alternativo, di ridare slancio all'iniziativa privata (per esempio riducendo il carico fiscale delle imprese) e di ridurre il ruolo dello stato (privatizzazioni, taglio generalizzato della spesa dello stato in favore della sanità, della scuola, dell'occupazione ecc.).
La terapia liberista, benché di breve durata, provocò un'autentica rivoluzione, non solo economica, ma nei costumi e nella cultura della gran parte dei paesi industriali, e se da un lato favorì la ripresa economica e in alcuni casi l'occupazione (sebbene in molti casi precaria e priva di tutele), provocò anche il netto peggioramento delle condizioni di vita delle classi sociali deboli e marginali. Agli inizi degli anni Novanta, nello stesso momento in cui il sistema democratico e capitalista occidentale vinceva la sua lunga e aspra battaglia contro il blocco comunista, i governi artefici della "rivoluzione liberista" venivano sconfitti.
Il dibattito sul capitalismo è destinato a continuare, anche perché il sistema capitalistico si è negli ultimi anni profondamente trasformato e continua a trasformare il panorama mondiale nel quale agisce.



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